sabato 21 luglio 2018

Pensioni, cos'è quota 41



Il tema pensioni è caldo in questi giorni e tra le ipotesi possibili c'è quella di un passo indietro in merito alla quota 41, ovvero lo strumento che consente di andare in pensione, indipendentemente dall'età anagrafica, una volta maturati 41 anni di contributi. Secondo Boeri la quota 41 aggiunta alla quota 100 (con cui invece si può andare in pensione, una volta compiuti 64 anni, se la somma dell'età anagrafica e dei contributi maturati dà come risultato 100) costerà 11 miliardi di euro nell'immediato, 18 miliardi a regime; una spesa ingente per lo Stato ed è per questo che si sta anche valutando l'idea di portare la quota 41 a quota 42, innalzando di un anno il requisito contributivo previsto. Al momento però si tratta solamente di indiscrezioni, poiché la quota 41 per tutti non fa ancora parte del nostro ordinamento e, stando alle ultime notizie sulle pensioni, non lo farà prima del 2020.

La quota 41 può essere già richiesta da alcune categorie di lavoratori. Si tratta dei lavoratori precoci, ossia di coloro che prima di compiere il 19esimo anno di età hanno maturato almeno 12 mesi di contributi. Per poter accedere a questo strumento non è necessario che i 12 mesi siano continuativi. La quota 41, però, subirà una modifica dal primo gennaio 2019, complice l'adeguamento con le aspettative di vita che riguarderà da vicino anche la pensione di vecchiaia e quella anticipata; nel dettaglio, i lavoratori precoci dovranno maturare 41 anni e 5 mesi di contributi se vorranno smettere di lavorare in anticipo rispetto agli altri lavoratori.

Come annunciato da oeri - presidente dell’INPS fino a febbraio 2019 - rivedere la Legge Fornero introducendo nel contempo una Quota 100 e una Quota 41 costerebbe nell’immediato 11 miliardi di euro, per poi salire a 18 miliardi di eurouna volta che la riforma sarà a regime. Si tratta di uno strumento che permetterà ai lavoratori che avranno versato 41 anni di contributi di andare in pensione senza alcun vincolo di età.

Passando alla Quota 41, ovvero allo strumento che consentirebbe di andare in pensione indipendentemente dall’età anagrafica una volta maturati 41 anni di contributi, è prevista un’ulteriore novità che probabilmente non farà piacere i lavoratori.

Da Quota 41 a Quota 42?

Come anticipato da alcuni quotidiani, per ridurre l’ingente spesa prevista per la ridefinizione della riforma Fornero ci potrebbe essere un potenziale passo indietro del Governo per quel che riguarda la Quota 41.

Nel dettaglio, l’intenzione è quella di alzare di un anno il requisito contributivo previsto, passando così ad una Quota 42 che consentirà ai lavoratori di andare in pensione dopo 42 anni di servizio. Si tratterebbe quindi di un piccolo sconto rispetto a quanto accade oggi per la pensione anticipata, che ricordiamo dal prossimo anno potrà essere richiesta dagli uomini con 43 anni e 3 mesi di contributi e dalle donne con 42 anni e 3 mesi.

Quindi per i primi ci sarebbe una riduzione di 1 anno e 3 mesi, per le seconde solo di 3 mesi (ma per loro resta la possibilità di una proroga dell’Opzione Donna).

Al momento si tratta solo di un’indiscrezione ma se confermata farebbe sicuramente piacere alle casse dell’INPS, le quali - come dichiarato da Boeri - non sono in grado di sostenere gli oneri previsti dalla riforma originaria descritta nel contratto.

Naturalmente una tale novità rischia di far accrescere le polemiche da parte dei lavoratori, i quali speravano in una riforma che rendesse maggiormente flessibile l’uscita dal mercato del lavoro.
uota 41 addio: anche per i precoci aumentano i requisiti
Ricordiamo a tal proposito che la Quota 41 può essere richiesta già oggi, ma solamente da coloro che hanno maturato almeno 12 mesi di lavoro prima del compimento dei 19 anni.
Si tratta dei cosiddetti lavoratori precoci, ovvero coloro che avendo iniziato a lavorare fin da giovani possono vantare almeno 1 anno di contributi (anche non continuativo) accreditati nei 18 anni d’età.
Oggi questi possono andare in pensione, indipendentemente dall’età, una volta raggiunti 41 anni di contributi, ma dal prossimo anno non sarà più così. Complice l’adeguamento con l’innalzamento delle aspettative di vita rilevate dall’INPS che porterà ad un incremento generale dei requisiti per la pensione, infatti, la Quota 41 si potrà richiedere con 5 mesi di ritardo.

Non saranno più sufficienti 41 anni di contributi, poiché serviranno ulteriori 5 mesi per andare in pensione sfruttando l’agevolazione riconosciuta ai precoci.

Dal prossimo anno quindi la Quota 41 così come la conosciamo oggi rischia di non esistere più, e qualora le indiscrezioni sopra riportate fossero confermate questo strumento sparirà per sempre dal sistema previdenziale italiano.

Boeri ha presentato una serie di stime legati a diversi scenari:
quota 100 pura, ovvero senza limiti di età o contributivo (il requisito è che la somma dei due elementi sia pari a 100), oppure pensione con 41 anni di contributi (costo fino a 20 miliardi l’anno);

quota 100 a 64 anni o pensione con 41 anni di contributi: è l’ipotesi che al momento sembra più gettonata, che potrebbe anche confluire nella prossima manovra di Bilancio, ed essere quindi disponibile a partire dal 2019 (costo 18 miliardi annui);

quota 100 a 65 anni o pensione con 41 anni di contributi (costo 17 miliardi annui);

quota 100 (a 64 anni minimi di età) a legislazione invariata sulla pensione anticipata (costo fino a 8 miliardi).

Ci sono comunque, secondo Boeri, spazi per aumentare la flessibilità in uscita, ad esempio accelerando la transizione verso il sistema contributivo.

Attualmente, lo ricordiamo, il contributivo puro si applica a coloro che hanno iniziato a effettuare versamenti dopo il primo gennaio 1996, mentre ai lavoratori più anziani di applica il calcolo misto, oppure quello retributivo, limitatamente al caso in cui ci siano almeno 18 anni di versamenti precedenti al 1996.




martedì 10 luglio 2018

Se il dipendente che non va al lavoro ha diritto allo stipendio?



L’azienda può sospendere il pagamento dello stipendio nei casi di assenza ingiustificata o di impossibilità del dipendente di svolgere la prestazione lavorativa.

Sia quando il dipendente non può lavorare per sopraggiunte impossibilità, sia quando è lui stesso a non recarsi volontariamente al lavoro (assenza ingiustificata), il datore di lavoro non è tenuto a versargli lo stipendio. Anche nell’ambito lavorativo, infatti, vige il principio, sancito dal codice civile, secondo cui ciascuna delle parti può rifiutarsi di adempiere alla propria prestazione se l’altra non adempie. Procediamo con ordine e cerchiamo di comprendere se e quando il datore deve pagare lo stipendio al dipendente che non va al lavoro.

Quando l’assenza è ingiustificata il datore di lavoro può smettere di pagare al dipendente lo stipendio.

Le ragioni dell’assenza del dipendente
Il dipendente che non può recarsi al lavoro per una valida ragione deve subito comunicarlo al datore. Il caso emblematico è quello della malattia, per la quale è prevista una apposita trafila: visita medica; invio telematico del certificato all’Inps da parte dello stesso medico di base; possibilità per l’azienda di verificare, in via telematica, il certificato medico inviato all’Inps; eventuale richiesta di visita fiscale inoltrata all’Inps dall’azienda. Altra ipotesi tipica sono i permessi e i congedi riconosciuti dalla normativa di settore e dai contratti collettivi. Non in ultimo, ci sono le ferie retribuite che non possono essere negate al dipendente, ma che vanno previamente concordate con il datore.

Entro tali limiti fissati dalla normativa, il dipendente può assentarsi dal lavoro senza subire alcuna conseguenza di tipo sanzionatorio; inoltre quasi sempre il lavoratore assente mantiene il diritto allo stipendio pieno, salvo laddove per l’assenza non venga previsto il diritto alla retribuzione (è il caso,ad esempio, dei permessi non retribuiti).
Laddove invece l’assenza sia ingiustificata, il datore di lavoro può procedere allesanzioni disciplinari le quali possono essere di quattro tipi:

il rimprovero verbale;

la multa di importo pari a non più di quattro ore;

la sospensione dal soldo e dal servizio per non più di 10 giorni: in pratica il dipendente non deve andare a lavorare ma non ottiene neanche la retribuzione;

il licenziamento disciplinare. A seconda che il licenziamento venga intimato con o senza preavviso (a seconda cioè della gravità della condotta), si parlerà di licenziamento «per giustificato motivo soggettivo» e di licenziamento «per giusta causa».

Se il dipendente non è più in grado di lavorare il datore può sospendere il pagamento dello stipendio e, nei casi più gravi, licenziarlo

Veniamo così al capitolo più caldo: quello appunto del licenziamento. In caso di malattia, il licenziamento è vietato se non supera il cosiddetto «periodo di comporto»: si tratta del limite massimo di assenze che il dipendente può fare per malattia e durante il quale mantiene il diritto alla conservazione del posto. Superato il comporto, invece, il lavoratore può essere licenziato.

Una seconda ipotesi in cui il licenziamento è legittimo è quella del cosiddetto «giustificato motivo oggettivo», quello cioè dettato dalla impossibilità della prestazione lavorativa per sopravvenuta incapacità del dipendente (e sempre che lo stesso non possa essere ricollocato in mansioni equivalenti). Si pensi al caso di una persona che, divenuta non vedente, non possa più svolgere funzioni di segreteria; a un addetto alle vendite che non è più in grado di stare in piedi per molte ore; a una donna che, per via di una grave operazione, sia costretta ogni tre ore a prenderne una di riposo, ecc.

Ma il licenziamento non è l’unica soluzione che ha il datore di lavoro: questi può anche disporre la sospensione dello stipendio per i giorni di assenza ingiustificata o determinati da impossibilità della prestazione.

La sospensione dello stipendio
Dopo aver passato in rassegna cosa succede quando il dipendente si assenta dal lavoro, cerchiamo di comprendere se, nei casi di assenza ingiustificata o determinata da una impossibilità fisica a svolgere le mansioni, è possibile sospendere il pagamento della busta paga. In altre parole, se il dipendente non va al lavoro ha diritto allo stipendio?
A riguardo la Cassazione ha affermato che nel contratto di lavoro «ciascuna parte può valersi dell’eccezione di inadempimento prevista dal codice civile» in base alla quale, se una parte non adempie ai propri obblighi l’altra può esimersi dal rispettare i suoi. Alla inadempienza del lavoratore il datore di lavoro non deve necessariamente reagire solo con sanzioni disciplinari o, al limite, con il licenziamento, oppure col rifiuto di ricevere la prestazione parziale e con la richiesta di risarcimento dei danni. Ne consegue che «nel caso di inadempimento della prestazione lavorativa il datore di lavoro non è tenuto al pagamento delle retribuzioni». Detto in parole più semplici, non è dovuta la retribuzione durante il periodo di sospensione del rapporto, salvo che si verta in una delle ipotesi in cui la sospensione è tutelata dalla legge, quale la malattia.

I casi in cui si può non pagare lo stipendio al dipendente che non va al lavoro sono essenzialmente due:

assenza ingiustificata (fuori cioè dai casi di malattia, infortunio, permessi, congedi, gravidanza, puerperio, ecc.);

assenza determinata da impossibilità sopravvenuta allo svolgimento della prestazione lavorativa. Si tratta delle ipotesi che abbiamo esemplificato poc’anzi: un addetto ai trasporti che non può più guidare per una patologia alla schiena, un pilota di aereo che perde la vista, un addetto alla sicurezza che perde l’uso di una gamba, ecc. Si tratta di situazioni collegate alle condizioni fisiche del lavoratore, divenute incompatibili con le mansioni ad esso assegnate. A differenza della prima ipotesi (assenza ingiustificata), qui il dipendente non ha alcuna colpa.

Ciò nonostante, secondo la giurisprudenza, la sospensione dal servizio per impossibilità sopravvenuta allo svolgimento della prestazione non dà diritto alla retribuzione e se prolungata nel tempo autorizza il licenziamento del dipendente qualora non sia possibile ricollocare lo stesso a mansSoni equivalenti.


giovedì 5 luglio 2018

Cessione del TFR: nuovo servizio INPS



È disponibile il nuovo servizio INPS "Notifica cessione TFR in garanzia", che consente di ricevere le notifiche da parte degli utenti esterni.

Nuovo archivio INPS dei contratti di finanziamento garantiti da TFR ad uso delle aziende e delle società finanziarie , banche e assicurazioni- Le modalità nel messaggio n. 2506 2018

L'INPS ha pubblicato nel messaggio n. 2506/2018 le informazioni su un nuovo servizio disponibile sul sito dell'Istituto relativo alla gestione dei contratti di finanziamento con cessione del TFR a garanzia, inviati da banche e società finanziarie. Si tratta di uno specifico archivio informatico che raccoglierà le notifiche sia digitali che cartacee da parte degli operatori e delle strutture territoriali.

Il servizio è rivolto a società finanziarie, banche ed assicurazioni; le informazioni contenute nella banca dati per individuare il legittimo titolare della prestazione di TFR e nei casi di :

intervento del Fondo di Garanzia del TFR (art. 2 della legge n. 297/82) in caso di insolvenza del datore di lavoro;

pagamento diretto della quota di TFR versata al Fondo di Tesoreria, in caso di incapienza dei contributi dovuti nel mese dal datore di lavoro rispetto al TFR da erogare (cfr. la circolare n. 70/2007, par. 7.3);

residui casi di liquidazione della quota di TFR maturata durante il periodo di fruizione del trattamento straordinario di integrazione salariale (cfr. la circolare n. 24/2017).

Gli utenti possono decidere quando e se notificare i contratti di finanziamento con garanzia del TFR ed è possibile utilizzare il servizio anche per notificare contratti già inviati all’INPS mediante canali diversi.

L’accesso al servizio è consentito previa autenticazione tramite:

PIN dispositivo dell’INPS (cfr. la circolare n. 50 del 15/2011);

CNS (Carta Nazionale dei Servizi) rilasciata da una Pubblica Amministrazione ai sensi del D.P.R. n. 117/04 o mediante altro dispositivo (smart card, chiavetta USB) contenente il “certificato digitale di autenticazione personale” rilasciato da apposito ente certificatore rispondente agli standard definiti per la CNS;

credenziali SPID (Sistema Pubblico di Identità Digitale) almeno di livello 2, rilasciate da uno dei gestori accreditati da AgID (www.spid.gov.it).

Per accedere al servizio, i soggetti incaricati con procura dalle aziende dovranno richiedere l’abilitazione presentando il modulo “MV61” ad una qualsiasi Struttura territoriale dell’INPS.

Tale modulo è reperibile nel sito Istituzionale al seguente percorso: “Prestazioni e servizi” > “Tutti i moduli”, digitando nel campo “Cerca” il nome del modulo.

Cessione TFR in garanzia: quando è di competenza INPS
Generalmente nel settore privato il TFR è di competenza del datore di lavoro. Esistono però alcune fattispecie che obbligano l’INPS ad intervenire per gestire tale istituto, ossia:
in caso di insolvenza del datore di lavoro mediante l’intervento del Fondo di Garanzia del TFR;

in caso di incapienza dei contributi dovuti nel mese dal datore di lavoro rispetto al TFR da erogare mediante il pagamento diretto della quota di TFR versata al Fondo di Tesoreria;

nei residui casi di liquidazione della quota di TFR maturata durante il periodo di fruizione del trattamento straordinario di integrazione salariale.

Notifica contratti di cessione del TFR: come accedere al servizio
Per accedere al nuovo servizio di notifica dei contratti di cessione del TFR l’utente deve premunirsi di una delle seguenti credenziali:

PIN dispositivo dell’INPS;

CNS (Carta Nazionale dei Servizi) o firma digitale;

credenziali SPID (Sistema Pubblico di Identità Digitale) almeno di livello 2.

Per quanto riguarda i soggetti incaricati tramite specifica procura dalle aziende è necessario richiedere l’abilitazione presentando il modulo “MV61” ad una qualsiasi Struttura territoriale dell’INPS.

Cosa inserire nella banca dati INPS
Effettuato l’accesso, l’utente potrà inserire nella banca dati determinate informazioni riguardanti il lavoratore cedente e il datore di lavoro, quali:

la data di stipula del contratto;

la data di scadenza del finanziamento;

i soggetti che hanno prestato l’assicurazione rischio vita e la garanzia rischio impiego;

nonché copia in formato elettronico del contratto.



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