giovedì 1 settembre 2016

Lavoratore dequalificato: rivendicazioni, danni e nuove mansioni



La legge stabilisce che il lavoratore deve essere addetto alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero comunque a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte,, senza alcuna diminuzione delle retribuzione. Ciò significa che il lavoratore non può essere adibito a mansioni inferiori e l'eventuale comportamento contrario del datore di lavoro può essere impugnato avanti il Giudice del lavoro per ottenere l'accertamento giudiziale dell'intervenuta dequalificazione e la conseguente riassegnazione a mansioni adeguate e corrispondenti alla professionalità acquisita.

Ovvero chi ritiene di essere utilizzato in modo improprio, in violazione della legge, mediante assegnazione a mansioni che effettivamente siano di contenuto professionale inferiore a quelle precedentemente svolte, può rivolgersi, anche a mezzo di procedura d'urgenza, all'autorità giudiziaria.

Costituisce poi un principio ormai acquisito dalla giurisprudenza il fatto che un demansionamento o una dequalificazione protratta nel tempo si riflette sull'immagine professionale del lavoratore e quindi sul suo valore sul mercato del lavoro e gli determina dei danni, che sono stati ripetutamente ritenuti risarcibile dalla legge.

Si parla espressamente di danni e non di danno perché in caso di dequalificazione o demansionamento potrebbero coesistere diversi tipi di danni che, come spesso accade, potrebbero essere tutte contemporaneamente presenti. Essi sono:

il danno patrimoniale (o professionale);

il danno biologico;

il danno esistenziale;

Il danno patrimoniale (o danno professionale) è probabilmente il più semplice da dimostrare e richiedere. Allorquando un lavoratore è stato ingiustamente inquadrato in un livello inferiore a quello a cui aveva diritto, la parte datoriale è obbligata a risarcire il lavoratore corrispondendogli tutte le differenze retributive ed economiche a cui sarebbe stata obbligata se il lavoratore fosse stato correttamente collocato.

Il danno biologico è sicuramente più complesso in quanto non può prescindere da una valutazione medica e medico-legale. Qualora il lavoratore lamenti di aver subito delle lesioni che si sono riverberate sul suo stato fisico e/o psicologico a causa del demansionamento, può chiedere che un medico accerti tale stato e conseguentemente, sulla base della perizia medico- legale, avanzare la richiesta del relativo risarcimento. Per la quantificazione e liquidazione del danno biologico esistono delle specifiche tabelle adottate da tutti i tribunali.

Nella maggior parte dei casi è stato riconosciuto un risarcimento pari a una somma corrispondente a circa la metà delle retribuzioni percepite dal lavoratore nel corso del periodo di dequalificazione. In alcuni casi poi è stato ritenuto che il protratto demansionamento, traducendosi anche in una sofferenza fisicopsichica, può aver prodotto danni alla salute del dipendente, e nel caso di prova rigorosa del nesso di causalità tra comportamento illegittimo del datore di lavoro e malattia - da accertare in genere mediante apposita consulenza tecnica medica - è stato anche riconosciuto il diritto al risarcimento del danno biologico.

Il lavoratore non ha solo il dovere di svolgere le mansioni di sua competenza, ma anche un vero e proprio diritto di essere messo nelle condizioni di svolgere tali mansioni. Conseguentemente, l’eventuale assegnazione di compiti non attinenti alla sua professionalità, ovvero lo svuotamento delle mansioni da ultimo svolte, costituiscono comportamenti senza dubbio illegittimi.

In tali casi il lavoratore subisce un danno che investe la sfera della sua professionalità, diminuendo progressivamente l’insieme delle sue conoscenze teoriche e delle capacità tecnico-professionali con un conseguente scadimento del livello professionale del lavoratore demansionato. La perdita di competenze professionali, inoltre, compromette anche il valore complessivo del dipendente nel mercato del lavoro. Quindi il lavoratore ingiustamente privato del proprio lavoro, o che si veda costretto a svolgere un lavoro non pertinente con il suo inquadramento e con la sua professionalità, ha diritto al risarcimento del danno subito; risarcimento che, peraltro, risulta non sempre facile da quantificare, e che comunque si dimostra spesso inidoneo a compensare il pregiudizio subito dal lavoratore.

Ne consegue, dunque, che in tale ipotesi il lavoratore ha diritto innanzitutto di essere reintegrato in mansioni compatibili con la propria effettiva professionalità. In secondo luogo, il prestatore di lavoro ha diritto al risarcimento del danno patito che può essere quantificato in via equitativa utilizzando come parametro la retribuzione mensile del lavoratore, o quanto mento una quota significativa della stessa, per tutto il periodo della dequalificazione.

E’ onere del lavoratore fornire la prova del pregiudizio alla professionalità. Il danno professionale, quindi, non sarebbe più, come ritenuto dalla precedente giurisprudenza, peraltro maggioritaria, implicito alla dequalificazione, ma dovrebbe essere provato con specifici fatti ed allegazioni.

E’ bene ricordare che il datore di lavoro può sempre modificare le mansioni del lavoratore, a condizione però che si tratti di mansioni superiori o almeno equivalenti. A tale riguardo, va anche precisato che l'equivalenza della mansione non ricorre necessariamente tra due mansioni di pari livello ; infatti, due mansioni, per essere equivalenti, devono appartenere al medesimo ambito di professionalità: così, sarebbe dequalificante adibire un lavoratore tecnico a mansioni di tipo amministrativo, anche se le due mansioni appartenessero al medesimo livello di inquadramento. può accadere che il datore di lavoro non cambi radicalmente la mansione del proprio dipendente, ma si limiti ad aggiungere una mansione nuova e dequalificante rispetto a quella che veniva precedentemente svolta. In questo caso, si parla di mansioni promiscue.

Il lavoratore non è tenuto a svolgere le mansioni dequalificanti che gli venissero richieste, in quanto si tratterebbe di un ordine illegittimo. Tuttavia, bisogna avvertire che il rifiuto di cui si parla è legittimo a condizione che il lavoratore rispetti il generale principio della buona fede : in altri termini, il lavoratore, che rifiuti lo svolgimento della nuova mansione dequalificante, esplicitamente deve offrire la propria disponibilità ad eseguire la mansione precedente. Si osservi inoltre che la Suprema Corte ha ritenuto che il rifiuto del lavoratore a svolgere mansioni inferiori in modo occasionale o per un periodo meramente transitorio integra un grave inadempimento che può legittimarne il licenziamento da parte del datore di lavoro.

Sussiste dunque nel nostro ordinamento un divieto di variazione in peius, divieto che si ispira al principio di tutela della professionalità acquisita dal prestatore di lavoro, la quale pertanto non deve essere “dispersa”. Secondo la Suprema Corte, anche nel caso in cui una mansione si sia “esaurita” e non sia stata affidata alla esecuzione di altro lavoratore, ugualmente può sussistere un demansionamento ove le mansioni affidate siano inferiori a quelle proprie della qualifica o alle ultime svolte dal lavoratore. Ogni ipotesi di dequalifica va infatti sempre concordata tra le parti del rapporto di lavoro (nei limitati casi in cui è ammessa). Al riguardo occorrerà vedere se tali principi verranno confermati anche in base alla nuova normativa.

Va anche detto che, quand'anche venisse adottata questa precauzione, il lavoratore non sarebbe al riparo da ogni inconveniente. Infatti, non è da escludersi che il datore di lavoro, a fronte del rifiuto, licenzi il lavoratore. Ebbene, la giurisprudenza subordina la dichiarazione di illegittimità di un simile licenziamento al preventivo accertamento che la mansione rifiutata dal lavoratore fosse realmente dequalificante. In caso contrario, il licenziamento sarebbe legittimo.

Si capisce dunque il rischio cui un lavoratore andrebbe incontro qualora rifiutasse di eseguire la nuova mansione ritenuta dequalificante. In primo luogo, la valutazione, compiuta dal lavoratore interessato in ordine alla ricorrenza della dequalificazione, potrebbe essere inesatta. In secondo luogo, quand'anche tale valutazione fosse corretta, il lavoratore correrebbe pur sempre il rischio di non riuscire a provare, davanti al giudice, di aver effettivamente subito una dequalificazione. Pertanto, in simili casi, il lavoratore perderebbe, oltre alla mansione originaria, anche il posto di lavoro.

Per non incorrere in rischi così gravi, è dunque preferibile che il lavoratore, pur manifestando il proprio dissenso in ordine alla assegnazione della nuova mansione, esegua l'ordine impartito dal datore di lavoro, provvedendo al più presto a far accertare in sede giudiziaria la dequalificazione subita. Solo in presenza di una condanna, nei confronti del datore di lavoro, ad adibire il lavoratore a mansioni equivalenti, e a fronte dell'inottemperanza da parte del datore di lavoro, il lavoratore può rifiutare la mansione dequalificante senza incorrere nei rischi sopra indicati.

E’ possibile derogare a il diritto del lavoratore al fine di tutelarne uno superiore, quale ad esempio quello alla conservazione del posto di lavoro. In sostanza, secondo tale orientamento, la dequalificazione del lavoratore è legittima quando costituisce l’unica alternativa al licenziamento; in questo caso, l’attribuzione di mansioni inferiori potrebbe considerarsi giustificata tanto se disposta autonomamente dal datore di lavoro, quanto se attuata a seguito di un accordo sindacale, e comunque indipendentemente dal consenso del lavoratore. A sostegno di tale tesi viene invocata anche una norma di legge che, nell’ambito della procedura che regola il licenziamento collettivo, autorizza il sindacato a firmare accordi che prevedano il riassorbimento di lavoratori ritenuti eccedenti dall’azienda anche in mansioni diverse ed inferiori rispetto a quelle dagli stessi svolte in precedenza.



Comporto e licenziamento vediamo la tempistica corretta



Per periodo di comporto  si intende l’arco temporale in cui, in caso di malattia, il lavoratore ha diritto di conservare il posto di lavoro, ovvero non può essere licenziato se non per giusta causa, giustificato motivo oggettivo o per cessazione totale dell’attività di impresa. Il licenziamento è ammesso scaduta la finestra temporale prevista dalla legge o dai CCNL, a meno che lo stato di malattia non dipenda dalla violazione di misure di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.

Il datore di lavoro può consentire al dipendente la ripresa del lavoro nonostante le tante assenze abbiano portato al superamento del periodo di comporto, senza che questo comporti la rinuncia al diritto di licenziamento per superamento del comporto. Il tutto a patto che l’intimazione del licenziamento dipenda effettivamente dal fatto contestato, come chiarito dalla sentenza della Corte di Cassazione n.16462/2015.

Qualora il licenziamento venga intimato immediatamente, al superamento del periodo di comporto, il datore non è obbligato a fornire alcuna prova del fatto che il recesso è dipeso dalla protratta assenza e ricade sul lavoratore l’onere di provare che tale riammissione costituisce una manifestazione tacita della volontà del datore di lavoro di rinunciare al diritto di recesso. Prova invece necessaria in caso di licenziamento intimato dopo un apprezzabile intervallo di tempo. La valutazione della congruità o meno del tempo intercorso fra la ripresa del lavoro ed il licenziamento spetta al giudice che deve tenere conto soprattutto delle caratteristiche organizzative e dimensionali dell’impresa.

Per il licenziamento è necessario la convalida presso la Direzione territoriale del lavoro (Dtl) competente per territorio nel caso di:

dimissioni della lavoratrice in gravidanza,

dimissioni della lavoratrice e lavoratore nei primi 3 anni di vita del bambino,

dimissioni della lavoratrice e lavoratore nei primi 3 anni di accoglienza del minore adottato o in affidamento.

In tutti gli altri casi di dimissioni, come prevedono ci sono due possibilità:

convalida presso la Dtl o Centro per l’Impiego competente

dichiarazione firmata dalla lavoratrice o lavoratore, in calce alla ricevuta di trasmissione della comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro, inviata tramite l’UniLav al Centro per l’Impiego.

In caso del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (motivi economici) dal 18 luglio 2012 scatta l’obbligo di conciliazione davanti alla Dtl.

Per cercare un accordo fra le parti che eviti il contenzioso per  illegittimità del licenziamento e riguarda le aziende con oltre 15 dipendenti, in caso di licenziamento per «ragioni inerenti ‘attività produttiva, organizzazione del lavoro e regolare funzionamento di essa» l’azienda deve dare comunicazione alla Dtl (per conoscenza al lavoratore) del luogo in cui il lavoratore presta la sua opera e della volontà di procedere al licenziamento per motivo oggettivo, indicando i motivi e le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore sul mercato del lavoro.

Entro 7 giorni dalla ricezione della comunicazione, la Dtl convoca datore di lavoro e lavoratore, che ne sottoscrive copia per ricevuta.

L’incontro fra le parti si svolge davanti alla commissione provinciale di conciliazione di cui all'articolo 410 del codice di procedura civile:

le parti possono essere assistite dalle organizzazioni di rappresentanza cui sono iscritte o conferiscono mandato, oppure da un componente della rappresentanza sindacale dei lavoratori, da un avvocato o un consulente del lavoro;

il tentativo di conciliazione dura massimo 20 giorni dall’invio della convocazione, fatta salva l’ipotesi in cui le parti non ritengano entrambi di voler proseguire la discussione e raggiungere un accordo;

durante la procedura le parti, con la partecipazione attiva della commissione, procedono ad esaminare anche soluzioni alternative al recesso.

Se la conciliazione ha esito negativo, e comunque entro il termine di 20 giorni stabilito dalla norma, l’azienda può comunicare il licenziamento al lavoratore.  A questo punto, il lavoratore può eventualmente fare ricorso impugnando il licenziamento.  Il giudice, nel determinare eventualmente l’indennità risarcitoria prevista in caso del licenziamento illegittimo (da 12 a 24 mensilità) tiene conto del comportamento delle parti.

Se la conciliazione ha esito positivo il lavoratore ha diritto all’Aspi Assicurazione generale per l’impiego) e può essere anche previsto, al fine di facilitarne il ricollocamento professionale, l’affidamento del lavoratore ad un’agenzia di somministrazione, di intermediazione o di supporto alla ricollocazione sul mercato.

Onere della prova

Nella sentenza si legge inoltre che:

“L’onere della prova della sussistenza di tale nesso (che è in “re ipsa” in ipotesi di licenziamento intimato non appena superata la soglia del comporto) è a carico del datore di lavoro nel caso di licenziamento intimato dopo un apprezzabile intervallo, mentre, nel caso di licenziamento intimato dopo pochi giorni dalla riammissione in servizio, è onere del lavoratore provare che tale riammissione costituisce nel caso concreto – eventualmente in concorso con altri elementi – una manifestazione tacita della volontà del datore di lavoro di rinunciare al diritto di recesso. Tale criterio temporale di discriminazione dell’onere probatorio ha, peraltro, valore solo indicativo, spettando in definitiva al giudice del merito (che è tenuto a dare ragione del proprio convincimento) valutare la congruità o meno (con riguardo, in particolare, alle caratteristiche organizzative e dimensionali dell’impresa) del tempo intercorso fra la ripresa del lavoro ed il licenziamento”.

Le assenze del lavoratore per malattia non giustificano, tuttavia, il recesso del datore di lavoro - in ipotesi di superamento del periodo di comporto - ove l'infermità sia, comunque, imputabile a responsabilità dello stesso datore di lavoro - in dipendenza della nocività delle mansioni o dell'ambiente di lavoro, che abbia omesso di prevenire o eliminare, in violazione dell'obbligo di sicurezza o di specifiche norme - incombendo, peraltro, al lavoratore l'onere di provare il collegamento causale fra la malattia - che ha determinato l'assenza (e, segnatamente, il superamento del periodo di comporto) - ed il carattere morbigeno delle mansioni espletate.



Certificato di malattia: la verifica dell’ invio spetta al lavoratore



La visita fiscale è un accertamento medico previsto dallo Statuto dei Lavoratori, e predisposto dall’INPS o dal datore di lavoro per verificare l’effettivo stato di malattia del dipendente assente per motivi di salute. La visita fiscale, infatti, non si limita a un mero controllo della presenza al proprio domicilio del lavoratore in malattia, bensì consiste in una vera e propria verifica della sussistenza degli impedimenti fisici al lavoro.

E’ indispensabile un doppio adempimento da parte del lavoratore in malattia: avvisare tempestivamente il datore di lavoro della propria assenza e verificare che la procedura telematica di trasmissione del certificato di malattia, da parte del medico curante, all’NPS sia avvenuta in modo regolare. La Corte di Cassazione, con la sentenza n.15226/16 ha stabilito che se l’Inps non ha ricevuto il certificato di malattia e il datore non ha potuto effettuare il controllo, risulta legittimo il licenziamento disciplinare intimato per una prolungata assenza ingiustificata.

La Corte ha affermato che l'avere richiesto al medico il certificato non esaurisse l'obbligo di attenzione della lavoratrice, considerato che restano comunque fermi l'obbligo contrattualmente previsto del lavoratore di segnalare tempestivamente al datore di lavoro la propria assenza e l'onere di controllare l'effettivo azionamento da parte del medico della procedura di trasmissione telematica del certificato, anche richiedendo il numero di protocollo telematico identificativo del certificato di malattia.

Esiste l'obbligo del lavoratore, in caso di malattia, di avvertire l'azienda entro il primo giorno di assenza e di inviare alla medesima entro 2 giorni dall'inizio il certificato medico attestante la malattia o il suo prolungamento, con l'aggiunta che, in mancanza di ciascuna delle comunicazioni, l'assenza verrà considerata ingiustificata. Ne deriva il concetto di assenza ingiustificata (fondante il licenziamento) non riguarda soltanto la mancanza di ragione giustificativa in senso assoluto, ma anche la mancata rituale comunicazione al datore di lavoro dell'esistenza della malattia o del suo prolungamento, comunicazione che nel caso esaminato è mancata.

La Corte ha osservato che la massima sanzione (licenziamento) è legittimata dalle previsioni della contrattazione collettiva, che la ricollega all'assenza ingiustificata protratta oltre i 4 giorni consecutivi. Nella definizione complessiva della gravità dell'addebito in rapporto alla personalità della lavoratrice, per stabilire l’adeguatezza della sanzione, sono state valutate le ulteriori circostante contestuali e successive al fatto contestato, traendo conferma della gravità della mancanza.

A verificare l’invio del certificato di malattia deve essere anche il lavoratore, un doppio adempimento dunque:

avvisare tempestivamente il datore di lavoro della propria assenza, obbligo previsto da contratto;

verificare che la procedura telematica di trasmissione del certificato di malattia, da parte del medico curante, all’INPS sia avvenuta correttamente, anche richiedendo il numero di protocollo telematico identificativo del certificato di malattia.

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Quest’ultima era la situazione portata all'attenzione della Corte di Cassazione che ha pertanto ritenuto legittima la massima sanzione visto che la contrattazione collettiva applicata prevede proprio il licenziamento in caso di assenza ingiustificata protratta oltre i 4 giorni consecutivi.

Non è sufficiente, quindi, richiedere al medico il certificato.

Tale difetto di comunicazione si sostanzia anche nel mancato controllo dell’effettività della trasmissione telematica del certificato da parte del medico che spetta al lavoratore, anche eventualmente richiedendo il numero di protocollo telematico identificativo del documento che attesti l’avvenuto invio dello stesso.

Legittimo dunque il licenziamento per assenza ingiustificata, quando il lavoratore, nonostante l’emissione di un certificato medico, non comunica all'azienda la malattia e non controlla che l’invio telematico del certificato all’INPS da parte del medico sia effettivamente avvenuto.




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