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mercoledì 25 settembre 2013

Quote rosa: il rispetto delle norme in azienda è ancora distante



Sono solo tre i mesi che restano ai consigli d’amministrazione per adeguarsi alle quote rosa. In caso di inadempienza sono previste multe (dai centomila al milione di euro per i CdA e dai ventimila ai 200 mila euro per i collegi sindacali), qualora i richiami non dovessero bastare.

Dopo la legge n.120 del 12 luglio 2011 le poltrone occupate da donne sono salite, secondo i dati Consob, del 17,2 %, “un record” per Alessia Mosca,  l’entrata in vigore, nell’agosto 2012, della legge n.120 del 12 luglio 2011. Per adeguarsi alle quote rosa nei Consigli di Amministrazione restano solo tre mesi. In caso contrario, le aziende riceveranno multe dai centomila al milione di euro per i CdA e dai ventimila ai 200 mila euro per i collegi sindacali. Non bastassero i richiami, la pena prevista è l’annullamento degli organismi di controllo.

La legge in effetti parla chiaro. Entro la fine del 2013, tutti i CdA e le spa quotate dovranno avere almeno un quinto di rappresentanti donna ed entro il 2015 almeno un terzo.

Secondo la Consob, “solo” il 18 per cento dei CdA è composto esclusivamente da uomini, ma la percentuale di società in cui almeno una donna è presente è maggiore tra le società a più elevata capitalizzazione, ovvero tra quelle incluse negli indici Ftse Mib e Mid Cap, dove le donne sono presenti rispettivamente nel 73 e nel 74,4 per cento delle società quotate.

In tutto si tratta di oltre mille consigliere alle quali si sommeranno, a breve, le circa novemila donne impegnate nelle società partecipate dallo Stato e dagli enti pubblici. I loro organi – grazie al regolamento di attuazione dell’articolo 3 della legge – in caso di sordità a diffida formale che riguardi il rispetto della legge, decadranno immediatamente. 

“Lo consideriamo un grande successo – continua Mosca – anche perché l’osservatorio istituito presso la presidenza del Consiglio dei Ministri sta monitorando tutte le circa seimila società a partecipazione pubblica del Paese, non solo quelle che di solito catturano l’attenzione dei giornali”. 


Nonostante le donne rappresentino ancora una quota irrisoria nei board d’amministrazione di tutto il mondo, non mancano gli studi che dimostrano come la presenza femminile nei posti di comando delle aziende migliori le loro prestazioni effettive. Uno di questi è la ricerca, dal nome “Gender Interactions within the Family Firm” condotta dal team di economisti Alessandro Minichilli e Mario Daniele Amore dell’università Bocconi e Orsola Garofalo della Universitat Autonoma de Barcelona, che si basa sui risultati delle analisi effettuate, dal 2000 al 2010, su 2400 imprese italiane a controllo familiare, con un fatturato al di sopra dei 50 milioni di euro. Qui si è visto che le aziende il cui cda conta almeno due donne, hanno avuto un aumento medio del profitto del 18 per cento. Un risultato sorprendente, che si ha però solo in quelle aziende in cui c’è più di una donna al timone, forse per la possibilità che hanno i componenti femminili di fare squadra, legittimandosi a vicenda. Al contrario, se la manager si ritrova da sola in un board di uomini, i risultati sono meno incoraggianti. Il fenomeno si rivela comunque più marcato nel nord Italia, in aziende più piccole e in cui le donne al comando non appartengono alla famiglia proprietaria. Secondo un’altra analisi, realizzata dal 2008 al 2009 da Cerved su un campione di duemila imprese con un fatturato di 100 milioni all’anno, le aziende con il 30 per cento di donne nel cda, hanno anche meno possibilità (il 6 per cento contro il 7,1 per cento delle imprese con un management totalmente maschile) di incorrere in default. Se l’amministratore delegato è donna poi il rischio default addirittura si dimezza: si passa da un 6,7 per cento di rischio con un a.d. maschile a un 3,8 nel caso di un amministratore donna. 


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