mercoledì 23 aprile 2014

Calcolo 80 euro in busta paga da maggio 2014



Al momento dell'annuncio della misura, il premier Renzi è stato chiaro: l'aumento in busta paga di 80 euro sarà a beneficio di coloro che guadagnano meno di 1.500 euro al mese. Ma il bonus dovrebbe essere definito a seconda di fasce di reddito stabilite. Per chiarire, il bonus sarà erogato dal datore di lavoro sotto forma di credito e non, dunque, sotto forma di riduzione delle tasse da lavoro da versare e dovrebbe essere in vigore già dal prossimo mese di maggio.

Tornando alle fasce di reddito individuate, per quelli che percepiscono un reddito annuo fino a 8.000 euro, che avrebbero un reddito mensile netto di 407 euro, il bonus mensile dovrebbe essere di 25 euro; per chi percepisce tra gli 8.000 e i 12.000 euro all'anno e ha uno stipendio netto mensile medio di 750 euro, il bonus dovrebbe essere di 92 euro; che sale a 97 euro per chi invece ha in reddito compreso tra i 12.000 e i 15.000 euro all'anno.

Chi invece percepisce tra i 15.000 e i 20.000 euro l'anno e ha uno stipendio mensile medio di 1.250 euro, avrà un bonus di circa 83 euro; infine avrà un bonus di 60 euro chi ha un reddito annuo compreso tra i 20.000 e i 25.000 euro l'anno, cioè uno stipendio mensile di circa 1.416 euro. In questi casi il bonus scatta in maniera automatica, cosa che invece non accade in altri casi come, per esempio, per chi svolge un  lavoro a contratto di collaborazione coordinata e continuativa da 12mila euro insieme ad un’altra occupazione.

Questo lavoratore se assunto da maggio a settembre con un contratto di lavoro subordinato compatibile con l’altro contratto e che riceve un compenso di 5mila euro, nel primo caso avrebbe un bonus da 480 euro, calcolando il 4% di 12mila euro; e nel secondo da 640 euro, prendendo però in considerazione entrambi i redditi percepiti, ma per ottenere il bonus deve comunicare i propri dati al datore di lavoro con cui ha il contratto da co.co.pro.

Il calcolo bonus Renzi che arricchirà le buste paga di milioni di italiani fino ad ottanta euro al mese per almeno tutto il 2014, è presto fatto.

Per chi ha una busta paga di 718,00 euro netti mensili il bonus equivale a 39,40 euro al mese e cioè 315,00 euro in più all'anno.

48,10 euro in più al mese invece per chi prende ad esempio 836,00 euro al mese e cioè 385,00 euro netti per l'anno 2014.

Per chi guadagna 1.063,00 euro al mese il bonus ammonta a 65,60 euro mensili e quindi 525,00 euro per quest'anno.

Per chi invece guadagna tra i 1.200,00 euro ai 1.609,00 euro al mese, ad esempio, vedrà riconoscersi un bonus pari a 80,00 euro al mese.

Oltre i 1.773,00 euro mensili, il bonus viene azzerato. Come detto prima restano fuori dal gettito positivo, coloro che sono stati definiti "incapienti" e cioè quelli che guadagnano meno di 8.000,00 euro netti all'anno.

Avere 80 euro in più in busta paga per almeno otto mesi è un bonus che giustifica una pensione più povera? I circa dieci milioni di lavoratori dipendenti che percepiranno la «mancia» del governo

Il taglio del cuneo fiscale può trasformarsi in una seccante partita di giro.

Ma proprio su un capitolo decisivo come quello previdenziale. Il perché è presto spiegato. Il decreto prevede che il tanto agognato bonus sia un «credito» e non una «detrazione». Le parole, in questo caso, sono importanti perché indicano che è compito del datore di lavoro (che in gergo fiscale si chiama «sostituto di imposta») individuare l'area nella quale effettuare il prelievo degli 80 euro da aggiungere alla busta paga.

La norma concede uno spazio di manovra abbastanza largo. Se, infatti, le ritenute Irpef non fossero sufficienti a reperire l'ammontare del bonus, il datore di lavoro potrà «estrapolare» i soldi dai contributi previdenziali, cioè dalla somma che in busta paga viene trattenuta dal reddito lordo e versata all'ente previdenziale (nella maggior parte dei casi l'Inps) per costruire la futura pensione.

Sulla carta non dovrebbero esserci problemi perché la manovrina studiata dal ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, e dal premier Matteo Renzi prevedrebbe che sia lo Stato a farsi carico di quei contributi. Spieghiamolo ancora meglio: se nella busta paga del dipendente le ritenute Irpef non superano gli 80 euro, il datore di lavoro può autonomamente decidere di prelevare in tutto o in parte quella cifra dai contributi previdenziali

Si tratta del dispositivo che era stato studiato anche per il bonus da destinare a incapienti (coloro che hanno un reddito annuo lordo inferiore a 8mila euro e pertanto non pagano tasse, ma i contributi previdenziali li versano ugualmente) e lavoratori autonomi. Con un taglio di 3-4 punti dell'aliquota contributiva gli 80 euro sarebbero pressoché garantiti, ma che ne sarebbe delle pensioni? Le vecchie bozze prevedevano una semplice comunicazione all'Agenzia delle entrate che successivamente avrebbe dovuto provvedere, a sua volta, a notificare la situazione all'Inps o a un altro ente. Questi ultimi constatano solamente che manca all'appello parte dei contributi della posizione del lavoratore. Allo Stato toccherà poi farsi carico di sanare lo sbilancio versando la parte residua.

Se ci si basasse sugli esempi del passato, la risposta dovrebbe essere negativa. La difficile situazione patrimoniale dell'istituto di previdenza pubblica è stata soprattutto generata dall'assorbimento dell'Inpdap, il vecchio ente previdenziale dei dipendenti pubblici. Negli anni scorsi lo Stato dichiarava di aver versato i contributi dei propri dipendenti senza, in realtà, provvedervi. Nell'imminenza dell'ingresso nell'euro, quei soldi furono trasformati in anticipazioni di cassa. I contributi «figurativi» si sono così trasformati in un pozzo senza fondo che hanno determinato 25 miliardi di passivo al cui ripianamento contribuiscono i lavoratori parasubordinati cui si chiede sempre un aumento dei versamenti.

Ora se si guarda bene a quegli 80 euro, il rischio non è soltanto quello di una pensione a cui potrebbe mancare qualche «pezzo» (non trascurando che - con le attuali regole - solo i più fortunati otterranno il 60% dell'ultimo stipendio) ma soprattutto quello di vedere che lo Stato prende con una mano ciò che dà con l'altra. Non si tratta del taglio alle detrazioni per il coniuge a carico e della stangata sulla Tasi, ma di un aumento delle aliquote contributive che generalmente rappresenta il modo più veloce per gestire eventuali «crisi». Ecco, per avere circa 1.000 euro in più all'anno valeva la pena creare confusione e incertezza?

Se le ritenute Irpef non fossero sufficienti a reperi­re l’ammontare del bonus, il datore di lavoro potrà «estrapolare » i soldi dai contributi previ­denziali, cioè dalla somma che in busta paga viene trattenuta dal reddito lordo e versata all’ente previdenziale (nella maggior parte dei casi l’Inps) per co­struire la futura pensione.

Se nella busta paga del dipendente le ritenute Irpef non supe­rano gli 80 euro, il datore di lavo­ro può aut­onomamente decide­re di prelevare in tutto o in parte quella cifra dai contributi previ­denziali.

Si tratta del dispositivo che era stato studiato anche per il bonus da destinare a incapienti (coloro che hanno un reddito annuo lordo inferiore a 8mila euro e pertanto non pagano tas­se, ma i contributi previdenzia­li li versano ugualmente) e lavo­ratori autonomi. Con un taglio di 3-4 punti dell’aliquota contri­butiva gli 80 euro sarebbero pressoché garantiti, ma che ne sarebbe delle pensioni?

Le vecchie bozze prevedevano una semplice comunicazione al­l’Agenzia delle entrate che suc­cessivamente avrebbe dovuto provvedere,a sua volta,a notifi­care la situazione all’Inps o a un altro ente. Questi ultimi consta­tano solamente che manca al­l’appello parte dei contributi della posizione del lavoratore. Allo Stato toccherà poi farsi cari­co di sanare lo sbilancio versan­do la parte residua. Ci si può fidare? Se ci si basas­se sugli esempi del passato, la risposta dovrebbe essere negativa”.

De Francesco spiega poi un altro rischio: quello di un aumento delle aliquote contributive.

“Ora se si guarda bene a quegli 80 euro, il rischio non è soltanto quello di una pensione a cui po­trebbe mancare qualche «pez­zo » (non trascurando che – con le attuali regole- solo i più fortu­nati otterranno il 60% dell’ulti­mo stipendio) ma soprattutto quello di vedere che lo Stato prende con una mano ciò che dà con l’altra. Non si tratta del taglio alle detrazioni per il coniuge a carico e della stangata sulla Tasi, ma di un aumento delle aliquote contributive che generalmente rappresenta il modo più veloce per gestire eventuali «crisi»”.

martedì 15 aprile 2014

Contratto di lavoro flessibile cosa cambia con il Decreto lavoro n. 34/2014




È inammissibile perché trova la sua ratio politica nella stessa retorica che ha accompagnato ogni riforma del mercato del lavoro che è stata introdotta nel nostro ordinamento negli ultimi quindici anni e secondo cui con l’aumento della cosiddetta “flessibilità” si avrebbe come effetto un aumento dell’occupazione.

Ma non vi è alcun nesso causale tra l’aumento della flessibilità e l’aumento dell’occupazione. Se si osservano i dati sull’occupazione dal 2004 ad oggi vediamo che, al netto della crisi, la progressiva riduzione dei diritti dei lavoratori  ha avuto come unica conseguenza la perdita di potere contrattuale con un’incidenza sul  reddito dei lavoratori a dir poco drammatica.

Dopo la Riforma del Lavoro del Governo Monti (elaborata dal Ministro Fornero) e le successive modifiche e integrazioni operate dal Governo Letta (Ministro Giovannini), il nuovo Esecutivo Renzi ha delineato un nuovo programma di riforme che interessano Mercato del Lavoro e Welfare, incentrato sul Jobs Act: testi, proposte di Sindacati e Confindustria, implicazioni per i dipendenti sulle modifiche all'Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Decreto Lavoro del governo Renzi (Decreto Legge Poletti 34/2014) ha modificato i contratti a termine, ridimensionando alcune novità della Riforma Lavoro 2012: l’obiettivo è rendere più flessibili le assunzioni a tempo determinato e quindi più vantaggiose per i datori di lavoro, incentivando una formula di occupazione più stabile rispetto ai contratti atipici, troppo spesso sinonimo di precarietà e più rispondente alle mansioni svolte rispetto a tante collaborazioni e consulenze a Partita IVA che mascherano un rapporto di lavoro subordinato. Le modifiche del Decreto, mirano a ridurre per l’azienda il rischio di contenziosi pur salvaguardando per il lavoratore le diverse tutele.

Per il giuslavorista Pietro Ichino, su questa nuova disciplina – che nei fatti produce una liberalizzazione dei contratti a termine – potrebbe sollevarsi un dubbio di compatibilità con le regole poste dalla Direttiva UE 99/70/CE visto che riduce drasticamente i limiti alla reiterazione di contratti. Inoltre, accentua la differenza reale tra assunti a termine e a tempo indeterminato.

Un limite superabile con l’inserimento nel DL della norma sull’indeterminato a protezioni crescenti, disponendo anche una «modesta indennità di cessazione proporzionata all’anzianità, sostitutiva del filtro giudiziale, identica per tempo indeterminato e determinato acausale. Solo in questo modo si otterrà di sdrammatizzare l’alternativa fra le due forme di contratto».

Un altro giuslavorista, Michele Tiraboschi, teme per il DL l’inefficacia nel lungo termine: «la liberalizzazione può produrre nel breve periodo maggiore occupazione, ma nel tempo questa  deregolamentazione del contratto a termine indica mancanza di visione d’insieme su politiche e impianto sistematico del diritto del lavoro che, anche per il contratto di apprendistato, «sembra ora scardinato». In più, secondo Tiraboschi, invece di diminuirli la nuova norma potrebbe causare un aumento dei contenziosi: «liberalizzazione del termine non intacca il principio legislativo della centralità del lavoro subordinato a tempo indeterminato, con ciò aprendo la strada a interpretazioni restrittive dei giudici, specie sulle proroghe che non sono adeguatamente regolate».

Per Giuliano Cazzola (Università Ecampus), «la riforma del contratto a termine ridurrà il contenzioso. Prima il “causalone” sottoponeva le imprese alla roulette russa dei tribunali».Positivo anche il potenziamento della «centralità al momento dell’assunzione, sia rispetto al contratto a tempo indeterminato, sia nei confronti delle forme atipiche, il cui utilizzo è adesso a rischio di sanzione dopo le modifiche a “giro di vite” introdotte dalla legge n. 92 del 2012». Cazzola ritiene infine «meno interessante il ricorso ad un eventuale contratto unico a tempo indeterminato e a tutela crescente, perché ben pochi datori di lavoro ne faranno uso potendo avvalersi per un triennio di un contratto a termine liberalizzato e molto meno complicato, all’atto della risoluzione».

Garantire il salario minimo con una legge che preveda il carcere per i datori di lavoro che non la rispettano, un contratto nazionale che agisca solo qualora sul territorio non si siano raggiunti accordi di secondo livello così da aiutare la produttività e una “rivoluzione delle relazioni sindacali” che punti proprio sugli accordi di secondo livello.

Il D.L. n. 34/2014 è contrario alla normativa comunitaria (Direttiva 1999/70) in materia di contratti a tempo determinato.

Tale disciplina prevede che ciascuno degli Stati membri debba rispettare rigorosi principi di limitazione della temporaneità dei contratti e ribadisce la regola per cui il rapporto di lavoro è a tempo indeterminato, vietando inoltre agli ordinamenti nazionali di porre riforme peggiorative in materia (“clausola di non regresso”).

La nuova disciplina prevede la possibilità di stipulare contratti a tempo determinato a-causali (ovvero senza giustificazione) della durata complessiva di 36 mesi, all’interno dei quali è altresì possibile effettuare fino a 8 proroghe per ciascun contratto (con l’aberrante effetto di poter stipulare fino a 288 proroghe in 36 mesi senza motivazione alcuna – qui trovate un breve video che ne illustra le rovinose conseguenze).

Allo stesso modo è illegittima la riforma nella parte in cui viene modificato il contratto di apprendistato: eliminando ogni obbligo da parte dell’azienda di effettuare l’attività di formazione ai lavoratori apprendisti viene meno la causa stessa del contratto.

È evidente che nessuno assumerà più lavoratori con contratti a tempo indeterminato, così come evidente che i lavoratori assunti con questi nuovi tipi di contratti si guarderanno bene dall’avanzare richieste e rivendicare diritti sapendo che in qualsiasi momento potrebbero essere lasciati a casa.

Non è tollerabile perché in questo modo il diritto al lavoro perde definitivamente ogni valore e con esso buona parte dei principi costituzionali che reggono il nostro ordinamento, dal momento in cui ogni accesso al lavoro avviene attraverso forme contrattuali che si fondano sul ricatto e lo sfruttamento della forza lavoro rispetto ai quali i lavoratori non avranno più alcuno strumento di difesa.


martedì 8 aprile 2014

Documento di Economia e Finanza 2014 e gli 80 euro in busta paga



Al via il bonus del taglio Irpef con 80 euro in busta paga per lavoratori dipendenti da maggio 2014, nonché il taglio Irap del 10% per le imprese con il DEF 2014, il Documento di economia e finanza al varo del Consiglio dei Ministri.

Detrazioni Irpef con un risparmio fino a 80 euro mensili per 10-15 milioni di lavoratori dipendenti. Avvio della manovra di alleggerimento dell'Irap per le imprese. Aumento dell'aliquota per la tassazione del risparmio. Le novità sul pagamento dei debiti della Pa nei confronti delle aziende. Tetto agli stipendi per i dirigenti della Pubblica amministrazione. Interventi sui costi della sanità e sulle forniture di enti locali e altre amministrazioni.

Con gli 80 euro in busta paga ''gli italiani avranno la 14/ma grazie all'operazione di questo governo. E' giustizia sociale: in questi anni alcuni hanno preso tanto. Troppo. Ad esempio i manager pubblici. Che ora non potranno prendere più di quanto prende il Presidente della Repubblica''. E annunciando i tagli agli stipendi dei manager: "238.000 euro per chi lavora nel pubblico è più che sufficiente, è un elemento di limite che ci vuole, in questi anni si è totalmente sforato".

"Il 10 per cento della retribuzione la si prenderà solo se il paese va bene come le stock options nelle aziende. Non è possibile che un manager prenda un premio massimo se il paese va a rotoli. Da adesso inizia a pagare chi non ha mai pagato, è un'operazione di giustizia sociale". E parlando dei tetti agli stipendi pubblici: "Spero che anche gli organi costituzionali accettino l'equiparazione al presidente della Repubblica e abbiano la lungimiranza, il coraggio e l'intelligenza di tornare in sintonia col Paese".

Nel Def si legge che "l’effetto espansivo delle riforme si manifesterà debolmente nel 2014 per poi risultare via via più pronunciato negli anni successivi". Inoltre, il Pil raggiungerebbe gradualmente nel 2018 un livello di 2,1 punti percentuali più elevato. Nel 2015 la crescita sarà dell’1,3%, nel 2016 dell’1,6%, nel 2017 dell’1,8% e nel 2018 dell’1,9%.

Nel Def si legge che "l’effetto espansivo delle riforme si manifesterà debolmente nel 2014 per poi risultare via via più pronunciato negli anni successivi". Inoltre, il Pil raggiungerebbe gradualmente nel 2018 un livello di 2,1 punti percentuali più elevato. Nel 2015 la crescita sarà dell’1,3%, nel 2016 dell’1,6%, nel 2017 dell’1,8% e nel 2018 dell’1,9%.

Con il Def 2014 quindi ci sarà il “Taglio Irpef 10 miliardi a regime. I lavoratori dipendenti sotto i 25 mila euro di reddito lordi, circa 10 milioni di persone, avranno un ammontare di circa 1.000 euro netti annui a persona, attraverso coperture con la revisione della spesa”. Circa 10 miliardi quindi saranno destinati ad incrementare a partire dal 2015 l’aumento del reddito disponibile di lavoratori dipendenti e assimilati (co.co.co.) in modo da beneficiare, in particolare, i percettori di redditi medio-bassi. Già a partire da maggio 2014, in via transitoria i dipendenti che percepiscono oggi 1500 euro mensili netti da Irpef conseguiranno un guadagno in busta paga di 80 euro mensili.




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