mercoledì 6 dicembre 2017

Pensioni, aumenti da 70 a 260 euro



Da gennaio si applicherà il valore provvisorio relativo al 2017 che è pari a 1,1%. Di conseguenza aumenteranno tutti i parametri di riferimento delle prestazioni previdenziali: dal trattamento minimo all’assegno sociale (da 448,07 a 453 euro), dai vitalizi al trattamento di invalidità civile, e poi ancora dei limiti di reddito per l’integrazione al minimo o il cumulo delle pensioni ai superstiti. Oltre ovviamente agli assegni ordinari in pagamento.

Aumenti sino a 260 euro all’anno per i pensionati: dal 2018, infatti, dopo due anni di stop, si applica il meccanismo automatico di adeguamento delle pensioni all’inflazione (o meglio all’indice Istat Foi, l’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati), cioè la cosiddetta perequazione.

Da gennaio, in particolare, si applicheranno alle prestazioni aumenti in misura pari all’1,1%: questi aumenti, che non saranno uguali per tutti ma dipenderanno dalla misura dell’assegno, consentiranno non solo di incrementare le pensioni, ma anche di alzare i parametri di riferimento delle prestazioni previdenziali. Dal trattamento minimo agli assegni di assistenza per invalidità civile, dall’assegno sociale all’integrazione al minimo, gli incrementi consentiranno non solo di ricevere prestazioni più elevate, ma anche di subire una minore riduzione delle prestazioni parzialmente incumulabili col reddito, come la pensione di reversibilità e l’assegno ordinario di invalidità.

Iniziamo con l’aumento del trattamento minimo (la retribuzione minima alla quale deve essere adeguata la pensione, se non si superano determinate soglie di reddito): questo, in particolare, passerà da 501,89 euro mensili a 507,41 euro, determinando non solo l’incremento delle pensioni adeguate al minimo, ma anche minori riduzioni per chi percepisce pensioni parzialmente cumulabili con gli altri redditi.

È il caso, ad esempio, della pensione di reversibilità, che viene ridotta del 25% se gli altri redditi superano 3 volte il minimo, del 40% se il trattamento minimo viene superato 4 volte e del 50% se si supera 5 volte il trattamento minimo.

L’assegno sociale, nel 2018, salirà da 448,07 euro mensili a 453 euro mensili, nei casi in cui si ha diritto alla sua liquidazione in misura piena.

Aumento delle pensioni 2018
Ecco, invece, in quale misura aumenteranno le pensioni. Vediamo alcuni esempi:

per chi percepisce 1000 euro lordi al mese, l’incremento mensile sarà pari a 11 euro;

per chi percepisce 1600 euro mensili, l’aumento sarà pari a 16,72 euro;

per chi percepisce 2.100 euro al mese, l’incremento sarà pari a 17,33 euro mensili.

Comparando gli aumenti mensili all’intero anno, otteniamo un aumento di 72 euro per chi percepisce la pensione minima, di 143 euro per chi percepisce 13mila euro annui, sino ad arrivare a un incremento tra i 200 e i 260 euro per chi percepisce tra 1.500 e 3mila euro al mese.

Al crescere dell’importo della pensione, però, gli aumenti sono minori, a causa del funzionamento del meccanismo di perequazione, che garantisce l’adeguamento pieno all’inflazione solo agli assegni più bassi.

Quindi per chi percepisce 1.000 euro lordi al mese, l’incremento sarà di 11 euro, con 1.600 euro il ritocco sarà di 16,72 euro, chi incassa 2.1oo euro avrà un aumento di 17,33 euro. Rapportato all’intero anno, quindi tredicesima compresa, significa che chi riceve la pensione minima avrà poco meno di 72 euro in più; chi intasca 13mila euro all’anno, ne riceverà 143 in più. Inoltre chi ha una pensione compresa tra 1.500 e 3.000 euro al mese guadagnerà tra i 2oo e i 260 euro lordi all’anno. Con il crescere dell’importo della pensione, l’aumento è proporzionalmente minore perché il meccanismo di perequazione favorisce gli assegni di valore più basso, riconoscendo solo a loro l’adeguamento pieno all’inflazione.

Secondo le regole in vigore dal 2012 i requisiti per accedere alla pensione sono destinati ad adeguarsi automaticamente all’allungamento della speranza di vita con un primo aumento di 5 mesi di età o di contributi che dovrebbe scattare nel 2019. Questo a fronte di un requisito per la pensione di vecchiaia che già oggi per la maggior parte dei lavoratori, in teoria perché nei fatti si ha ancora la possibilità di incassare l’assegno diversi anni prima, è di 66 anni e 7 mesi, un livello che, come certificato ieri dal Censis, in Europa è il secondo più alto, dopo quello della Grecia.



martedì 5 dicembre 2017

Contratto di apprendistato: licenziamento e preavviso come funziona




Il contratto di apprendistato presenta tra le proprie peculiarità, rispetto al rapporto di lavoro a tempo indeterminato, la possibilità per il datore di lavoro di recedere una sola volta, alla conclusione del periodo formativo. Il recesso è quindi esercitabile soltanto al termine del periodo formativo, esattamente nel giorno coincidente con il termine del periodo di apprendistato, con preavviso ma senza obbligo di motivazione. Le parti possono dunque recedere liberamente dal contratto, ma nel rispetto del preavviso e solo se a decorrere dal termine del periodo di formazione (art 2118 c.c.). Se questo non avviene, il rapporto prosegue come ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

L'apprendistato è lo strumento più diffuso per l'inserimento nel mercato del lavoro. Si tratta di un particolare rapporto all'interno del quale il lavoratore acquisisce delle competenze professionali attraverso l'inserimento all'interno dell'organizzazione produttiva del datore di lavoro presso il quale svolge le proprie mansioni. Si dice, infatti, che si tratta di un contratto di lavoro a causa mista: da un lato, infatti, il lavoratore svolge una vera e propria prestazione lavorativa ricevendo in cambio, oltre alla retribuzione, una formazione specifica.

Se il licenziamento al termine dell’apprendistato non è legittimo si trasforma automaticamente in tempo indeterminato. Questo perchè, anche alla luce della disciplina sui contratti di lavoro in apprendistato, quando il licenziamento dell’apprendista risulta nullo (ad esempio per procedura irregolare) ed il rapporto si considera non interrotto – in manca di un regolare preavviso di licenziamento – ciò dà origine a un rapporto subordinato a tempo indeterminato.

Di norma, al termine del contratto, le parti possono recedere. Diversamente il rapporto di lavoro prosegue trasformandosi in tempo indeterminato. La risoluzione unilaterale da parte del datore di lavoro al termine dell’apprendistato richiede dunque formale disdetta, con l’osservanza del periodo di preavviso.

In tal senso, la previsione della disdetta ai sensi dell’art. 2118 c.c., cioè con preavviso, è propria di un rapporto indeterminato. Il mancato esercizio del diritto di recesso da parte del datore di lavoro e la nullità del licenziamento comportano dunque la trasformazione automatica del contratto di apprendistato a contratto di assunzione a tempo indeterminato. In sintesi, al contratto di apprendistato si applicano le norme sul licenziamento previste per gli altri contratti di lavoro dipendente.
Tuttavia, diversamente dagli altri, il mancato raggiungimento degli obiettivi formativi può ad esempio giustificare il licenziamento.

Diversamente, nel periodo di preavviso continua a trovare applicazione la disciplina del contratto di apprendistato (art. 2, co. 1, D. Lgs. n. 167/2011 come modificato dall’art. 1, co. 16, lett. b), L. 28 giugno 2012, n. 92). In questo contesto nulla è cambiato con il decreto legislativo di riordino dei contratti di lavoro attuativo del Jobs Act (art 42 del D.lgs 81/2015).

Per determinare i giorni di preavviso, nel rispetto del giusto livello di inquadramento, bisogna fare riferimento al periodo di preavviso previsto per il livello con cui si era inquadrati da apprendista e non a quello che si raggiunge al termine del periodo formativo. Il preavviso decorre dal momento in cui è conosciuta dall’altra parte e la decorrenza è interrotta nel caso in cui sopraggiungano le ferie.

Il licenziamento dell’apprendista è ammissibile ed è considerato giustificato (motivo oggettivo) se non implica una semplice sostituzione con addetti alle medesime mansioni. È però a carico del datore di lavoro l’onere di dimostrare il motivo. Quindi, se la causa è un riassetto aziendale, vanno comprovate le ragioni che la motivano oltre a quelle del licenziamento in questione.
Per quanto riguarda invece il licenziamento nel periodo di formazione, si applica la disciplina comune del recesso giustificato dai contratti di lavoro a tempo.

Per determinare i giorni di preavviso, nel rispetto del giusto livello di inquadramento, bisogna fare riferimento al periodo di preavviso previsto per il livello con cui si era inquadrati da apprendista e non a quello che si raggiunge al termine del periodo formativo. Il preavviso decorre dal momento in cui è conosciuta dall’altra parte e la decorrenza è interrotta nel caso in cui sopraggiungano le ferie.

Il datore di lavoro può risolvere il contratto di apprendistato alla fine del periodo di formazione. E’, infatti, prevista espressamente la possibilità per le parti di recedere dal contratto con preavviso decorrente dal termine del periodo di formazione.

Al termine del periodo formativo la decisione di risolvere il contratto, quindi, lasciata alle parti che potranno decidere di farlo senza giustificazioni. In questo caso, tuttavia, pur non essendo richieste motivazioni, sarà necessario comunicare in forma scritta la volontà di recedere all’altra parte e calcolando il preavviso, tenendo conto della data di conclusione del contratto. Se, invece, nessuna delle parti esercita la facoltà di recesso al termine del periodo di formazione, il rapporto prosegue come ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.


martedì 28 novembre 2017

Lavoro: categorie protette, assunzioni obbligatorie e nominative per i disabili



La legge obbliga i datori di lavoro ad assumere una determinata quota di lavoratori iscritti alle categorie protette. Con questa legge lo Stato italiano ha voluto promuovere l'inserimento nel mondo lavorativo delle persone disabili e delle altre persone a cui la legge riconosce una condizione di svantaggio (es. cechi e sordi, invalidi di guerra, orfani ecc.).

La definizione “categorie protette” si riferisce in particolar modo a soggetti svantaggiati quali orfani, vedove e profughi. Quando invece ci si riferisce alle assunzioni obbligatorie, non è corretto fare riferimento esclusivamente alle categorie protette, poiché a queste si somma la categoria degli invalidi che, chiaramente, riguarda la maggior parte dei destinatari delle leggi a sostegno del lavoro dei disabili.

Quindi, alla luce della normativa vigente, i soggetti beneficiari delle disposizioni relative alle assunzioni obbligatorie sono le persone disoccupate e:

affette da minorazioni fisiche, psichiche e portatori di handicap intellettivo con una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45%;

invalide del lavoro con grado di invalidità superiore al 33%;

cechi assoluti o con residuo visivo non superiore ad un decimo ad entrambi gli occhi, con even-tuale correzione (vedi la scheda su cecità e sordità civile);

sorde (vedi la scheda su cecità e sordità civile);

invalide di guerra, invalide civili di guerra e di servizio;

vedove/i di deceduti per causa di lavoro, di guerra o di servizio, orfani, profughi e vittime del terrorismo e della criminalità organizzata.

Le aziende potranno assumere tramite richiesta nominativa o convenzione. Vi è maggiore libertà nella scelta delle persone da avviare al collocamento obbligatorio.

Per i disabili esistono le assunzioni nominative. L'obiettivo legislativo è razionalizzare e semplificare la normativa sul collocamento dei disabili e di potenziare l'accompagnamento e il supporto della persona con disabilità al fine di facilitarne l'inserimento lavorativo.

I datori di lavoro potranno assolvere l'obbligo di avviamento al lavoro scegliendo tra la chiamata nominativa o la stipula di apposite convenzioni con i centri per l'impiego aventi ad oggetto la determinazione di un programma mirante al conseguimento degli obiettivi occupazionali.

Al datore viene anche riconosciuta la possibilità di far precedere la richiesta nominativa dalla richiesta agli uffici competenti di effettuare la preselezione delle persone con disabilità iscritte negli speciali elenchi tenuti dai centri per l’impiego che aderiscano alla specifica occasione di lavoro (sulla base delle qualifiche e secondo le modalità concordate dagli uffici con il datore di lavoro).

Oltre alla chiamata nominativa o per convenzione i datori potranno effettuare l'assunzione diretta di lavoratori in specifiche condizioni di difficoltà, riconoscendo altresì per tali datori di lavoro il diritto a fruire degli incentivi previsti. Nello specifico la chiamata diretta potrà essere effettuata nei confronti di persone con disabilità che abbiano una riduzione della capacità lavorativa superiore al 79% o minorazioni annoverate dalla prima alla terza categoria di cui alle tabelle annesse al D.P.R. 915/1978 o che abbiano una riduzione della capacità lavorativa compresa tra il 67% ed il 79% o minorazioni elencate dalla quarta alla sesta categoria di cui alle tabelle citate, oppure lavoratori con disabilità intellettiva e psicofisica e con riduzione della capacità lavorativa superiore al 45% per un periodo di 60 mesi.

Solo in caso di mancata assunzione secondo le richiamate modalità entro 60 giorni dal momento in cui sorge l’obbligo di assunzione, scatta l’obbligo, per gli uffici competenti, di avviare o i lavoratori secondo l'ordine di graduatoria per la qualifica richiesta o altra specificamente concordata con il datore di lavoro sulla base delle qualifiche disponibili. Gli uffici possono altresì procedere anche previa chiamata con avviso pubblico e con graduatoria limitata a coloro che aderiscono alla specifica occasione di lavoro).

Lo scopo del legge è quello di semplificare la normativa che regola il collocamento dei disabili per facilitarne l’inserimento lavorativo. Il decreto, dal punto di vista delle aziende, lascia una maggior libertà ai datori di lavoro nella scelta dei dipendenti da avviare all’attività. Essi potranno, infatti, scegliere tra la chiamata nominativa e la stipula di convenzioni con i centri dell’impiego mirate al raggiungimento degli obiettivi occupazionali.

Alla richiesta nominativa il datore di lavoro può far precedere la richiesta agli uffici competenti di effettuare la preselezione delle persone con disabilità che aderiscano a quella specifica richiesta di lavoro. Ai datori di lavoro resta anche la scelta dell’assunzione diretta dei lavoratori con disabilità usufruendo comunque degli incentivi previsti.

L’assunzione diretta si potrà effettuare nei confronti di persone con una disabilità fisica superiore al 79% o una ridotta capacità lavorativa compresa tra il 67 e il 79%, oppure, ancora, lavoratori con disabilità psicofisica superiore al 45%.

I datori di lavoro, sia pubblici e sia privati, sono tenuti ad avere alle loro dipendenze lavoratori appartenenti alle categorie descritte nel precedente paragrafo nella misura di:

sette per cento dei lavoratori occupati, se occupano più di 50 dipendenti;

due lavoratori, se occupano da 36 a 50 dipendenti;

un lavoratore, se occupano da 15 a 35 dipendenti.

Per la definizione della base di calcolo, bisogna includere nel computo tutti i lavoratori assunti con vincolo di subordinazione (tranne quelli già assunti con collocamento obbligatorio), i soci di cooperative di produzione e lavoro, i dirigenti, i contratti di inserimento, i lavoratori sommini-strati presso l’utilizzatore, i lavoratori assunti per attività all’estero, i lavoratori socialmente utili (LSU), i lavoratori a domicilio e gli apprendisti.  Bisogna conteggiare anche gli assunti con contratto a tempo determinato fino a 9 mesi.

I datori di lavoro privati che hanno diverse unità produttive sul territorio, possono essere autorizzati dal Servizio provinciale del lavoro (della provincia in cui si ha la sede legale), ad assumere in una unità un numero di lavoratori aventi diritto al collocamento obbligatorio superiore a quello prescritto, portando le eccedenze a compenso del minor numero di lavoratori assunti in altre unità. La richiesta deve essere motivata, e se le unità sono ubicate in regioni diverse, l’autorizzazione deve essere rilasciata dal Ministero del Lavoro.


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