lunedì 4 giugno 2018

Pensioni quota 100 cosa c'è da sapere




Pensioni quota 100, in pratica è la possibilità di uscire dal lavoro quando la somma dell'età anagrafica e quella degli anni di contributi versati dal lavoratore è almeno pari a 100 (ad esempio: si potrà uscire dal lavoro con 36 anni di contributi e 64 anni d'età). L'espressione si riferisce alla somma di età anagrafica e contributiva che potrebbe essere necessaria per andare in pensione“. Le pensioni a quota 100 (uscita con un mix di età anagrafica, partendo da almeno 64 anni, e contributiva) e quota 41 anni (a prescindere dall'anzianità contributiva) da estendere a tutti i lavoratori a differenza di quanto previsto attualmente con la possibilità di uscita anticipata per il soli “precoci”.

Questo sistema conviene soprattutto a chi ha accumulato molti anni di contributi, perché gli consentirà di andare in pensione prima rispetto a quanto ora previsto con la legge Fornero.

Ma in cosa consiste quota 100 e come funziona? Si tratta della possibilità per i lavoratori di andare in pensione quando la somma dell'età anagrafica e degli anni di contributi versati è pari almeno a 100. Possono poi essere previsti dei paletti riguardo all'età minima di uscita e a un minimo di anni di contribuzione.
Nel contratto pentaleghista c'è l'impegno a "provvedere all’abolizione degli squilibri del sistema previdenziale introdotti dalla riforma delle pensioni cd. 'Fornero', stanziando 5 miliardi per agevolare l’uscita dal mercato del lavoro delle categorie ad oggi escluse".
"Daremo fin da subito la possibilità di uscire dal lavoro - si legge nel testo - quando la somma dell’età e degli anni di contributi del lavoratore è almeno pari a 100, con l’obiettivo di consentire il raggiungimento dell’età pensionabile con 41 anni di anzianità contributiva, tenuto altresì conto dei lavoratori impegnati in mansioni usuranti".
Nel contratto si parla anche della necessità di "riordinare il sistema del welfare prevedendo la separazione tra previdenza e assistenza". "Prorogheremo - scrivono 5S e Lega - la misura sperimentale 'opzione donna' che permette alle lavoratrici con 57-58 anni e 35 anni di contributi di andare in quiescenza subito, optando in toto per il regime contributivo".
Sui costi della riforma pensionistica lanciata da 5 Stelle e Lega è intervenuto nelle scorse settimane il presidente dell'InpsTito Boeri. Permettere di andare in pensione con quota 100 tra età e contributi, come previsto dal contratto di governo, avrebbe un costo, secondo la stima di Boeri, di 15 miliardi per il primo anno e di un massimo di 20 miliardi all'anno per i successivi.

“L’idea è di mandare in pensione chi ha almeno 64 anni con 36 di contributi, oppure 41 anni e mezzo di contributi”. Alberto Brambilla, esperto di previdenza e già sottosegretario al Welfare nei governi Berlusconi tra il 2001 e il 2005, ha scritto la parte del contratto di governo Lega-M5s sul “superamento della legge Fornero”. In breve, la «quota 100» si raggiunge con la somma di 36 anni di contributi e almeno 64 anni di anzianità. Se invece si hanno 41 anni di contributi versati, la soglia minima di età per andare in pensi ne non viene considerata. Tutto questo, come da contratto, verrebbe portato avanti «tenuto conto dei lavoratori impegnati in mansioni usuranti». Il riferimento è all’Ape sociale, che permette di andare in pensione a 63 o addirittura a 62 anni, e che quindi non dovrebbe essere toccata.

I canali di uscita saranno due. Il primo, la cosiddetta quota 100, richiederà che l'interessato abbia maturato contemporaneamente un requisito di età e uno di contribuzione, il cui totale in anni deve appunto dare 100. Ma proprio per limitare le uscite è previsto un requisito minimo di età a 64 anni. Quindi 64 più 36 di contributi, ma non 63+37: eventualmente potrebbe essere prevista anche la possibilità di lasciare con 65+35, considerando che 35 anni di contribuzione è il limite minimo sempre richiesto anche per la pensione di anzianità prima della Fornero.



Articolo 18: obblighi dell’azienda in caso di lavoratore ingiustamente licenziato



La Corte Costituzionale salva il nuovo art. 18 dello Statuto dei lavoratori. La violazione dell'ordine provvisorio di riassunzione espone l'azienda a risarcire i danni. Con la sentenza n. 86/2018, l'organo di garanzia costituzionale riconosce, la natura risarcitoria, e non retributiva, all'indennità che spetta al lavoratore che non venga immediatamente reintegrato nel posto di lavoro per ordine del giudice. L'indennità va restituita in caso di successiva riforma del provvedimento. Tuttavia, il datore di lavoro che non esegue l’ordine di reintegrazione provvisoriamente esecutivo, perché preferisce puntare sulla sua successiva riforma, può essere messo in mora dal dipendente e andare incontro al risarcimento del danno per la mancata reintegrazione, da quando è stato emesso l’ordine a quando è stato riformato.

La sentenza è tornata ad analizzare l’articolo 18 dello Statuto, come indicato dalla legge 92/2012. La questione interessa perciò i vecchi assunti, non le nuove tutele crescenti introdotte dal Jobs act dal 7 marzo 2015; la riforma del governo Monti, che ha operato una prima limatura alla tutela reale, ha previsto, in caso di recesso datoriale ingiustificato, accanto alla reintegra, il pagamento di un’indennità monetaria (entro il tetto delle 12 mensilità) per favorire il lavoratore nel periodo intercorrente tra la pronuncia e l’effettiva ripresa dell’attività lavorativa. Ebbene, il Tribunale di Trento ha messo nel mirino la norma, evidenziando come la qualificazione dell’indennità come risarcitoria «sarebbe irragionevole», in violazione dell’articolo 3 della Costituzione, determinando «un’ingiustificata disparità di trattamento» in relazione alla repetibilità delle somme assegnate al lavoratore, tra la posizione del datore che ottemperi all’ordine di reintegra, e quella dell’imprenditore che non vi dia esecuzione.

Per capire meglio la portata della decisione di cui alla sentenza 86/2018 riportiamo di seguito il comunicato della Corte Costituzionale del 23 aprile 2018.

Nella sentenza si legge che “la concreta attuazione dell’ordine di reintegrazione non può prescindere dalla collaborazione del datore di lavoro poiché ha per oggetto un facere infungibile”. Tuttavia, l’inadempimento del datore di lavoro configura un “illecito istantaneo ad effetti permanenti”, da cui deriva un’obbligazione risarcitoria del danno da parte del datore nei confronti del dipendente non reintegrato. La norma denunciata, quindi, non è irragionevole ma “coerente al contesto della fattispecie disciplinata” perché – spiega la Corte – l’indennità è collegata a una “condotta contra ius del datore di lavoro e non a una prestazione di attività lavorativa da parte del dipendente”.

Di qui la natura risarcitoria (e non retributiva) dell’indennità, e l’obbligo del lavoratore di restituirla qualora l’ordine di reintegrazione venga riformato. La Corte, però, ha aggiunto che “scommettere” sulla riforma dell’ordine di reintegrazione – senza eseguirlo – può essere fonte di risarcimento dei danni da parte dell’azienda. Il lavoratore, infatti, può mettere in mora il datore di lavoro che si rifiuti di adempiere l’ordine di riassunzione provvisoriamente esecutivo. E la messa in mora – nello speciale contesto della disciplina di favore del lavoratore – gli consentirà di chiedere all’azienda, in via riconvenzionale, il risarcimento dei danni subiti per il mancato reintegro, da quando è stato emesso l’ordine provvisoriamente esecutivo a quando è stato riformato.

Per la Corte la questione «è infondata»: l’inadempimento datoriale configura, infatti, un «illecito istantaneo ad effetti permanenti», da cui deriva un’obbligazione risarcitoria del danno. La norma denunciata, pertanto, non è irragionevole ma «coerente al contesto della fattispecie disciplinata» perché, spiega la Corte, l’indennità è collegata a una «condotta contra ius del datore e non a una prestazione di attività lavorativa da parte del dipendente». Di qui la sua natura risarcitoria (e non retributiva).

La Consulta ha poi concluso che “scommettere” sulla riforma della pronuncia di reintegra, senza eseguirla, può essere fonte di risarcimento danni da parte dell’azienda (il lavoratore può mettere in mora l’impresa e chiedere i danni in via riconvenzionale).

«La pronuncia della Corte – ha commentato Sandro Mainardi dell'Università di Bologna) fa chiarezza, esattamente qualificando l’«indennità risarcitoria» dovuta per la mancata ottemperanza all’ordine di reintegrazione quale «risarcimento del danno» per condotta contra ius e non, come nel regime previgente, quale corrispettivo collegato alla mancata prestazione di lavoro da parte del dipendente. La soluzione di ritenere non fondata la questione appare quindi coerente con il quadro normativo introdotto dalla riforma del 2012, ad esempio con riguardo alla deduzione dell’aliunde perceptum; ed anche equilibrata rispetto alle posizioni assunte dalle parti a seguito dell’ordine di reintegrazione».

Non reintegrare un lavoratore nel suo posto di lavoro a seguito di una sentenza esecutiva provvisoria, potrebbe costare caro all'azienda. È questo l'effetto pratico della sentenza della Corte, risarcimento danni. L'argomento è da sempre fonte di polemiche. Il Jobs act ha infatti abolito la tutela della reintegra stabilita dall'articolo 18 in caso di licenziamento ingiusto, prevedendo un indennizzo.



sabato 2 giugno 2018

Srl semplificata, requisiti e costi





Considerate le interessanti opportunità di abbattimento delle barriere all'ingresso, con tutti i vantaggi che la normativa sulle S.r.l. semplificate prevede in termini di diminuzione dei costi e degli oneri notarili e camerali normalmente previsti per altre forme di società di capitali e/o di persone, appare estremamente allettante la possibilità di realizzare una società con questa peculiare forma giuridica.

La SRL semplificata è a tutti gli effetti è una soggetto giuridico al pari di una SRL che per la sua costituzione ci vorrà un capitale minimo da sottoscrivere simbolico e pari ad un euro e al rispetto di alcuni requisiti e comunque con capitale inferiore ai 9.999 euro che dovrà essere interamente sottoscritto e versato. Il capitale sociale dovrà essere formato solo di denaro non potendo prevedere anche conferimento in natura, d’opera o immobili o altro bene o servizio diverso.

La disciplina sulle Srl semplificata(società a responsabilità limitata a 1 euro) è stata perfezionata con il Decreto Lavoro 2013, che ha eliminato alcuni paletti di quella originaria del 2012 lasciando intatte tutte le agevolazioni in materia di minori costi di avvio e di statuto standard – integrabile ma inderogabile rispetto ai suoi tratti distintivi. Vediamo dunque come aprire una srl semplificata e quanto costa.

Requisiti per aprire una Srls
L’atto costitutivo deve essere redatto per atto pubblico e contenere i dati anagrafici e requisiti della società, indicati all’articolo 3 del Dl 1/2012convertito con la legge 27/2012, che ha introdotto l’articolo 2463-bis del Codice civile, modificato dal comma 13 dell’articolo 4 del decreto lavoro (Dl 76/2013):

La denominazione sociale contiene l’indicazione di società a responsabilità limitata.
Il capitale sociale è compreso fra uno e 9.999 euro, è sottoscritto e interamente versato alla data della costituzione. Il conferimento deve essere in denaro e versato all’organo amministrativo.  Vanno indicati gli amministratori (che, rispetto alla regola originaria, non devono più essere soci).

Adempimenti e costi
Non si paga. Per l’atto costitutivo, il notaio controlla i requisiti senza chiedere onorari ed entro 20 giorni deposita l’atto presso l’Ufficio del Registro Imprese tramite software ComUnica, senza spese per i diritti di segreteria e bollo.

Si paga. I costi dovuti sono il diritto annuale alla Camera di Commercio, l’imposta di registro, la denuncia inizio attività.

Un discorso a parte meritano i costi relativa alla tassa di concessione governativa per i libri sociali.

Per le Srls, infatti, c’è l’obbligo di contabilità ordinaria, nonché di deposito del bilancio di esercizio presso il registro imprese e di tenuta dei libri sociali.

E’ possibile modificare lo statuto per passare da Srl semplificata a ordinaria ma serve che l’atto costitutivo (o Statuto) risultante dalle modificazioni sia conforme alla disciplina del modello di destinazione e che siano rispettati i requisiti soggettivi dei soci. Per quanto riguarda in particolare il passaggio da Srl semplificata alla forma di Srl ordinaria, è necessario il contestuale aumento del capitale sociale ad almeno 10mila euro, con modalità analoghe a quanto avviene in caso di trasformazione di una srl (con capitale inferiore a euro 120.000) in SpA, senza che risulti necessario accertare il valore del patrimonio sociale mediante una relazione di stima. Quindi, non è necessaria la perizia di stima del patrimonio sociale che, invece, è per esempio richiesta nel caso di trasformazione di una società di persone in Srl. Questo perché in sostanza si rimane all’interno della disciplina della stessa tipologia societaria, la Srl.

Infine nel caso opposto, di passaggio da Srl ordinaria a Srls, è necessario ridurre il capitale sociale sotto i 10mila euro. Ne consegue che il passaggio può essere deliberato:

con efficacia immediata (salva l’iscrizione nel registro delle imprese) in caso di riduzione del capitale sociale per perdite, anche ai sensi dell’art. 2482-ter del codice civile;

con efficacia subordinata al decorso del termine di 90 giorni nel caso in cui la riduzione del capitale sociale avvenga in base all‘art 2482 del codice civile (rimborso ai soci).

Oltre alla stipula dell’atto costitutiva e all'apertura della partita Iva dovrete effettuare anche l’iscrizione nel Registro delle imprese che nei casi di una SRL ordinaria saranno soggetti al pagamento di imposte di bollo e diritti di segreterie mentre in questi casi saranno esenti e non so se l’ho scritto prima ma anche gli onorari del Notaio dovranno essere pari a zero se non limitatamente al versamento dell’imposta di registro.



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