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sabato 28 marzo 2020

Smart working con l'emergenza sanitaria



Lo Smart Working intende cambiare il vecchio modello del lavoro, spostando il lavoratore da una postazione fissa raggiunta dopo aver timbrato il cartellino ad una tipologia di lavoro più flessibile, più adatta al nuovo modo di intendere il lavoro. E non si tratta soltanto di voler conciliare i tempi di vita e lavoro Lo Smart Working gira intorno al concetto di produttività: lasciando il dipendente libero di organizzarsi spazi, tempi e luoghi di lavoro si rende più responsabile del proprio operato e si possono fissare degli obiettivi di produttività da raggiungere in totale autonomia.

Conciliare, innovare e competere. Sono questi i tre diversi obiettivi, apparentemente antitetici, dello smart working che si configura come un nuovo approccio all'organizzazione aziendale, in cui le esigenze individuali del lavoratore si contemperano, in maniera complementare, con quelle dell’impresa.

Lo smart working implica un nuovo modello di organizzazione del lavoro, in cui sono fondamentali questi tre elementi:
Risorse umane. È necessaria una nuova ottica da parte del personale che deve essere pronto a rivedere il proprio ruolo in un’ottica di flessibilità e disponibile a creare maggiori sinergie con il management.

Tecnologia.  Le modalità di lavoro sono “agili” e tecnologicamente avanzate e l’accesso ai dati aziendali deve essere possibile da remoto, consentendo forme di lavoro più efficienti e altamente personalizzate.

Monitoraggio costante. È indispensabile un’analisi dei risultati del lavoro per valutare l’efficienza del personale a seguito dell’introduzione del nuovo modello organizzativo del lavoro.

Adesso con l'emergenza sanitaria in atto, il lavoro è diventato flessibile, con lavoratori che svolgono la propria attività a distanza e dipendenti che eseguono parte delle proprie mansioni da casa, anziché stando in ufficio. Negli ultimi anni, si è parlato molto dei vantaggi dello smart working, tra cui miglior produttività, maggior impegno e benessere dei collaboratori. Tuttavia, non tutti i manager si trovano d’accordo con questa visione, anzi alcuni ritengono il lavoro agile addirittura un 'rischio' per il business.

L’ex Ceo di Yahoo, Marissa Mayer, ad esempio, una volta approdata in azienda, dichiarò che lavorare da remoto può rappresentare sicuramente un vantaggio per il singolo, ma non sempre è altrettanto positivo per l’azienda. Le migliori intuizioni, infatti, derivano dall’incontro con altre persone, da meeting e brainstorming con i propri dipendenti ciò è possibile solo essendo tutti presenti in azienda. Il vero lavoro in squadra, hanno dichiarato alcuni rappresentanti del colosso della tecnologia Ibm, si basa sulla collaborazione di persone che lavorano fianco a fianco quotidianamente e si scambiano idee dal vivo. Ciò significa, quindi, che è necessario fare un passo indietro rispetto alle ultime tendenze in materia di smart working? Il lavoro agile può rappresentare realmente uno svantaggio per le imprese? Come è possibile, infine, conciliare la crescente richiesta di maggiore flessibilità da parte dei dipendenti con le esigenze del management? A questi quesiti hanno cercato di dare risposta gli esperti di Hays, società leader nel recruitment specializzato.

“Lo smart working, se attivato correttamente, può rappresentare una risorsa preziosa - affermano gli esperti Hays - per le aziende, indispensabile per conciliare le diverse necessità dei professionisti e per garantire un alto grado flessibilità aziendale, essenziale per avere successo in un ambiente dinamico e in rapido cambiamento come quello odierno. È necessario lavorare in primis sulla cultura aziendale, favorendo un ambiente collaborativo e positivo. Datore di lavoro e dipendenti devono avere un obiettivo comune e devono condividere le modalità con cui raggiungerlo. In questo modo, sarà possibile lavorare in squadra e ottenere ottimi risultati pur non essendo fisicamente nello stesso luogo”.

Per funzionare al meglio lo smart working deve essere quanto più strutturato possibile, ma non in termini di controllo delle persone, bensì in termini di organizzazione. Spesso, infatti, il lavoro agile viene concesso solo ad alcune risorse con particolari esigenze di flessibilità o viene riservato a quadri e manager o, addirittura, è appannaggio unicamente dei consulenti freelance. Dovrebbe, invece, essere frutto di una politica aziendale vera e propria che incoraggia i dipendenti a usufruirne in modo consapevole. Più le risorse saranno libere di utilizzare lo smart working, più saranno in grado di organizzarsi con il proprio team per portare a termine il lavoro anche virtualmente.

Inoltre, il tempo speso dai collaboratori nello stesso ufficio non dovrebbe essere valutato in termini quantitativi, ma qualitativi. Un team di lavoro dovrebbe incontrarsi perché ha realmente necessità di farlo e non perché è 'obbligato' a condividere lo spazio di lavoro quotidianamente. Alcune attività meramente operative, ad esempio, non necessitano della presenza dei colleghi e dovrebbero poter essere svolte dove e quando il professionista desidera. In questo modo, il tempo dedicato alle riunioni di team e allo stare con i colleghi diventa tempo di 'qualità' perché riservato alla parte più importante del lavoro, ovvero alla sfera creativa, all’innovazione e, soprattutto, alla strategia.

Per fare ciò, chiaramente, è necessario uno sforzo maggiore da parte di manager e dirigenti, sottolineano gli esperti, che devono mettere in chiaro fin da subito gli obiettivi da raggiungere e condividere i valori aziendali con tutti i collaboratori. La cultura organizzativa è l’elemento chiave da cui partire se si vuole implementare con successo il lavoro agile. Un ambiente lavorativo rigido e fortemente gerarchico è sicuramente meno affine al concetto di autonomia e pertanto più esposto alle eventuali insidie dello smart working. Una cultura aziendale basata sulla reciproca fiducia, invece, è fondamentale per concedere a tutti la flessibilità di cui hanno bisogno, mantenendo alta la produttività e ottenendo ottimi risultati di business.

La legge sullo Smart Working prevede che datore di lavoro e dipendente sottoscrivano un accordo individuale, sia a tempo determinato che indeterminato, per disciplinare la nuova tipologia di lavoro.

Questo accordo deve definire:

le forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro;

gli strumenti tecnologici utilizzati dal lavoratore;

i tempi di riposo;

l’esercizio del potere di controllo del datore, nei limiti della disciplina dei controlli a distanza;

le condotte legate al lavoro esterno all’ufficio che danno luogo a sanzioni disciplinari.

Il pilastro portante dello Smart Working deve essere un rapporto di fiducia tra il datore di lavoro e il dipendente che, sentendosi più libero di organizzare luoghi e tempi di lavoro, può garantire maggior produttività all’azienda. In questo modo a guadagnarci sono tutti: i dipendenti guadagnano tempo, flessibilità ed energie per esempio sprecate per andare e tornare dal luogo di lavoro; il datore di lavoro ci guadagna in termini di spese per la gestione dell’ufficio che perde di centralità, e in produttività dei dipendenti.



giovedì 26 marzo 2020

Assenze Coronavirus: congedi solo se retribuiti



Coronavirus: il Decreto 11 marzo individua, tra le alternative al lavoro in azienda, strumenti non penalizzanti, tra cui i congedi ma solo se sono quelli retribuiti.

Smart working, ferie e congedi, ma solo se questi ultimi sono di quelli retribuiti: il decreto 11 marzo sull’emergenza Coronavirus fornisce nuove indicazioni ai datori di lavoro che chiudono i locali aziendali e devono quindi decidere quali strumenti utilizzare per i dipendenti che restano a casa.

Lo smart working resta lo strumento fondamentale, e il testo della norma (comma 7, lettera a) indica che le imprese devono farne il “massimo utilizzo” (indicazione più stringente rispetto alle formulazioni dei precedenti decreti, che invitano a utilizzarlo semplificando le regole applicative).

In alternativa (in particolare, per le mansioni che non possono essere svolte in smart working), vanno incentivate «le ferie e i congedi retribuiti». Se il ricorso alle ferie era già previsto dai precedenti decreti (e non sembra che la nuova formulazione contenga particolari novità in questo senso), sui congedi viene indicato che bisogna incentivare la fruizione di quelli retribuiti. Oltre agli «altri strumenti previsti dalla contrattazione collettiva».

Sono precisazioni importanti, perché indicano con chiarezza che i datori di lavoro devono privilegiare strumenti che non comportino eccessive penalizzazioni per i lavoratori.
I congedi lavorativi possono essere di diverso tipo, infatti, e non sempre sono retribuiti, in alcuni casi lo sono parzialmente. Il testo della legge invita chiaramente all’utilizzo dei congedi retribuiti.

Oltre ai permessi mensili retribuiti al 100% (ROL), i dipendenti genitori hanno diritto al congedo parentale e, chi si trova nelle condizioni, ha diritto al congedo per assistere parenti disabili (retribuito al 30% il congedo parentale, al 50% quello per l’assistenza disabili).

Secondo i consulenti del lavoro, la ratio è quella «di sensibilizzazione reciproca, da parte del datore così come del prestatore di lavoro, di arginare la sofferenza della organizzazione aziendale ricorrendo ad assenze indennizzate che non mortifichino, dall’altro lato, il potere reddituale del lavoratore stesso».

In ogni caso, il testo della legge contiene espliciti riferimenti alla contrattazione collettiva (nazionale, territoriale e aziendale), per attivare gli strumenti adeguati.

Sul fronte congedi sembra lecito attendersi novità dal Decreto Salva Economia, che conterrà novità sul fronte conciliazione lavoro-famiglia (in considerazione della sospensione scolastica), in particolare formule speciali di congedo parentale per i genitori: si attendono fino a 15 giorni, da utilizzare cumulativamente fra i due genitori, con indennità al 100% oppure parametrata alla retribuzione.

Aggiungiamo infine che in vista ci sono misure di sostegno a tutte le categorie di lavoratori (dipendenti autonomi) in termini di ammortizzatori sociali. Anche qui, la legge contiene già alcune indicazioni che sembrano immediatamente applicabili: si possono utilizzare gli ammortizzatori nel caso in cui si chiudano le imprese o gli uffici per fare opere di sanificazione degli ambienti lavorativi.



sabato 21 marzo 2020

Lavoro: quarantena retribuita come malattia



Per i lavoratori dipendenti la quarantena per COVID-19 è equiparata alla malattia, ci vuole il certificato medico: norme, definizioni e procedure.

Era una precisazione ce è arrivata con il decreto Cura Italia: i lavoratori che sono in quarantena per evitare il contagio hanno diritto alla malattia. E i giorni trascorsi a casa non si calcolano ai fini del superamento del periodo di comporto. Il riferimento è l’articolo 26, comma 1, del decreto 18/2020.

Riguarda il periodo trascorso in isolamento con sorveglianza attiva o in permanenza domiciliare fiduciaria dei lavoratori dipendenti. Innanzitutto, le relative definizioni di legge:

quarantena con sorveglianza attiva: persone che hanno avuto contatti stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusiva (articolo 1, comma 2, lettera h, dl 6/2020).

permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva: persone che hanno fatto ingresso in Italia da zone a rischio (lettera i, dello stesso articolo).

La seconda definizione resta valida e si applica anche declinata in base a specifiche ordinanze locali legate al rischio di contagio.

In ogni caso, è il Dipartimento di prevenzione della Asl a disporre il provvedimento di quarantena o sorveglianza in base alle indicazioni che possono arrivare dalla persone stessa, dall’azienda o dai medici di base.

Questi ultimi compilano il certificato, specificando gli estremi del provvedimento che ha dato origine alla quarantena con sorveglianza attiva o alla permanenza domiciliare. Il provvedimento può venire emesso dall’ASL in relazione a una delle notizie sopra riportate.

Un lavoratore segnala di avere avuto un contatto stretto con un caso confermato di Covid 19. L’azienda provvede ad avvisare l’ASL (ci sono appositi numeri di emergenza per il Covid-19 forniti dalla Regione o dal ministero della Salute). che a sua volta prende le contromisure indicate.

I medici di base hanno precise indicazioni da parte delle autorità e di conseguenza sanno esattamente quando prescrivere la quarantena. Ricordiamo che l’indicazione del ministero è quella di rivolgersi al medico di base, chiamandolo al telefono, evitando invece di andare in pronto soccorso o in ambulatorio. La quarantena, come è noto, dura 15 giorni.

Attenzione: sono considerati validi i certificati di malattia trasmessi, prima dell’entrata in vigore del decreto Cura Italia (quindi, prima del 17 marzo), anche in assenza dell’indicazione del provvedimento in base al quale si dispone la quarantena.

La quarantena equivale a un periodo di malattia. Ed è quindi retribuita di conseguenza. E non vale ai fini del periodo di comporto (il numero massimo di giorni in cui un lavoratore può stare a casa per malattia mantenendo il diritto al posto di lavoro).

Contatti a rischio

Per contatto stretto, in base alle indicazioni del Ministero della Salute:

persona che vive nella stessa casa di un caso di COVID-19;

una persona che ha avuto un contatto fisico diretto con un caso di COVID-19 (per esempio la stretta di mano);

persona che ha avuto un contatto diretto non protetto con le secrezioni di un caso di COVID-19 (ad esempio toccare a mani nude fazzoletti di carta usati);

persona che ha avuto un contatto diretto (faccia a faccia) con un caso di COVID-19, a distanza minore di 2 metri e di durata maggiore a 15 minuti;

persona che si è trovata in un ambiente chiuso (ad esempio aula, sala riunioni, sala d’attesa dell’ospedale) con un caso di COVID-19 per almeno 15 minuti, a distanza minore di 2 metri;

operatore sanitario od altra persona che fornisce assistenza diretta ad un caso di COVID19 oppure personale di laboratorio addetto alla manipolazione di campioni di un caso di COVID-19 senza l’impiego dei DPI raccomandati o mediante l’utilizzo di DPI non idonei;

persona che abbia viaggiato seduta in aereo nei due posti adiacenti, in qualsiasi direzione, di un caso di COVID-19, i compagni di viaggio o le persone addette all’assistenza e i membri dell’equipaggio addetti alla sezione dell’aereo dove il caso indice era seduto (qualora il caso indice abbia una sintomatologia grave od abbia effettuato spostamenti all’interno dell’aereo, determinando una maggiore esposizione dei passeggeri, considerare come contatti stretti tutti i passeggeri seduti nella stessa sezione dell’aereo o in tutto l’aereo).

C’è una precisazione per i datori di lavoro: gli oneri connessi alla quarantena, per i quali si presenta domanda agli enti previdenziali, sono a carico dello Stato.

Sono diverse le regole che si applicano ai dipendenti pubblici e privati in possesso del riconoscimento di disabilità grave (articolo 3, comma 3, legge 104/1992), nonché ai lavoratori in possesso di certificazione rilasciata dai competenti organi medico legali, attestante una condizione di rischio derivante da immunodepressione o da esiti da patologie oncologiche o dallo svolgimento di relative terapie salvavita: in questi casi, fino al 30 aprile, il periodo di assenza dal servizio prescritto dalle competenti autorità sanitarie, è equiparato al ricovero ospedaliero.



venerdì 23 novembre 2018

Legittima l’indennità di disoccupazione anche se il lavoratore ha un con contratto a termine



Lo stato di disoccupazione normativamente rilevante ai fini del diritto all'indennità di disoccupazione non equivale alla totale mancanza di ogni attività lavorativa, ma piuttosto alla percezione di redditi di importo inferiore alla soglia minima imponibile per legge (Cassazione civile, sezione lavoro, ordinanza 17 ottobre 2018, n. 26027).

La Corte di Cassazione ha riconosciuto l’indennità di disoccupazione al lavoratore in somministrazione che perde uno dei 2 contratti che lo legano al datore somministratore, dovendosi ritenere che lo stato di disoccupazione normativamente rilevante ai fini del diritto all'indennità di disoccupazione non equivalga alla totale mancanza di ogni attività lavorativa, ma piuttosto alla percezione di redditi di importo inferiore alla soglia minima imponibile per legge.

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza 17 ottobre 2018, n. 26027, ha riconosciuto il diritto all’indennità di disoccupazione per un lavoratore in somministrazione che aveva perso uno dei 2 contratti stipulati tramite agenzia, mantenendone uno. Infatti, respingendo il ricorso dell'INPS , i Supremi giudici affermano che  lo stato di disoccupazione normativamente rilevante ai fini del diritto all’indennità di disoccupazione non equivale alla totale mancanza di ogni attività lavorativa, ma piuttosto al fatto di percepire un reddito inferiore alla soglia minima imponibile per legge.

Il caso aveva ad oggetto la stipula di più contratti di somministrazione a tempo determinato, da parte di una lavoratrice rimasta poi disoccupata che aveva inoltrato richiesta di corresponsione di indennità di disoccupazione.

In primo grado, il Tribunale di Torino, in funzione di giudice del lavoro, aveva condannato l’Inps a corrispondere alla lavoratrice l’indennità di disoccupazione
L’istituto previdenziale era ricorso davanti alla Corte di appello di Torino che aveva ribadito, in linea con la decisione del giudice del lavoro, che non poteva esservi dubbio sul fatto che l’indennità di disoccupazione spettasse al lavoratore occupato contemporaneamente presso due diversi datori di lavoro che, a partire da una certa data in avanti, avesse perduto uno dei due contratti, ricadendo quindi sotto la soglia reddituale; di conseguenza aveva rigettato il ricorso prodotto dall’Inps.

A questo punto, l’Inps aveva ricorso in Cassazione rilevando che  tale decisione avrebbe male interpretato la disciplina prevista dall’ordinamento previdenziale secondo la quale l’indennità di disoccupazione è riconosciuta solo a favore di coloro che involontariamente non siano più titolari di un rapporto di lavoro, anche se non stabile e continuativo nel corso dell’anno. In altri termini, a detta del ricorrente, la scriminante per l’erogazione di suddetto istituto previdenziale era determinata dalla mancanza di lavoro, tout court, ed a tale proposito il riferimento normativo a sostegno di tale tesi era contenuto nel R.D.L. n. 1827 del 1935, precisamente l’art. 45, terzo comma, secondo cui “L’assicurazione per la disoccupazione involontaria ha per scopo l’assegnazione agli assicurati di indennità nei casi di disoccupazione involontaria per mancanza di lavoro”.

Ad avviso della Corte di Cassazione il ricorso dell’Inps è da ritenersi infondato in quanto non è giuridicamente legittimo introdurre, e, quindi, fare valere, una discriminazione tra la specie di un unico datore di lavoro somministratore rispetto a più rapporti di lavoro part time a tempo determinato del lavoratore somministrato, a quella di un lavoratore titolare di più rapporti di lavoro a tempo parziale con distinti datori di lavoro. Quanto affermato, soprattutto in considerazione del fatto che la parte debole del rapporto di lavoro (id est, il lavoratore) in ambedue i casi si vedrebbe privato della propria fonte reddituale di sostentamento.

I Giudici di legittimità hanno, pertanto, riconosciuto pregio giuridico alla decisione della Corte di Appello di Torino la quale aveva stabilito che lo stato di disoccupazione normativamente rilevante ai fini del diritto all’indennità di disoccupazione non equivale alla totale mancanza di ogni attività lavorativa, ma piuttosto alla percezione di redditi di importo inferiore alla soglia minima imponibile dalla legge.

La Corte di Cassazione, inoltre, ha richiamato una propria precedente pronuncia (Cass. Sez, lav. n. 705/2016) dove, in un caso di collocamento in mobilità per uno dei due rapporti a tempo parziale cui  era interessato un lavoratore, ha stabilito che “Il lavoratore titolare, contemporaneamente, di due rapporti di lavoro subordinato a tempo parziale cd orizzontale, collocato in mobilità per uno dei due con prosecuzione dell’altro, ha diritto alla relativa indennità stante la facoltà, prevista per l’iscritto alle liste di mobilità della L. n. 223 del 1991, art. 8, comma 6, di svolgere lavoro a tempo parziale pur mantenendo l’iscrizione;




domenica 11 novembre 2018

Stipendio basso, come rinegoziare l'aumento



La busta paga è il documento necessario per tutti i dipendenti, che attesta la retribuzione netta e lorda del lavoratore e serve per verificare lo stipendio percepito e la sua congruità con quanto stabilito nel CCNL. Sulla busta paga si possono inoltre verificare i contributi pensionistici versati dal datore di lavoro a vantaggio del dipendente.

 Cinque mosse per rinegoziare lo stipendio. Michael Page, specializzato nella selezione di professionisti, middle e top manager, consiglia di verificare prima se la propria retribuzione è il linea con la media nazionale.

In primo luogo avere in mente la situazione aziendale. Per poter fare una richiesta in linea con le possibilità dell'azienda è necessario conoscere la situazione finanziaria della società. Inoltre, è bene sapere se il proprio stipendio, o quello desiderato, è in linea con la retribuzione del mercato.

Riflettere sulle esigenze personali. Prima di effettuare una richiesta bisogna capire quale livello salariale minimo potrebbe essere soddisfacente e quale è invece la retribuzione ideale, in modo da iniziare a negoziare sempre dal valore più alto e lasciare spazio alle proposte. Per identificare nel modo più fattuale possibile queste cifre bisogna pensare al costo della vita attuale, alle tendenze del mercato e alla propria istruzione ed esperienza, senza tralasciare i desideri collegati al proprio percorso professionale per il breve, medio e lungo termine.

Non solo stipendio, le altre proposte da valutare. Quando ci si trova a negoziare bisogna sempre ricordarsi che il pacchetto retributivo non si limita solo al salario. L’offerta aziendale può comprendere formazione, orari flessibili, smart working, benefit etc. Inoltre, è molto importante valutare l'esistenza di un percorso di crescita e promozione chiaro e ben delineato.

Il tempismo è importante. L’ideale è che sia sempre il datore di lavoro ad affrontare per primo il tema del salario. Se un intervistatore cerca di cogliere le aspettative retributive durante un colloquio è bene chiedere più dettagli legati alla potenziale posizione prima di esporsi in tal senso, in modo da poterne discutere una volta conclusa la selezione e già ricevuta un’offerta.

Negoziare in modo deciso ma giusto. All’interno di una negoziazione è fondamentale essere preparati e non perdere di vista i punti sostanziali della propria richiesta. Entrambe le parti auspicano alla situazione più vantaggiosa per loro e, per questo motivo, bisogna sempre rispettare l’interlocutore senza però mostrare indecisioni o insicurezze.

"Negoziare lo stipendio - commenta Adriano Giudici, executive manager divisione engineering & manufacturing - è un momento sfidante, che mette in discussione non solo gli aspetti legati alla propria carriera ma anche quelli più vicini alla vita personale. Per questo motivo, consigliamo sempre di prepararsi seriamente in vista del confronto con il proprio datore di lavoro. Bisogna essere pronti a parlare di aspettative specifiche e realistiche basate sulle proprie capacità, esperienze e tendenze del mercato attuale, senza farsi prendere dall'emotività".




lunedì 22 ottobre 2018

Utilizzando Whatsapp in modo in proprio si può perdere il posto di lavoro



Attenzione agli sfoghi su Whatsapp: possono costarti il posto di lavoro. Magari si parla male del capo, proprio durante l’orario di lavoro, pensando che niente e nessuno potrà venirne a conoscenza. Invece, sempre di più sono i giudici che sentenziano contro le conversazioni tra privati. Che possono sfociare in licenziamenti o comunque in sanzioni disciplinari. Ricordate che tutto ciò che si fa con le nuove tecnologie non è privato. I giudici stanno infatti allargando le maglie dell’utilizzo in giudizio delle conversazioni fra privati. E ad entrare sempre più nei processi sono proprio gli scambi di messaggi su Whatsapp, tra gruppi o con singoli destinatari: tutti possono dar luogo a licenziamenti o sanzioni disciplinari.

Ma i messaggi possono essere utilizzati anche dal lavoratore per dimostrare l’esistenza di un’attività di tipo subordinato o la comunicazione dell’assenza per malattia.

I messaggi Whatsapp sono prove documentali che possono essere prodotte anche quando il datore di lavoro non è tra i destinatari della chat. Ha quindi valore giudiziario la registrazione di una chat Whatsapp inviata da un dirigente alla moglie dell’amministratore unico che denota un atteggiamento ostile verso l’azienda e giustifica il licenziamento. (Tribunale di Fermo, decreto 1973 del 2017). Ed è legittima anche la produzione delle chat inviate da un medico del pronto soccorso ai colleghi. Se qualcuno fa la “spia” e recapita i contenuti al dirigente, questi possono essere utilizzati per legittimare la sanzione disciplinare (Tribunale di Vicenza, sentenza del 14 dicembre 2017 n. 778).

I giudici hanno inoltre ritenuto legittima l’esclusione da parte di una cooperativa e, di conseguenza, il licenziamento disciplinare di un socio lavoratore che, in una chat su Whatsapp, aveva tentato di boicottare l’attività produttiva, fomentando forme di protesta anche da parte degli altri soci (Tribunale di Bergamo sentenza del 7 giugno 2018 n. 424).

Ma il Tribunale di Roma (sentenza n. 3478 del 4 maggio scorso) ha ritenuto illegittimo il licenziamento irrogato alla lavoratrice colpevole di aver usato un tono di sfida nel file vocale inviato nella chat di gruppo su Whatsapp della quale faceva parte anche il proprio superiore. Per il giudice contano le parole usate e non le intenzioni, ed è proprio la trascrizione del file vocale a salvare la lavoratrice, acquisita in giudizio come prova documentale.

Nel bene e nel male le chat assumono quindi un valore dirimente e, in genere, il diritto di difesa prevale sulla riservatezza altrui. Così i messaggi Whatsapp possono fornire la prova dell’esistenza di un rapporto di lavoro, ma per ottenere le differenze retributive occorre che dal tenore degli stessi emergano elementi precisi e concordanti (Tribunale di Milano, sentenza del 27 aprile 2018 n.1148). I messaggi Whatsapp inchiodano il datore anche ai vincoli della subordinazione quando siano comprovati «gli ordini e le direttive anche sull'orario di lavoro» (Tribunale di Vercelli, sentenza n. 110 del 31 luglio 2017).

La questione della producibilità in giudizio delle conversazioni private è molto delicata. Da un lato va valutato il diritto di difesa della parte che pretende di far entrare quella prova nel processo, dall’altra il diritto alla riservatezza degli utenti. L’articolo 616 del Codice penale protegge l’inviolabilità della corrispondenza e ne punisce la rivelazione senza giusta causa. Ma la regola della segretezza può essere derogata dal legittimo interesse invocato anche dal nuovo Regolamento Ue in materia di privacy che permette il trattamento dei dati personali anche senza il consenso dell’interessato.

Le ultime sentenze hanno decisamente allargato le maglie della producibilità in giudizio delle conversazioni tra privati, dando vita a una visione moderna del diritto che non esclude di prendere in considerazione tutti gli elementi di prova a disposizione delle parti in causa, partendo dal presupposto che la vita online delle parti in causa può rilevare elementi utili su quella off line.
Per i magistrati, quindi, se vi è un interesse di causa e la corrispondenza è rilevante ai fini del giudizio potrà essere utilizzata senza invocare la privacy del diretto interessato.

I giudici hanno detto sì pure al licenziamento da una cooperativa di un socio lavoratore che, su Whatsapp, aveva tentato di boicottare l’attività di produzione, fomentando forme di protesta da parte degli altri soci (Tribunale di Bergamo, sentenza 7 giugno 2018, numero 424). Illegittimo, invece, per il Tribunale di Roma il licenziamento di una lavoratrice, colpevole di aver utilizzato un tono di sfida in un vocale inviato al gruppo di Whatsapp di cui faceva parte anche il superiore (sentenza 3478 del 4 maggio 2018). Secondo il giudice, infatti, contano soltanto le parole usate, non le intenzioni. La trascrizione del vocale è stata la salvezza della lavoratrice, comunque un po’ incauta.



giovedì 11 ottobre 2018

Lavoro: il contratto a tempo determinato



Il contratto a tempo determinato, o più semplicemente contratto a termine, è diventato negli ultimi anni sempre più frequente fino a costituire  la modalità più utilizzata dai datori di lavoro. Offre infatti il vantaggio della flessibilità, necessaria ai datori di lavoro che si confrontano con una difficile congiuntura economica, anche se è sottoposto a un costo maggiore.

La normativa è cambiata più volte negli ultimi anni, prima con il Jobs act (D.lgs. 81/2015) che togliendo le causali  intendeva favorire l'occupazione negli anni di più profonda crisi. Ora il Decreto Dignità (L. 96 2018) ne ha ristretto nuovamente l'utilizzo, ed è intervenuto  sia limitandone la durata  che reintroducendo l'obbligo di causale dopo i primi 12 mesi . Inoltre lo ha reso ancora meno conveniente innalzando il contributo aggiuntivo di uno 0,50% ad ogni rinnovo, per tentare di spingere le aziende verso forme contrattuali più stabili. E' stato anche concesso più tempo al lavoratore che intenda impugnare il contratto in caso di irregolarità portando il termine da 120 a 180 giorni.

Le novità  del nuovo decreto relative alla durata sono applicabili:

ai contratti  stipulati dalla data di entrata in vigore del decreto: 14 luglio 2018,

per  rinnovi e proroghe di contratti che fossero già attivi a quella data: dal 1 novembre  2018.

La normativa del d.lgs n. 81 2015 resta comunque in vigore su molti aspetti della materia come sulla disciplina degli intervalli fra contatti sulla comunicazioni obbligatorie, il diritto di precedenza, l'obbligo di parità di trattamento normativo ed economico e di formazione dei lavoratori.

Il contratto a termine deve avere forma scritta tranne nel caso di rapporti di durata inferiore ai 13 giorni. Il datore di lavoro deve consegnarne al lavoratore una copia, entro 5 giorni lavorativi dall'inizio della prestazione.

Il contratto a tempo determinato è tale perché nella lettera di assunzione viene indicata una data di cessazione del rapporto di lavoro. Il termine può essere stabilito con una data precisa oppure con riferimento ad un evento futuro e certo ma del quale è incerta la data esatta – ad esempio  nelle sostituzioni per maternità può essere usata la dicitura "…fino al rientro in servizio della lavoratrice ".

Il datore di lavoro è tenuto a effettuare le comunicazioni obbligatorie di assunzione, trasformazione e di cessazione (se anticipata rispetto al termine fissato) al servizio regionale al servizio telematico della propria Regione  o provincia autonoma. (Per le comunicazioni obbligatorie è necessario rivolgersi ad Anpal. Tutti i contatti sono disponibili al seguente link: www.anpal.gov.it/Aziende/Servizi/Pagine/Contatti)

La durata massima complessiva di utilizzo dei contratti a termine passa con il Decreto dignità da 36 a 24 mesi. In particolare il primo contratto può essere senza causale ma deve avere come termine massimo 12 mesi.

Un rinnovo di contratto o una proroga con lo stesso lavoratore e per le stesse mansioni può essere stipulato solo con l'apposizione di una tra le CAUSALI seguenti:

esigenze temporanee e oggettive, estranee all'ordinaria attività;

esigenze di sostituzione di altri lavoratori;

esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell'attività ordinaria.

Sono esenti dall'obbligo di causale le attività stagionali. Inoltre sull'obbligo della causale non sono previste deroghe per la contrattazione collettiva nazionale ma solo per la contrattazione aziendale o di prossimità.

Il numero di proroghe o rinnovi possibili scende da 5 a 4, sempre all'interno della durata massima di 24 mesi. E' sempre richiesto l'assenso del lavoratore.

È consentita la riassunzione del lavoratore a termine con le stesse mansioni nella stessa azienda solo nel rispetto dei seguenti intervalli tra un contratto e l’altro:

INTERVALLO MINIMO FRA DUE CONTRATTI A TERMINE SUCCESSIVI

contratti di durata pari o inferiore a 6 mesi   10 giorni

contratti di durata superiore a 6 mesi        20 giorni

Il mancato rispetto dei predetti intervalli comporta la trasformazione del secondo contratto da tempo determinato a tempo indeterminato.

Sono esclusi  da queste limitazioni: i lavoratori impiegati nelle attività stagionali individuate con decreto del Ministero del lavoro; le ipotesi individuate dai contratti collettivi; i contratti a termine stipulati dalle agenzie di somministrazione.

E' previsto un termine massimo per prosecuzioni di fatto (senza proroga o rinnovo del contratto) del rapporto pari a:

30 giorni, se il contratto a termine aveva una durata inferiore a 6 mesi, e 50 giorni negli altri casi.

Per queste prosecuzioni il lavoratore ha diritto ad una maggiorazione dello stipendio.

Se il rapporto di lavoro prosegue oltre, il contratto deve essere considerato a tempo indeterminato dal momento della scadenza dei termini.

Non si può utilizzare il contratto a tempo determinato nei casi seguenti:

la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero;

presso unità produttive nelle quali si è proceduto, entro i 6 mesi precedenti, a licenziamenti collettivi, di lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto, salvo che per provvedere alla sostituzione di lavoratori assenti, per assumere lavoratori iscritti nelle liste di mobilità , o con durata iniziale non superiore a 3 mesi;

presso unità produttive nelle quali sono operanti una sospensione del lavoro o una riduzione dell'orario in regime di cassa integrazione guadagni

da parte di datori di lavoro che non hanno effettuato la valutazione dei rischi secondo la normativa di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori.

La violazione comporta la trasformazione del contratto in contratto a tempo indeterminato.

Salvo diversa disposizione della contrattazione collettiva i contratti a tempo determinato non possono superare il 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell'anno di assunzione. Nel caso di inizio dell'attività nel corso dell'anno, il limite percentuale si computa sul numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al momento dell'assunzione.

NOVITÀ 2018 nel caso di utilizzo anche di contratti in somministrazione il limite complessivo è fissato al 30 % della forza aziendale.

ECCEZIONI: imprese start-up innovative; attività stagionali; per specifici spettacoli e programmi radiofonici o televisivi; per sostituzione di lavoratori assenti; con lavoratori di età superiore a 50 anni; università, istituti pubblici di ricerca, istituti di cultura.

Al lavoratore a tempo determinato spetta il trattamento economico e normativo, anche in materia di formazione, in atto nell'impresa per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato comparabili (c.d. principio di non discriminazione), in proporzione al periodo lavorativo prestato.

La violazione, da parte del datore di lavoro, del divieto di discriminazione, comporta l’applicazione di una sanzione amministrativa.

E' previsto un contributo a carico dei datori di lavoro per le assunzioni a termine pari al 1,4% della retribuzione imponibile del lavoratore, riservato al finanziamento dell’indennità di disoccupazione Naspi. In caso di rinnovo  viene aumentato did uno 0,5% passando dunque all'1,9%, e con il secondo rinnovo al 2,4% e cosi via.

Salvo diversa disposizione dei contratti collettivi, il lavoratore che ha prestato attività lavorativa per un periodo superiore a 6 mesi ha diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate in azienda entro i successivi 12 mesi con riferimento alle mansioni già espletate. Per le lavoratrici, il congedo di maternità durante un contratto a tempo determinato può essere  conteggiato per conseguire il diritto di precedenza.

Inoltre il lavoratore assunto per lo svolgimento di attività stagionali ha diritto di precedenza rispetto a nuove assunzioni a tempo determinato per le medesime attività.

Il diritto di precedenza deve essere espressamente richiamato nel contratto e può essere esercitato a condizione che il lavoratore manifesti per iscritto la propria volontà in tal senso al datore di lavoro entro 6 mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro (3 mesi nel caso di attività stagionali). E si estingue dopo un anno dalla cessazione del rapporto.

Il Decreto dignità ha ricompreso nelle nuove regole su durata e obbligo di causale anche i contratti stipulati in regime di somministrazione, facendo salve però le previsioni dei contratti collettivi del settore.

Inoltre la legge di conversione ha specificato che tali  nuovi limiti si intendono riferiti al rapporto tra azienda utilizzatrice e lavoratore; l'agenzia per il lavoro può quindi utilizzare il lavoratore in missioni diverse senza limiti temporali, se non quelli riferiti ad una specifica azienda.

La normativa attuale non ha modificato la possibilità al termine del periodo di utilizzo massimo del contratto a termine (24 mesi) di stipula del cosiddetto Contratto Assistito, stipulato davanti all’Ispettorato territoriale del lavoro, sempre con durata massima di  12 mesi. Anche questo contratto è sottoposto all'obbligo di causale e di contribuzione maggiorata dello 0,5%.

Ricordiamo che la disciplina è pienamente in vigore dal 1 novembre tra le specificazioni fornite dal documento di prassi segnaliamo in particolare:

In tema di “causale” obbligatoria quando la durata del contratto supera il periodo di 12 mesi,   si sottolinea che va inserita anche quando il  superamento avviene a seguito di proroga di un contratto originariamente inferiore ai 12 mesi.

La causale è obbligatoria anche nelle ipotesi in cui non è richiesto dal decreto-legge n. 87,  se il datore di  usufruire dei benefici previsti da altre disposizioni di legge (ad esempio per gli sgravi contributivi  decreto legislativo n. 151 del 2001, per la  sostituzione di lavorartici e lavoratori in congedo

Nel conteggio dei mesi si deve tener conto della DURATA complessiva dei rapporti di lavoro a termine intercorsi tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore, considerando  sia la durata di quelli già conclusi, sia la durata di quello che si intende  prorogare.

In tema di applicabilità della CONTRATTAZIONE COLLETTIVA viene chiarito che le previsioni contenute nei CCNL  stipulati prima del 14 luglio 2018, data di entrata in vigore del decreto,   su una  durata massima dei contratti a termine pari o superiore ai 36 mesi, mantengono la loro validità fino alla naturale scadenza dell’accordo collettivo.

AUMENTO ADDIZIONALE: Come noto il decreto dignità ha anche previsto l'aumento della contribuzione addizionale già fissata per i contratti a tempo determinato al 1,4 % della retribuzione imponibile. Si precisa che  al primo rinnovo la misura ordinaria dell’1,4% andrà incrementata dello 0,5%. In tal modo verrà determinata la nuova misura del contributo addizionale cui aggiungere nuovamente l’incremento dello 0,5% in caso di ulteriore rinnovo. Analogo criterio di calcolo dovrà essere utilizzato per eventuali rinnovi successivi, avuto riguardo all’ultimo valore base che si sarà venuto a determinare.

Altra specificazione importante è che la maggiorazione  non si applica in caso di proroga  ma solo nei casi di rinnovo

SOMMINISTRAZIONE: La circolare fornisce una indicazione importante sul tema del limite temporale di utilizzo del contratto a termine che somma la durata sia dei r contratti diretti che i contratti di somministrazione tra l'azienda e il lavoratore, utilizzato con la stessa  qualifica e mansione. Si specifica che il limite massimo di 24 mesi  va conteggiato tenendo conto  di tutti i rapporti di lavoro intercorsi , anche prima dell'entrata in vigore del Decreto Dignità.

Infine  si conferma anche per la somministrazione:

la "facoltà per la contrattazione collettiva di individuare  percentuali diverse, per tenere conto delle esigenze dei diversi settori produttivi"  per cui   i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati dalle associazioni sindacali  comparativamente più rappresentative sul piano nazionale mantengono la loro validità fino alla naturale scadenza del contratto collettivo.

Il limite percentuale del 30% trova applicazione per ogni nuova assunzione a termine o in somministrazione avvenuta a partire dal 12 agosto 2018. Pertanto, qualora presso l’utilizzatore sia  presente una percentuale di lavoratori, a termine e somministrati a termine con contratti stipulati in data  antecedente al 12 agosto 2018, superiore a quello fissato dalla legge, i rapporti in corso  potranno continuare fino alla loro iniziale scadenza e  non sarà possibile effettuare  nuove assunzioni né proroghe per i rapporti in corso fino a quando il datore di lavoro o l’utilizzatore non rientri entro i nuovi limiti.

Continuano a rimanere esclusi dall'applicazione dei predetti limiti i lavoratori  somministrati a tempo determinato che rientrino nelle categorie: i disoccupati che fruiscono da almeno 6 mesi di trattamenti di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali, soggetti svantaggiati o molto svantaggiati.





martedì 2 ottobre 2018

Selezione del personale: colloquio di lavoro con la video intervista





La video intervista, conosciuta anche come video colloquio, è uno strumento di selezione del personale sempre più diffuso tra i recruiter. Tra i vantaggi di questo strumento sono da evidenziare la riduzione dei tempi di assunzione e la facilitazione delle selezioni di carattere internazionale.

L’intervista video può migliorare l’iter selettivo perché il selezionatore ha la possibilità d’incontrare virtualmente più candidati, paragonarli e identificare i migliori basandosi non solo sui loro cv, ma anche valutando lo standing. La video intervista non andrà a sostituire il tradizionale colloquio faccia a faccia, ma è chiaro che anche il mondo del recruiting sta seguendo i principali trend evolutivi, in primis quello tecnologico, in un’ottica di miglioramento del lavoro dei recruiter.

Nel video-recruiting vi è un collegamento in diretta con il recruiter, che può avvenire con una semplice video call su Skype o Google Hangout, o un sistema specifico dell’azienda che può anche registrare l’intervista stessa.

Nelle forme così organizzate di video-recruiting, il candidato riceve un invito ad auto-presentarsi via video attraverso un link al quale si può collegare con qualunque device. Il selezionatore indica le domande a cui vorrebbe che il candidato rispondesse, scelte ovviamente in base alle caratteristiche ritenute strategiche per l’azienda a caccia di talenti. La video-presentazione con le risposte dura in media 5 minuti e può essere inserita dall’HR in vari momenti della selezione: per aziende o agenzie interinali che ricevono grandi moli di CV può essere utile per fare una prima scrematura, ma in altri casi si può scegliere di visionare prima tutti i CV e invitare successivamente una rosa di candidati a presentarsi con il video.

I video colloqui sono una pratica sempre più diffusa all’interno del processo di pre-selezione dei candidati. Durante questa prima fase, al candidato viene richiesto di rispondere ad alcune domande predefinite dal selezionatore e di registrare un video tramite webcam o smartphone.Per i recruiter questo sistema è un modo per rendere più efficiente, veloce e meno dispendioso il processo di pre-selezione. Il video colloquio è anche un'occasione unica per i candidati in quanto dà loro la possibilità di esprimersi al di là del proprio cv e mostrare la propria personalità. Il video consente, infatti, di far emergere le 'soft skills', oggi importanti quanto le 'hard skills', ma impossibili da individuare sulla base di un semplice curriculum.

Per prepararsi ad affrontare al meglio ecco qualche consiglio:

Chiedere quanto tempo si avrà a disposizione per organizzare al meglio la presentazione;

Preparasi a eventuali domande su carriera professionale, percorso di studi, competenze, attitudini e obiettivi professionali per essere il più esplicito e conciso possibile e utilizzare frasi brevi, motivando le proprie affermazioni durante l’intervista. Il tempo mediamente concesso per rispondere a ciascuna domanda varia tra i trenta secondi e i due minuti. È meglio parlare di tre elementi in dettaglio, piuttosto che di una dozzina senza avere modo di svilupparli.

Sceglier un ambiente adatto, che ben si presti a un colloquio: meglio se illuminato, senza rumori e distrazioni che potrebbero compromettere il confronto con il recruiter;

Verificare le impostazioni di audio, video e connessione è una buona regola usare le cuffie per ottimizzare la comunicazione;

Fare delle prove, registrandosi o facendo una video call con un amico per avere un feedback sulla tua performance;

Prestare attenzione alla postura, al tono della voce e alle espressioni del volto. Non gesticolare eccessivamente;

Assicurasi di aver fissato il dispositivo su una superfice stabile e di avere testa e spalle al centro della telecamera;

Per quanto riguarda i vestiti bisogna essere ordinati e sobri, evitando colori sgargianti o fantasie, il colore migliore da usare è il blu.

Bisogna essere sorridenti (ma non ridere troppo) e rilassati: è importante presentarsi in modo  preciso ma sintetico, elencando  le tappe fondamentali del percorso di studi e le esperienze salienti, dando spazio agli obiettivi raggiunti e alle competenze acquisite.

Preparsi una lista scritta di cose che reputi importanti da dire o chiedere e non vuoi dimenticare: ricorda che la video-intervista non è solo il momento in cui l’azienda valuta te, ma anche l’occasione in cui tu valuti il posto di lavoro e l’azienda.

E' importante mantenere il contatto visivo con l’intervistatore: non bisogna fissarlo ma nemmeno vagare ovunque con lo sguardo, è fastidioso, ti fa sembrare sfuggente, non da una sensazione di tranquillità e sicurezza all’interlocutore.

La scelta del luogo in cui registrare il video è molto importante: l'ambiente deve essere confortevole e tranquillo in modo da permettere una registrazione ottimale di suoni e immagini. È consigliabile impostare il telefono in modalità silenziosa, spegnere il televisore e limitare tutti quei rumori di sottofondo che potrebbero creare interruzioni o interferire con la registrazione. E' preferibile evitare ambienti bui o eccessivamente illuminati e bisogna avere tanta attenzione anche a non posizionarsi controluce. Non bisogna scordarsi di verificare che microfono, webcam e connessione Internet funzionino correttamente.

Altra raccomandazione è di impostare correttamente tutti i dispositivi per far sì che siano "attivi e funzionanti". "Informazioni sui requisiti tecnici - browser, velocità di connessione Internet, gestione delle impostazioni sono solitamente fornite dal selezionatore o direttamente dal tool di video colloquio. Ovvio che bisogna essere ben preparati e avere fiducia in se stessi e nelle proprie capacità comunicative è la chiave per un colloquio di successo. La maggior parte delle piattaforme di video colloquio permette ai partecipanti di testare in anticipo il tool.


martedì 10 luglio 2018

Se il dipendente che non va al lavoro ha diritto allo stipendio?



L’azienda può sospendere il pagamento dello stipendio nei casi di assenza ingiustificata o di impossibilità del dipendente di svolgere la prestazione lavorativa.

Sia quando il dipendente non può lavorare per sopraggiunte impossibilità, sia quando è lui stesso a non recarsi volontariamente al lavoro (assenza ingiustificata), il datore di lavoro non è tenuto a versargli lo stipendio. Anche nell’ambito lavorativo, infatti, vige il principio, sancito dal codice civile, secondo cui ciascuna delle parti può rifiutarsi di adempiere alla propria prestazione se l’altra non adempie. Procediamo con ordine e cerchiamo di comprendere se e quando il datore deve pagare lo stipendio al dipendente che non va al lavoro.

Quando l’assenza è ingiustificata il datore di lavoro può smettere di pagare al dipendente lo stipendio.

Le ragioni dell’assenza del dipendente
Il dipendente che non può recarsi al lavoro per una valida ragione deve subito comunicarlo al datore. Il caso emblematico è quello della malattia, per la quale è prevista una apposita trafila: visita medica; invio telematico del certificato all’Inps da parte dello stesso medico di base; possibilità per l’azienda di verificare, in via telematica, il certificato medico inviato all’Inps; eventuale richiesta di visita fiscale inoltrata all’Inps dall’azienda. Altra ipotesi tipica sono i permessi e i congedi riconosciuti dalla normativa di settore e dai contratti collettivi. Non in ultimo, ci sono le ferie retribuite che non possono essere negate al dipendente, ma che vanno previamente concordate con il datore.

Entro tali limiti fissati dalla normativa, il dipendente può assentarsi dal lavoro senza subire alcuna conseguenza di tipo sanzionatorio; inoltre quasi sempre il lavoratore assente mantiene il diritto allo stipendio pieno, salvo laddove per l’assenza non venga previsto il diritto alla retribuzione (è il caso,ad esempio, dei permessi non retribuiti).
Laddove invece l’assenza sia ingiustificata, il datore di lavoro può procedere allesanzioni disciplinari le quali possono essere di quattro tipi:

il rimprovero verbale;

la multa di importo pari a non più di quattro ore;

la sospensione dal soldo e dal servizio per non più di 10 giorni: in pratica il dipendente non deve andare a lavorare ma non ottiene neanche la retribuzione;

il licenziamento disciplinare. A seconda che il licenziamento venga intimato con o senza preavviso (a seconda cioè della gravità della condotta), si parlerà di licenziamento «per giustificato motivo soggettivo» e di licenziamento «per giusta causa».

Se il dipendente non è più in grado di lavorare il datore può sospendere il pagamento dello stipendio e, nei casi più gravi, licenziarlo

Veniamo così al capitolo più caldo: quello appunto del licenziamento. In caso di malattia, il licenziamento è vietato se non supera il cosiddetto «periodo di comporto»: si tratta del limite massimo di assenze che il dipendente può fare per malattia e durante il quale mantiene il diritto alla conservazione del posto. Superato il comporto, invece, il lavoratore può essere licenziato.

Una seconda ipotesi in cui il licenziamento è legittimo è quella del cosiddetto «giustificato motivo oggettivo», quello cioè dettato dalla impossibilità della prestazione lavorativa per sopravvenuta incapacità del dipendente (e sempre che lo stesso non possa essere ricollocato in mansioni equivalenti). Si pensi al caso di una persona che, divenuta non vedente, non possa più svolgere funzioni di segreteria; a un addetto alle vendite che non è più in grado di stare in piedi per molte ore; a una donna che, per via di una grave operazione, sia costretta ogni tre ore a prenderne una di riposo, ecc.

Ma il licenziamento non è l’unica soluzione che ha il datore di lavoro: questi può anche disporre la sospensione dello stipendio per i giorni di assenza ingiustificata o determinati da impossibilità della prestazione.

La sospensione dello stipendio
Dopo aver passato in rassegna cosa succede quando il dipendente si assenta dal lavoro, cerchiamo di comprendere se, nei casi di assenza ingiustificata o determinata da una impossibilità fisica a svolgere le mansioni, è possibile sospendere il pagamento della busta paga. In altre parole, se il dipendente non va al lavoro ha diritto allo stipendio?
A riguardo la Cassazione ha affermato che nel contratto di lavoro «ciascuna parte può valersi dell’eccezione di inadempimento prevista dal codice civile» in base alla quale, se una parte non adempie ai propri obblighi l’altra può esimersi dal rispettare i suoi. Alla inadempienza del lavoratore il datore di lavoro non deve necessariamente reagire solo con sanzioni disciplinari o, al limite, con il licenziamento, oppure col rifiuto di ricevere la prestazione parziale e con la richiesta di risarcimento dei danni. Ne consegue che «nel caso di inadempimento della prestazione lavorativa il datore di lavoro non è tenuto al pagamento delle retribuzioni». Detto in parole più semplici, non è dovuta la retribuzione durante il periodo di sospensione del rapporto, salvo che si verta in una delle ipotesi in cui la sospensione è tutelata dalla legge, quale la malattia.

I casi in cui si può non pagare lo stipendio al dipendente che non va al lavoro sono essenzialmente due:

assenza ingiustificata (fuori cioè dai casi di malattia, infortunio, permessi, congedi, gravidanza, puerperio, ecc.);

assenza determinata da impossibilità sopravvenuta allo svolgimento della prestazione lavorativa. Si tratta delle ipotesi che abbiamo esemplificato poc’anzi: un addetto ai trasporti che non può più guidare per una patologia alla schiena, un pilota di aereo che perde la vista, un addetto alla sicurezza che perde l’uso di una gamba, ecc. Si tratta di situazioni collegate alle condizioni fisiche del lavoratore, divenute incompatibili con le mansioni ad esso assegnate. A differenza della prima ipotesi (assenza ingiustificata), qui il dipendente non ha alcuna colpa.

Ciò nonostante, secondo la giurisprudenza, la sospensione dal servizio per impossibilità sopravvenuta allo svolgimento della prestazione non dà diritto alla retribuzione e se prolungata nel tempo autorizza il licenziamento del dipendente qualora non sia possibile ricollocare lo stesso a mansSoni equivalenti.


giovedì 10 maggio 2018

Lavoro part time: la retribuzione



Il contratto part time, conosciuto anche come tempo parziale, è un tipo di contratto che ha un orario ridotto, ossia una parte rispetto a quello previsto dal contratto a tempo pieno che è in generale di 40 ore settimanali (o eventuale orario minore secondo quanto fissato dai cosiddetti CCNL, contratti collettivi nazionali lavoro). Pertanto, se vieni assunto con un contratto di tale tipo, sai già che le tue attività lavorative avranno un orario che non potrà mai essere uguale a quello previsto dal full time. Di contro, la tua retribuzione sarà proporzionalmente ridotta sulla base delle ore effettivamente lavorate.

Il lavoratori part-time hanno diritto alla stessa retribuzione oraria dei dipendenti full-time con il medesimo inquadramento: la sentenza della Cassazione.

Con l’Ordinanza n. 8966/2018 la Corte di Cassazione ha ribadito il principio secondo il quale il lavoratore a tempo parziale ha diritto alla medesima retribuzione oraria spettante al lavoratore a tempo pieno inquadrato al medesimo livello, ovvero con il medesimo inquadramento in base al contratto collettivo di lavoro.

Viene quindi confermato il comportamento scorretto, contrario al principio di non discriminazione e in contrasto con le norme comunitarie, dell’azienda che applica ai lavoratori part-time un divisore orario sfavorevole rispetto a quello applicato ai corrispondenti lavoratori a tempo pieno, utilizzando criteri di comparazione diversi da quello legale, avente ad oggetto l’inquadramento del dipendente ai sensi del CCNL applicabile.

I giudici ricordano che l’Accordo quadro UE sul lavoro a tempo parziale, che vieta ogni forma di discriminazione rispetto ai contratti full-time. Nessuna circostanza di fatto, come l’adibizione a turni, può essere utilizzata dal datore di lavoro per giustificare una disparità di trattamento che si rifletta sulla retribuzione globale.

In presenza di tale disparità, il lavoratore può presentare richiesta all’azienda e ottenere di diritto la refusione delle differenze retributive.

Il nuovo Decreto consente al datore di lavoro di  richiedere prestazioni di lavoro supplementare al lavoratore assunto con contratto a tempo parziale in qualsiasi forma (orizzontale, verticale o misto) , nel limite  del 25% di ore settimanali,  prevedendo una  maggiorazione economica del 15% , anche in assenza di disposizioni contrattuali . Se il contratto prevede maggiorazioni superiori devono essere applicate in luogo a quella minima ,  in caso contrario,  deve essere applicato il 15%) .

Il lavoratore può rifiutarsi di prestare il lavoro supplementare solo in presenza di comprovate esigenze lavorative, di salute, familiari o di formazione professionale.

in presenza di rifiuto  ingiustificato all'effettuazione di lavoro supplementare il lavoratore sarà assoggettato ai   provvedimenti disciplinari previsti dal contratto collettivo di lavoro.

La retribuzione oraria globale di fatto per la remunerazione del lavoro supplementare deve tener conto della paga base, della contingenza, Edr, scatti di anzianità, superminimo contrattato, cottimo, indennità di mensa, indennità varie, aumenti al merito, ecc. .

Occorre poi tenere conto della  retribuzione indiretta (ferie, festività , permessi annui retribuiti, premio di risultato (se erogato annualmente), premio ferie, mensilità aggiuntive) e  della retribuzione differita ( trattamenti di fine rapporto e preavviso ).

Vediamo di seguito un esempio di come effettuare il calcolo per la retribuzione del lavoro supplementare, un dipendente ha un  contratto di lavoro a tempo parziale orizzontale di 20 ore settimanali (4 ore al giorno dal lunedì al venerdì).  Il contratto non prevede la regolamentazione del lavoro supplementare e il dipendente ha lavorato tutto il mese  di aprile  2016 effettuando  15 ore di lavoro supplementare .

Ipotizzando una retribuzione oraria pari ed euro 9,00 (comprensiva di paga base, contingenza, scatto anzianità, premio produzione e superminimo);  ai fini del calcolo, però occorre considerare anche la retribuzione indiretta e differita ovvero :

a) retribuzione indiretta : tredicesima, ferie rol e ex festività :  ipotizziamo euro 0,90;

b) retribuzione differita : TFR  ipotizziamo euro 0,50.

La retribuzione da  assumere per il calcolo del lavoro supplementare è pertanto pari a 10,40 euro;

Maggiorazione 15 % = euro 1,56

Totale retribuzione  per lavoro supplementare euro 11,96 x 15 ore =  euro 179,40

La lavoratrice, assunta con contratto a tempo indeterminato con prestazione part-time a 80 ore mensili, articolate su turni giornalieri di 8 ore ciascuno per un minimo di 10 giorni al mese e 80 giorni l'anno, ricorre giudizialmente al fine di chiedere la condanna della società al pagamento delle differenze retributive, stante la corresponsione al personale a tempo parziale di una retribuzione oraria inferiore a quella dovuta al personale dipendente a tempo pieno.

La società si costituisce, sostenendo la legittimità del proprio operato, sulla base del riconoscimento al lavoratore part-time della stessa retribuzione oraria del lavoratore full-time, salva la concessione a quest’ultimo di una retribuzione complessivamente maggiore in ragione dello svolgimento di turni continui e avvicendati.

La Cassazione evidenzia, preliminarmente, come la normativa applicabile sia l’art. 4 del d.lgs. n. 61/2000, attuativo della direttiva 97/81/CE, relativa all'accordo-quadro sul lavoro a tempo parziale (poi abrogato dal Jobs Act).

La sopraindicata disposizione, al fine di assicurare la soppressione delle discriminazioni nei confronti dei lavoratori a tempo parziale, prevede che gli stessi non debbano ricevere un trattamento economico-normativo meno favorevole rispetto ai prestatori a tempo pieno comparabili, con ciò intendendosi quelli inquadrati nello stesso livello in forza dei criteri di classificazione stabiliti dai contratti collettivi.

Tale equiparazione, continua la sentenza, riguarda ovviamente anche l'importo della retribuzione oraria, con la conseguenza che il trattamento del lavoratore a tempo parziale deve essere riproporzionato unicamente in ragione della ridotta entità della prestazione.
Secondo i Giudici il rispetto del citato principio di non discriminazione esclude che la suddetta comparazione possa eseguirsi in base a criteri diversi da quello contemplato dalla norma con esclusivo riferimento all'inquadramento previsto dalle fonti collettive.
Su tali presupposti, la Suprema Corte, ritenendo l’operato della società lesivo dei su esposti principi, ha rigettato il ricorso proposto dalla medesima.


È possibile avere più part time contemporaneamente?

Si possono infatti avere due o più contratti part time con diversi datori di lavoro, purché appunto questi non superino il limite di 40 ore settimanali come stabilito dal D. Lgs. N.66 del 2003. Per fare un esempio, puoi tranquillamente avere un part time che inizia alle 9 e finisce alle 13 e un altro che va dalle 14 alle 18. Questo per quanto riguarda due contratti part time, va da sé che se hai un part time e un co.co.co o svolti lavoro autonomo, tali limiti non sono da considerare.
Come per tutti i lavoratori, è fondamentale che vengano garantiti i diritti di riposo giornaliero e settimanale.

Eccoli nel dettaglio:

il riposo minimo settimanale, pari ad almeno 24 ore consecutive ogni 7 giorni (inteso come media da rispettare nell’arco di 14 giorni);

il riposo giornaliero, pari ad 11 ore consecutive ogni 24 ore (in questo caso non è possibile considerare alcuna media).

Se per esempio, stai facendo due part time contemporaneamente ma non hai avvertito di questo il tuo datore di lavoro, sappi che se non rispetta i riposi, non è colpa sua quindi non sono previste sanzioni nei suoi confronti. Altra cosa importante: per svolgere due part time con due datori di lavoro differente è importante che tu rispetti il patto di non concorrenza quindi che non vada a lavorare per aziende che sono competitor.

Le parti possono pattuire clausole elastiche (che consentono lo spostamento della collocazione dell’orario di lavoro) o flessibili (consentono la variazione in aumento dell’orario di lavoro nel part time verticale o misto).





mercoledì 25 aprile 2018

Consigli per trovare lavoro ed errori da evitare su Linkedin



Trovare un lavoro è difficile e spesso il lavoro migliore non va al candidato più qualificato, ma a quello più bravo a cercarne uno. Per aumentare le possibilità di trovare lavoro bisogna essere disposti ad adattarsi, perché il lavoro perfetto è più difficile da reperire. Bisogna imparare ad accontentarsi, a superare pregiudizi e preconcetti; e non essere eccessivamente selettivi.

Quando vi candidate per una posizione lavorativa, bisogna fare attenzione a compilare e presentare un buon curriculum vitae, utile per farvi conoscere in poche righe ed esporre i principali risultati che avete conseguito.

Il curriculum vitae è uno degli strumenti fondamentali per un candidato che cerca lavoro. Se lo scrive nel modo giusto, può distinguersi dalla massa e lo può usare come lasciapassare per l’ambito primo colloquio. I selezionatori impiegano mediamente 15 secondi per valutare un cv, ma allora come fare colpo in così poco tempo? E, una volta raggiunto l’obiettivo di ottenere un colloquio, come prepararsi al meglio per essere più efficaci?

Analizziamo le mosse giuste e qualche consiglio per conquistare il selezionatore.

Rispondere  all'offerta giusta. Accertarsi che il proprio profilo sia effettivamente in linea con ciò che viene richiesto dall’offerta di lavoro per la quale ci si vuoi candidare. E chiedersi se quell’offerta risponde davvero alle aspettative, ovvero non rispondere a ogni annuncio di lavoro che sembra vagamente interessante o abbastanza in linea con le tue competenze: non è efficace e genera solo frustrazione. Seleziona accuratamente e concentrati su quelli per cui potresti essere il candidato ideale, senza disperdere energie.

Bisogna personalizzare il curriculum vitae sulla base dell’offerta per cui ci si sta candidando. Non si deve ingannare, ma valorizzare tutte le competenze affini al profilo cercato, usando proprio le stesse parole chiave dell’offerta, per facilitare la ricerca del selezionatore. Ricordarsi sempre di mettere in luce le competenze trasversali come capacità organizzative, relazionali, impegno e motivazione, capacità di lavorare in team, professionalità e serietà. Inserirei anche qualche informazione personale: hobby, passioni o esperienze di volontariato.

Non sottovalutare l’importanza del colloquio telefonico. E' il primo contatto con l’azienda e, se non vuoi rischiare di fare brutta impressione, è meglio rispondere con calma e con concentrazione.

L’abbigliamento che verrà indossato durante il colloquio è fondamentale per una prima impressione.

E’ importante raccogliere un po’ di informazioni sull’azienda che si andrà a fare il colloquio, prepararsi sul business, e cercare su internet cosa si dice di loro.

Durante un colloquio di lavoro bisogna fare attenzione al tono della voce e a come ci si muove. Stare seduti in modo composto, guardare negli occhi la persona che si ha davanti, non parlare troppo veloce o a voce troppo alta, fare delle pause e accertati di avere l’attenzione del interlocutore. Il contatto visivo è importante per calibrare la conversazione, osservare i segnali che manda e regolarsi di conseguenza.

Non bisogna dimenticare mai che la prima qualità che cerca un selezionatore è l’onestà, ed è importante valorizzare i pregi e quello che si sa fare, senza mai mentire. Lo scopo del colloquio è dimostrare di persona di essere adatti alla posizione per cui ci si è candidati. Non si tratta di andare in conflitto contro il selezionatore, quindi bisogna cercare di essere spontaneo e credere nelle proprie capacità. Del resto, l'invito al colloquio significa che le qualifiche descritte nella candidatura sono state ritenute adeguate. E’ importante studiare per bene curriculum e lettera di presentazione e prepararsi a dare maggiori dettagli. Dimostrarsi positivo, anche e soprattutto parlando delle esperienze pregresse e fare domande sull’azienda, sulla posizione per cui si sta candidando e su un eventuale percorso di crescita. Non parlar male dei tuoi precedenti datori di lavoro e dei tuoi colleghi, bisogna essere pronti a domande scomode.

Facciamo una panoramica sugli errori da evitare su Linkedin

Sbaglia chi pensa che Linkedin serva solo a chi cerca lavoro. Il social network professionale può essere utile anche a chi ha già un’occupazione. A patto di non commettere alcuni errori banali. Ogni social ha le sue regole ma spesso si rischia di confonderle, con il risultato di farsi una cattiva pubblicità. Ecco alcuni errori da evitare su Linkedin.

Il più classico degli errori è quello di riversare su Linkedin gli stessi contenuti che si postano su Facebook. I due social hanno caratteristiche e scopi molto diversi: per questo motivo non bisognerebbe pubblicare nel proprio profilo foto delle vacanze, pensieri in libertà o altro materiale relativo a questioni personali.

Tra gli errori tipici che si commettono c’è quello di non segnalare tutte le posizioni lavorative: se però si lascia un buco temporale c’è il rischio che chi sta guardando il nostro profilo si chieda il perché. Per questo sarebbe consigliabile elencare tutti i lavori svolti.

Su Linkedin è fondamentale aggiornare costantemente il proprio profilo: anche chi usa la versione gratuita può comunque intervenire in diversi modi, aggiornando il proprio status, cercando nuovi contatti, trasformando i propri biglietti da visita in collegamenti, o frequentando gruppi per curare a dovere il proprio profilo bastano pochi minuti al giorno.

È un errore pensare che Linkedin serva solo a chi cerca un nuovo lavoro. Al contrario, può rivelarsi uno strumento utile anche a chi ha già un impiego e vuole allargare la propria rete, oppure a chi cerca collaboratori. In più, gli strumenti pay di Linkedin permettono anche ai venditori di cercare nuovi clienti sfruttando molti criteri di profilazione.

Linkedin permette di “bloccare” alcuni utenti in modo che loro non possano sbirciare nel vostro profilo. Per farlo basta aprire il menù a tendina in corrispondenza della voce “Invia un messaggio” e selezionare “Blocca o segnala”. In questo modo la persona bloccata non scoprirà di essere stata respinta e non troverà alcuna traccia del vostro profilo sul social network.

Le password devono essere difficili e vanno cambiate spesso. Su Linkedin la password non basta più: è possibile infatti attivare il secondo step di verifica (2 step verification) attraverso le impostazioni dell’account. In questo modo si riceverà un codice via sms quando si proverà ad accedere attraverso un nuovo dispositivo.

A volte basta un accento sbagliato per essere scartati. Per questo su Linkedin la grammatica ha un’importanza fondamentale. Per evitare refusi gli esperti consigliano sempre di scrivere i testi in Word e di incollarli nel social network solo dopo aver fatto un controllo con il correttore ortografico.

Su Linkedin è possibile creare profili in più lingue, fino a un massimo di 41 idiomi. Grazie a questa funzione potrete “sdoppiare” il vostro profilo: basterà fare clic sul menù “Visualizza profilo” e scegliere “Crea il tuo profilo in un’altra lingua”. In questo modo si eviterà l’errore di avere un profilo con interfaccia in italiano ma testi in inglese (o in un’altra lingua).

Su Linkedin è sempre attivo il fact checking: gli utenti con il quali siete collegati possono smascherare eventuali bufale inserite per abbellire il vostro curriculum. Ecco perché, quindi, è fondamentale non barare nella descrizione dei ruoli ricoperti, delle esperienze e delle skill.




mercoledì 4 aprile 2018

Naspi e lavoro, quando è compatibile



L’INPS con Messaggio n. 1162 del 16 marzo 2018 ha fornito chiarimenti sull’indennità di disoccupazione NASPI e sulla compatibilità in caso di titolarità di rapporto di lavoro intermittente o nelle ipotesi di rioccupazione come OTD in agricoltura.

Vediamo alcuni esempi:
Richiesta di NASpI da parte di un lavoratore che, contestualmente al rapporto di lavoro subordinato involontariamente perso, risulti titolare anche di un rapporto di lavoro subordinato di tipo intermittente con indennità di disponibilità o senza indennità di disponibilità. Nell’ipotesi in cui il lavoratore – titolare di un rapporto di lavoro subordinato e di un contratto di lavoro intermittente con obbligo di risposta e, quindi, con indennità di disponibilità – faccia richiesta di NASpI a seguito della cessazione del contratto di lavoro subordinato di tipo non intermittente, la domanda può essere accolta a condizione che il lavoratore stesso comunichi all’INPS, entro trenta giorni dalla domanda di prestazione, il reddito annuo presunto derivante dal suddetto contratto di lavoro intermittente, comprensivo della indennità di disponibilità. In tale ipotesi trova applicazione esclusivamente l’istituto del cumulo della prestazione con il suddetto reddito complessivo, che non deve essere superiore al limite annuo di € 8.000.

Il lavoratore che, dopo aver richiesto la NASpI al termine di un contratto stagionale, viene riassunto dallo stesso datore di lavoro con contratto di lavoro intermittente – con reddito annuale inferiore a quello minimo escluso da imposizione – per le sole giornate in cui risulti necessario ricorrere a ulteriore manodopera. In detta ipotesi non trova applicazione l’istituto del cumulo della prestazione NASpI con il reddito derivante da lavoro intermittente in quanto la condizione richiesta è che il nuovo datore di lavoro sia diverso dal datore di lavoro per il quale il lavoratore prestava la sua attività quando è cessato il rapporto di lavoro che ha determinato il diritto alla NASpI.

Qualora, pertanto, il contratto di lavoro intermittente sia di durata pari o inferiore a sei mesi si applica l’istituto della sospensione della prestazione. In particolare, laddove il rapporto di lavoro intermittente sia con obbligo di risposta alla chiamata, e quindi con indennità di disponibilità, la prestazione sarà sospesa per il periodo di durata del rapporto. Qualora invece il rapporto di lavoro intermittente sia senza obbligo di risposta alla chiamata, e quindi senza indennità di disponibilità, la prestazione sarà sospesa per le giornate di effettiva prestazione lavorativa.

Percettore di NASpI che si rioccupi a tempo determinato come OTD in agricoltura. Laddove la durata del nuovo rapporto di lavoro subordinato come OTD non superi i sei mesi, l’indennità è sospesa d’ufficio, a prescindere dal reddito che l’interessato ricava dall’attività svolta. Ai fini della determinazione del periodo di sospensione, in linea con quanto previsto per istituti analoghi dalla prassi consolidatae avuto riguardo alla previsione contenuta all’ultimo periodo del comma 1 del citato articolo 9 del D.Lgs. n. 22 del 2015, vanno considerate le sole giornate di effettivo lavoro in agricoltura.

Esiste la possibilità di sommare il sussidio NASpI con un rapporto di lavoro intermittente a determinate condizioni, mentre in altri casi la sussistenza di un nuovo rapporto di lavoro determina la sospensione del trattamento di disoccupazione. Vediamo come funziona la compatibilità del sussidio di disoccupazione con altre forme di reddito, caso per caso, con l’aiuto del nuovo messaggio INPS 1162/2018.

Iniziamo con il caso del lavoro intermittente. Se il rapporto di lavoro interviene successivamente alla NASpI, i termini di compatibilità sono quelli previsti dall’articolo 9 del D.Lgs 22/2015, in base a cui la discriminante è il reddito. La compatibilità fra NASpI e altri redditi deve restare all’interno dei limiti previsti per il mantenimento dello stato di disoccupazione.

Il lavoratore potrebbe essere però già titolare di un rapporto di lavoro intermittente nel momento in cui perde il lavoro da dipendente a tempo indeterminato che da diritto alla NASpI. In questo caso, il lavoratore deve comunicare all’INPS, entro 30 giorni dalla domanda di NASpI, il reddito annuo presunto derivante dal contratto di lavoro intermittente, comprensivo della indennità di disponibilità. Se il cumulo dei due redditi è sotto gli 8mila euro, la prestazione NASpI verrà corrisposta nella misura piena. Altrimenti, verrà sospesa.

Nel caso in cui il lavoratore continui a lavorare a chiamata, si applica la sospensione della NASpI in relazione ai giorni di effettivo lavoro. Non è possibile, invece, cumulare la NASpI con un contratto di lavoro intermittente stipulato con lo stesso datore di lavoro che stipula il nuovo accordo al termine di un contratto stagionale. Il nuovo datore di lavoro deve essere diverso da quello per il quale il lavoratore prestava la sua attività quando è cessato il rapporto che ha determinato il diritto alla NASpI.

In generale resta valida la regola in base alla quale la sospensione della NASpI, nel caso di rioccupazione, si può chiedere solo per contratti inferiori a sei mesi: sopra questa soglia temporale, e anche in caso di proroga e rinnovo, la prestazione decade. Ci sono, infine, regole particolari per i percettori di Naspi che trovino un nuovo lavoro come ODT, operaio a tempo determinato, in agricoltura. Se il contratto non raggiunge i sei mesi, la NASpI è sospesa per le giornate di lavoro effettivo. Se il contratto è sopra i sei mesi, e il reddito è superiore al minimo escluso da imposizione, la NASpI si interrompe definitivamente. Se invece il reddito è inferiore, viene percepita in forma ridotta.

Il lavoratore una volta appurato che la somma dell'indennità naspi e dello stipendio del nuovo lavoro da dipendente, è inferiore al suddetto limite reddituale, deve procedere a comunicare all'INPS, entro un mese dall'inizio dell'attività, il reddito annuo previsto. Inoltre, occorre che il datore di lavoro o l'utilizzatore in caso di contratto di somministrazione, siano diversi da quelli che hanno determinato il diritto alla Naspi a seguito del licenziamento del lavoratore.

Come cambia l'importo della NASpI? A seguito dell'instaurazione di un nuovo rapporto di lavoro subordinato compatibile con la disoccupazione, la misura dell'indennità viene ridotta, per tutto il periodo intercorrente tra la data di inizio della nuova attività e la fine della Naspi. Nello specifico, in tale periodo l'importo dell'indennità viene ridotto dell'80% e calcolata d'ufficio in sede di presentazione della dichiarazione dei redditi.

Quando l'indennità di disoccupazione decade o viene sospesa? Quando il lavoratore non provvede a comunicare all'Inps il reddito annuo previsto, se poi il rapporto di lavoro subordinato ha una durata pari o inferiore a 6 mesi l'Istituto applica la sospensione dell'indennità mentre se la durata è superiore o trattasi di un contratto a tempo indeterminato, vi è la decadenza del beneficio.

La Naspi decade inoltre anche nel caso in cui venga superato il limite reddituale di 8.145 euro, fatta eccezione però in cui la durata del contratto è inferiore a 6 mesi, in tale ipotesi l'INPS applica sulla base delle comunicazioni obbligatorie, la sospensione dell'indennità per tutta la durata del contratto. Una volta concluso, l'erogazione della prestazione riprende per i mesi ancora spettanti.
E' importante ricordare, inoltre, che i contributi versati durante il periodo di sospensione sono utili per determinare la durata della NASPI in caso di una nuova richiesta di disoccupazione.

Comunicazione dei redditi presunti: nell'ipotesi in cui la durata della NASPI superi l'anno solare ed il lavoratore svolga nel frattempo un lavoro autonomo, un'attività parasubordinata, occasionale, oltre che presentare l'autodichiarazione dovrà anche fare la nuova comunicazione del reddito presunto utilizzando il modello NASpI Com, entro il 31 gennaio di ogni nuovo anno in cui si percepisce la prestazione successivamente al primo anno. Tale comunicazione, che serve all'INPS per calcolare la riduzione dell’80% dell'importo perché il lavoratore durante la naspi svolge un lavoro autonomo, se non viene presentata determina la sospensione dell'indennità fino a quando l'INPS non acquisisce il modello.

Cosa succede se il lavoratore in NASpI svolge più attività? In questo caso, l'Inps deve verificare che la somma dei redditi percepiti per ciascuna attività autonoma, parasubordinata o occasionale, non superi il limite massimo consentito dalla normativa vigente per il mantenimento dello stato di disoccupazione.


martedì 20 marzo 2018

Regole sul lavoro: le differenze tra pubblico e privato



Per i lavoratori pubblici, la tutela contro i licenziamenti illegittimi non discende più dall’articolo 18, ma da una norma speciale, allargando la distanza con il lavoro privato.

Le differenze ovviamente fra dipendente pubblico o privato ci sono e sono molte, a partire non soltanto dallo stipendio ma anche dalle regole su assunzione e licenziamento.

Se secondo la maggior parte delle persone lavorare come dipendente pubblico permette di guadagnare di più rispetto a quanto previsto per i colleghi del settore privato, è bene fare alcune precisazioni perché non sempre è così.

Quali sono quindi le differenze tra un lavoratore statale dipendente del settore pubblico e cosa cambia invece per chi è assunto nel privato? Cerchiamo di seguito di dare una panoramica complessiva delle due opzioni.

Una delle prime differenze tra statali e lavoratori del settore privato riguarda le modalità di assunzione.

Per diventare dipendente pubblico, secondo quanto previsto dal comma 3 dell’art. 97 della Costituzione, è necessario superare un concorso, aperto a tutti i cittadini italiani che rispettano i requisiti per lavorare nella Pubblica Amministrazione.

I bandi di concorso per diventare dipendente statale vengono periodicamente pubblicati in Gazzetta Ufficiale e, salvo specifici casi in cui sono previste deroghe alla normativa, l’assunzione come dipendente pubblico avviene sulla base della graduatoria di merito relativa all’esito del concorso.

Al contrario, come noto a chi si è imbattuto in qualsiasi offerta di lavoro, per lavorare come dipendente privato è necessario inviare la propria candidatura e il proprio curriculum vitae debitamente compilato presso l’azienda che offre opportunità di lavoro. Sarà il datore di lavoro o il selezionatore responsabile delle risorse umane a scegliere quale dipendente assumere sulla base di valutazioni inerenti ai bisogni dell’azienda.

Una delle differenze maggiori tra il lavoro nella Pubblica Amministrazione e come dipendente di azienda privata riguarda lo stipendio.

I dipendenti statali guadagnano in media 2.000 euro all’anno in più di un dipendente privato, questo secondo il confronto tra gli stipendi di dipendenti pubblici e privati. Se lo stipendio di un dipendente pubblico è pari a 34.289 euro, un dipendente del settore privato può vantare una retribuzione pari a 32.315 euro, una differenza che certamente non è eccessiva.

Ovviamente non tutti i dipendenti statali se la passano meglio dei dipendenti del settore privato e anche nel settore pubblico bisogna fare le opportune differenze. In Italia tra i dipendenti pubblici meno pagati c’è sicuramente il personale della scuola e della sanità, con redditi annui di gran lunga inferiori rispetto a quanto guadagnato dai colleghi europei e pari a poco più di 28.000 euro all’anno.

Situazione simile per vigili del fuoco, polizia e forze armate, mentre sul fronte opposto, gli stipendi più alti sono quelli delle agenzie fiscali, con retribuzioni che per i ruoli di maggior prestigio arrivano fino a 200 mila euro annui, seguiti dai colleghi di Inps, Inail e Ministeri.

Per i dipendenti privati l’ammontare dello stipendio è determinato dal CCNL della propria categoria, messo a punto con l’accordo delle sigle sindacali rappresentati del settore e quindi il guadagno annuo può variare notevolmente sia in base al settore di lavoro che al proprio inquadramento contrattuale.

Non sempre lo stipendio di chi lavora nel settore privato è inferiore a quello di un dipendente pubblico - fatta accezione dei dirigenti della PA - e anzi è proprio nel settore privato che c’è maggiore opportunità di crescita professionale e avanzamento di carriera e, perché no, di ambire a stipendi maggiori rispetto alla media.

Uno dei temi di maggior critica riguarda le regole sui licenziamenti  manuale per i dipendenti pubblici e privati, a seguito delle due diverse discipline introdotte dall’avvento della riforma del lavoro e dall’abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Le regole attualmente in vigore introdotte con la riforma Fornero del 2012 hanno modificato quanto previsto in materia di licenziamenti individuali: in caso di licenziamento illegittimo il lavoratore avrà diritto al risarcimento proporzionale e non più alla reintegra sul posto di lavoro.
Questo tuttavia soltanto per i dipendenti privati: nei confronti degli statali in caso di licenziamento illegittimo vige ancora quanto previsto dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori: come confermato dai giudici della Corte di Cassazione.

Vediamo se è preferibile lavorare nel pubblico o nel privato? Ovviamente non esiste una risposta certa. Spesso per chi lavora nel settore pubblico il rischio è di perdere la motivazione del proprio lavoro. Fare carriera non è semplice e il rischio è di trovarsi incastrati nelle maglie della burocrazia. Mentre il vantaggio per chi lavora nel pubblico è la certezza del posto fisso che, nonostante tutto, sembra essere ancora oggi una delle priorità degli italiani.

Il problema della reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento nullo o annullabile per i dipendenti pubblici torna ad allargare di molto la distanza tra lavoro pubblico e privato, infatti sull’applicabilità o meno dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori al lavoro pubblico, mediante l’introduzione di una norma specifica nel testo unico del pubblico impiego, il legislatore ha risolto tutti i dubbi, prevedendo una norma applicabile esclusivamente ai dipendenti pubblici, secondo la quale “Il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna l’amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, e comunque in misura non superiore alle ventiquattro mensilità, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali”.

La filosofia di fondo, nel pubblico impiego, è rimasta quella della conservazione del posto, vinto dopo una selezione oggettiva. In quest’ottica, ulteriori esempi sono gli istituti della mobilità del personale e della gestione delle eccedenze: diversamente dal privato, qui non si arriva quasi mai alle espulsioni. Si viene ricollocati presso altri uffici. Anche i trasferimenti forzati hanno una serie di garanzie per l’interessato, come gli ambiti territoriali limitati.

Differenti normative esistono, inoltre, per l’utilizzo dei rapporti precari, e autonomi. Il Jobs act ha ridisegnato diverse fattispecie nel duplice tentativo di salvaguardare le esigenze di flessibilità buona delle aziende, e di rilanciare i rapporti stabili (apprendistato incluso). Nel settore pubblico, invece, queste discipline restano ancorate alla temporaneità o eccezionalità del ricorso. Non solo: nella Pa anche i contratti di lavoro autonomo e le collaborazioni ricevono, oggi, una disciplina speciale rispetto al privato.



domenica 7 gennaio 2018

INPS: cassetto previdenziale per il lavoro domestico



Il Cassetto nasce dall’esigenza di facilitare i soggetti contribuenti nella consultazione dei dati contenuti negli archivi dell’INPS, fornendo una situazione riassuntiva delle informazioni inerenti la propria posizione previdenziale.

Una volta entrati nella servizio dedicato al lavoro domestico le nuove funzioni sono disponibili sotto la voce “Cassetto previdenziale lavoro domestico”. 

Il nuovo servizio è rivolto ai datori di lavoro domestico che possono consultare i dati relativi ai contratti in essere o passati, ai pagamenti versati o da versare, effettuando eventuali versamenti dovuti attraverso il portale dei pagamenti. Si tratta del Cassetto Previdenziale LD, che consente di visualizzare le informazioni presenti nell’archivio dell’INPS, proposti in modo organico e semplice da consultare, sia al datore di lavoro sia all’intermediario.

Il servizio è ottimizzato sia per la consultazione da pc sia per i dispositivi mobile, smartphone e tablet. A seconda della profilazione dell’utente, sono rese disponibili solo le funzionalità ad esso accessibili. Il percorso di accesso è il seguente:

Home page sito INPS > prestazioni e servizi > naviga per utente > Aziende, enti e datori di lavoro > Datori di lavoro domestico > PIN e codice fiscale > Cassetto previdenziale LD.

Una volta entrati nella sezione dedicata al lavoro domestico le nuove funzioni sono disponibili sotto la voce “Cassetto previdenziale LD”.

Attraverso questo nuovo applicativo, gli utenti possono utilizzare le varie attività di consultazione previste per:

visualizzare la posizione anagrafica del datore di lavoro, compresi i dati del soggetto delegato;

visualizzare la lista dei rapporti di lavoro domestico instaurati dal datore di lavoro e i dati di dettaglio;

visualizzare, per ogni rapporto di lavoro, il riepilogo di tutti i pagamenti effettuati negli ultimi cinque anni e dei pagamenti ancora da effettuare, con indicazione della data di scadenza.

Nei primi mesi del 2018 il Cassetto Previdenziale del Lavoro Domestico verrà implementato con la funzionalità della “Comunicazione Bidirezionale” e sarà resa disponibile la procedura che consente di prendere un appuntamento con un esperto di Sede e poter risolvere eventuali anomalie nella posizione previdenziale.

Nella fase di transizione al nuovo strumento quale unico canale di accesso, continuano a rimanere attive tutte le funzionalità a favore dei datori di lavoro domestico già presenti sul sito internet dell’Istituto.

Una volta effettuato l’accesso, il datore di lavoro avrà la possibilità di:

consultare i dati anagrafici del datore che sono registrati negli archivi centrali dell’INPS,

consultare i dati anagrafici dell’intermediario delegato dal datore. Se il datore di lavoro ha conferito delega ad un consulente/commercialista o associazione datoriale il Cassetto Previdenziale per il Lavoro Domestico ne esporrà la relativa anagrafica;

cercare e consultare il dettaglio dei rapporti di lavoro in stato Attivo,  Cessato, In verifica presso la sede, Respinto, Annullato presenti negli archivi dell’Istituto relativi agli ultimi cinque anni;
consultare i pagamenti versati o da versare dal datore negli ultimi cinque anni contributivi. Saranno consultabili i pagamenti in stato: incassato, incassato in lavorazione, da effettuare, da Recupero Crediti o di cui è stata richiesta sospensione;

accedere direttamente alla home page del sito per la gestione dei pagamenti (portale dei pagamenti);

accedere direttamente alla home page del sito per la gestione del lavoro domestico;

consultare le comunicazioni inviate o da inviare all’INPS (Funzionalità per ora non attiva);

gestire la comunicazione e gli appuntamenti verso la sede INPS(Funzionalità per ora non attiva).




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