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venerdì 17 novembre 2023

Come calcolare lo stipendio part time: guida al calcolo




Come calcolare lo stipendio di un contratto part time a 20, 24, 30 o 36 ore? La prima cosa che viene da pensare potrebbe essere quella di fare una proporzione rispetto allo stipendio a tempo pieno, a partire dal netto. In realtà è un errore: bisogna impostare una proporzione partendo dal lordo ed inoltre considerare l’eventuale scaglione IRPEF che andrebbe a colpire il reddito.


Vediamo le regole per il passaggio dal lordo al netto senza errori.


Come si calcola lo stipendio netto con un contratto part-time? Le regole sono differenti da quelle del passaggio dal lordo al netto in un contratto full time?


Sono le tipiche domande che si pongono i lavoratori in procinto di passare da un contratto a tempo pieno ad uno a tempo parziale, per capire a quanto corrisponderà di netto in busta paga la RAL (Retribuzione Annua Lorda) proposta dal datore di lavoro:


Effettivamente ci sono alcune variabili da considerare quando si effettua il calcolo dello stipendio netto part-time: non basta fare una proporzione delle ore lavorate in caso di full-time, ma bisogna tenere in considerazione il diverso scaglione IRPEF in cui si andrebbe a ricadere. Vediamo tutto in dettaglio.


Come calcolare lo stipendio netto in part-time?

Come nei contratti a tempo pieno, anche nel part-time il calcolo dello stipendio netto parte andando ad individuare le voci di salario non fisse, che contribuiscono a far variare il reddito netto:


1) aliquota IRPEF in base allo scaglione nel quale si ricade rispetto alla RAL e detrazioni spettanti (tenendo conto che le tasse da versare a fine anno dipendono anche dalla presenza di altri redditi);

2) aliquota contributiva a carico del lavoratore applicata dall’Ente previdenziale di appartenenza;

3) addizionali regionali, provinciali e comunali;

4) bonus IRPEF in busta paga, per i dipendenti;

5) spese in deduzione per autonomi e professionisti (Partite IVA).


Qual è la formula per il calcolo del netto in busta paga?

In caso di contratto di lavoro dipendente part-time, la formula per il calcolo dal lordo al netto mensile rimane la seguente: Retribuzione netta = (Reddito imponibile – Imposta netta)/numero di mensilità + eventuale Bonus IRPEF Laddove:

Reddito imponibile = retribuzione lorda (RAL) – contributi INPS versati dal lavoratore (in media il 9%), al netto del taglio del cuneo fiscale per alcuni redditi, applicati nel 2023 in base alle previsioni della Manovra;


Imposta lorda = IRPEF + addizionali;

Detrazioni = da lavoro dipendente + eventuali carichi di famiglia;

Imposta netta = imposta lorda – detrazioni.


Esempi di calcolo stipendio part-time?

Per calcolare lo stipendi netto con un contratto part-time, possiamo fare il seguente esempio: con RAL di 10.000 euro e contratto di 20 ore a settimana su 14 mensilità, il calcolo dello stipendio netto sarà il seguente:


Reddito imponibile = 10.000 – 900 = 9.100;

IRPEF lorda = 9.100*23% =  2.093;

Imposta lorda = 2.093 + 123 + 80 = 2.296


Stipendio netto mensile part-time = (10.000 –  2.296- 1789.8) /14 +100 = 650 euro circa


Questo ipotizzando le addizionali generiche pari all’1,23% quella regionale e 0,8% quella comunale, senza considerare eventuali carichi di famiglia (diversi da quelli oggi ricadenti nell’Assegno Unico) la cui presenza, grazie alle detrazioni fiscali previste, aiuta a far salire il netto in busta paga.




giovedì 9 aprile 2020

Firma sulla busta paga: non vale come ricevuta



Sentenza Cassazione Lavoro n. 21699 -2018: non esiste una presunzione assoluta di corrispondenza della retribuzione percepita dal lavoratore rispetto a quella risultante dai prospetti di paga. Le buste paga sottoscritte dal lavoratore con la formula "per ricevuta" costituiscono prova solo della avvenuta consegna dello specifico documento e non anche dell'effettivo pagamento, che deve essere provato diversamente dal datore di lavoro. Questo il principio riaffermato dalla Cassazione nella sentenza n. 21699 -2018, con numerosi precedenti conformi.

Il caso in particolare riguardava un lavoratore che vantava verso l'azienda differenze retributive e per t.f.r. per complessivi 26.831,41 euro. All'esito della prova testimoniale, il giudice del lavoro rigettava la domanda del lavoratore mentre la Corte d'Appello accoglieva il suo ricorso.

I giudici della Cassazione hanno rigettato il ricorso dell’azienda, basandosi sull’orientamento giurisprudenziale maggioritario secondo cui l’obbligo, previsto a carico del datore di lavoro dall'art. 1 della legge 5 gennaio 1953 n. 4, di consegnare ai lavoratori dipendenti all'atto della corresponsione della retribuzione un prospetto contenente l'indicazione di tutti gli elementi costitutivi della retribuzione, non fornisce la prova dell'avvenuto pagamento: infatti non sono sufficienti le annotazioni contenute nel prospetto stesso, e se il lavoratore contesta che il pagamento sia avvenuto  spetta al datore di lavoro la prova rigorosa dei pagamenti in effetti eseguiti.

Di conseguenza, non esiste una presunzione assoluta di corrispondenza della retribuzione percepita dal lavoratore rispetto a quella risultante dai prospetti di paga ed è sempre possibile l'accertamento della insussistenza del carattere di quietanza anche delle sottoscrizioni eventualmente apposte dal lavoratore sulle busta paga.

Il principio è stato recentemente esplicitamente ribadito anche nella norma che vieta l'erogazione in contanti della retribuzione, contenuta nella legge di bilancio 2018 L.208-2017. Ovvero le regole sono cambiate dal 1° luglio 2018, da quando cioè lo stipendio deve essere pagato necessariamente tramite accredito sul conto corrente ossia il bonifico bancario. Un obbligo che viene escluso solo in casi eccezionali come ad esempio nel lavoro domestico (colf, badante, domestica). Leggi a riguardo Posso pagare lo stipendio in contanti? La legge ha così cambiato le regole sul valore della firma sulla busta paga che, ad oggi, non ha più rilievo. Difatti solo l’estratto conto o la documentazione bancaria può dimostrare l’avvenuto pagamento dello stipendio e non anche la sottoscrizione del cedolino.

La busta paga che viene fatta firmare dal datore di lavoro ai propri dipendenti per ricevuta, non ha alcun valore. Tale pratica non prova che il datore di lavoro abbia effettivamente pagato il lavoratore e assolto al suo obbligo. Spesso la busta paga viene fatta firmare ai dipendenti ancor prima di ricevere materialmente il relativo pagamento. E se il datore di lavoro effettivamente non procede al versamento delle somme? In detti casi, il lavoratore può stare tranquillo. La firma sulla busta paga per ricevuta messa in calce al documento non ha quindi nessuna valenza.

Firma sulla busta paga per ricevuta: la vicenda
Il caso riguarda un dipendente che vantava differenze retributive e il mancato pagamento del trattamento di fine rapporto (TFR) per un importo complessivo di 26.831,41 euro. Il dipendente agisce per vie legali, ma la il giudice del lavoro con sentenza di primo grado rigetta la domanda del ricorrente, con la condanna dell’attore al pagamento delle relative spese.

Busta paga quietanza valore probatorio: la sentenza
I giudici della Corte Suprema respingono il ricorso della società. Per questi ultimi, la sottoscrizione è prova solo dell’avvenuta consegna della busta paga e non del pagamento della cifra ivi contenuta.

Sul tema, precedenti interventi della Cassazione ha stabilito come “soltanto la sottoscrizione apposta dal dipendente sui documenti fiscali relativi alla sua posizione di lavoratore subordinato (CUD e mod. 101) costituisce quietanza degli importi ivi indicati come corrisposti da parte del datore di lavoro, ed ha il significato di accettazione del contenuto delle dichiarazioni fiscali e di conferma dell’esattezza dei dati ivi riportati” (Cass. lav. n. 245 – 11/01/2006).

Quindi, la scusa del datore di lavoro di far valere la firma del dipendente sul cedolino come prova del fatto di aver versato l’importo indicato sullo stesso, non può essere fatto valere. Al riguardo, l’art. 1, co. 913 ha previsto anche un regime sanzionatorio; in tale articolo è espressamente specificato che il datore di lavoro o committente che viola l’obbligo di retribuire il dipendente in maniera telematica, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria consistente nel pagamento di una somma da 1.000 euro a 5.000 euro. L’importo della sanzione varierà in base alla gravità e la durata della violazione.

In definitiva, inserire la dicitura “per accettazione” serve soltanto al datore di lavoro a indicare a che titolo il dipendente sta firmando un documento. Il dipendente, per assurdo, potrebbe anche rivendicare lo stipendio affermando di non averlo ricevuto. In questo modo, invece, si attesa che almeno il dipendente ne abbia preso visione.

Nel caso della dicitura “per ricevuta” invece, l’apposizione del nome e cognome del dipendente dimostra solo che questi ha avuto una copia della busta paga; non ha alcun valore invece in merito al ricevimento dello stipendio che il datore evidentemente dovrà dimostrare in altro modo.

Infine, la dicitura “per quietanza” sta a significare che è avvenuto il ricevimento di una prestazione e, quindi, anche del denaro. Ma questo ora non è più sufficiente. Inserire semplicemente la predetta dicitura per conservare la prova di aver adempiuto al proprio obbligo retributivo non è più valido.

Con ordinanza n. 21699/2018, la Corte di Cassazione ha affermato che la firma per ricevuta del lavoratore sulla busta paga, non dimostra l’effettivo pagamento della somma indicata sul documento. I giudici della Suprema Corte hanno evidenziato come la sottoscrizione è prova solo dell’avvenuta consegna della busta paga e non del pagamento della cifra ivi contenuta. Precedenti decisioni della Cassazione hanno evidenziato come “soltanto la sottoscrizione apposta dal dipendente sui documenti fiscali relativi alla sua posizione di lavoratore subordinato (CUD e mod. 101) costituisce quietanza degli importi ivi indicati come corrisposti da parte del datore di lavoro, ed ha il significato di accettazione del contenuto delle dichiarazioni fiscali e di conferma dell’esattezza dei dati ivi riportati” (Cass. lav. n. 245 – 11/01/2006).

Il dipendente potrebbe anche lamentare il fatto di aver ricevuto uno stipendio più basso di quello indicato in busta paga. Questa purtroppo è una prassi di alcune aziende che neanche le regole sul pagamento con bonifico sono riuscite ad arginare completamente. Difatti esiste l’abitudine di erogare, al lavoratore, l’intera busta paga sul conto corrente obbligandolo poi a restituire in contanti la differenza; in tal modo il lavoratore ottiene uno stipendio più basso di quello documentato. In tali ipotesi purtroppo spetta al lavoratore dimostrare l’illecito del datore di lavoro (magari anche con registrazioni o testimoni). Tuttavia, c’è anche da dire che se questi si rifiuta di restituire la differenza non potrà certo essere licenziato.



domenica 11 novembre 2018

Stipendio basso, come rinegoziare l'aumento



La busta paga è il documento necessario per tutti i dipendenti, che attesta la retribuzione netta e lorda del lavoratore e serve per verificare lo stipendio percepito e la sua congruità con quanto stabilito nel CCNL. Sulla busta paga si possono inoltre verificare i contributi pensionistici versati dal datore di lavoro a vantaggio del dipendente.

 Cinque mosse per rinegoziare lo stipendio. Michael Page, specializzato nella selezione di professionisti, middle e top manager, consiglia di verificare prima se la propria retribuzione è il linea con la media nazionale.

In primo luogo avere in mente la situazione aziendale. Per poter fare una richiesta in linea con le possibilità dell'azienda è necessario conoscere la situazione finanziaria della società. Inoltre, è bene sapere se il proprio stipendio, o quello desiderato, è in linea con la retribuzione del mercato.

Riflettere sulle esigenze personali. Prima di effettuare una richiesta bisogna capire quale livello salariale minimo potrebbe essere soddisfacente e quale è invece la retribuzione ideale, in modo da iniziare a negoziare sempre dal valore più alto e lasciare spazio alle proposte. Per identificare nel modo più fattuale possibile queste cifre bisogna pensare al costo della vita attuale, alle tendenze del mercato e alla propria istruzione ed esperienza, senza tralasciare i desideri collegati al proprio percorso professionale per il breve, medio e lungo termine.

Non solo stipendio, le altre proposte da valutare. Quando ci si trova a negoziare bisogna sempre ricordarsi che il pacchetto retributivo non si limita solo al salario. L’offerta aziendale può comprendere formazione, orari flessibili, smart working, benefit etc. Inoltre, è molto importante valutare l'esistenza di un percorso di crescita e promozione chiaro e ben delineato.

Il tempismo è importante. L’ideale è che sia sempre il datore di lavoro ad affrontare per primo il tema del salario. Se un intervistatore cerca di cogliere le aspettative retributive durante un colloquio è bene chiedere più dettagli legati alla potenziale posizione prima di esporsi in tal senso, in modo da poterne discutere una volta conclusa la selezione e già ricevuta un’offerta.

Negoziare in modo deciso ma giusto. All’interno di una negoziazione è fondamentale essere preparati e non perdere di vista i punti sostanziali della propria richiesta. Entrambe le parti auspicano alla situazione più vantaggiosa per loro e, per questo motivo, bisogna sempre rispettare l’interlocutore senza però mostrare indecisioni o insicurezze.

"Negoziare lo stipendio - commenta Adriano Giudici, executive manager divisione engineering & manufacturing - è un momento sfidante, che mette in discussione non solo gli aspetti legati alla propria carriera ma anche quelli più vicini alla vita personale. Per questo motivo, consigliamo sempre di prepararsi seriamente in vista del confronto con il proprio datore di lavoro. Bisogna essere pronti a parlare di aspettative specifiche e realistiche basate sulle proprie capacità, esperienze e tendenze del mercato attuale, senza farsi prendere dall'emotività".




martedì 19 giugno 2018

Lo stipendio può essere pignorato?



Se un lavoratore ha dei debiti e non ha intenzione di saldarli, ogni creditore potrà chiedere il pignoramento dello stipendio per soddisfare i propri crediti. La normativa, infatti, consente al creditore di aggredire anche quei beni che pur appartenendo al debitore non sono ancora nelle sue disponibilità, quale appunto lo stipendio, ma anche la pensione o il TFR. Con il pignoramento presso terzi, infatti, il creditore - su disposizione del giudice incaricato - si rivolge direttamente al datore di lavoro del debitore, il quale avrà il dovere di corrispondergli una parte di retribuzione del dipendente ai fini del soddisfacimento del credito.

Non tutto lo stipendio può essere pignorato, però, poiché al lavoratore va comunque garantito un minimo vitale. Nel dettaglio il pignoramento dello stipendio può riguardare solamente 1/5 dell'importo mensile netto. Quindi tutti gli stipendi sono pignorabili, ma l'importo varia a seconda della retribuzione percepita. Ad esempio, per uno stipendio mensile di 2.000 euro netti il pignoramento è consentito nel limite di 400 euro, mentre per uno stipendio di 500 euro si scende a 100 euro.

Discorso differente per il pignoramento dello stipendio già accreditato in banca. In questo caso, infatti, la procedura per il pignoramento è la stessa ma a cambiare sono i limiti. Dal momento che non è possibile calcolare nel dettaglio quali redditi presenti su conto corrente derivano dalla retribuzione percepita, il legislatore ha stabilito che sono pignorabili le somme depositate sul conto pari a tre volte l'assegno sociale. Quindi, considerando che questo ha un importo pari a 453 euro, il pignoramento può riguardare solamente gli importi che eccedono i 1359 euro. Sotto questa soglia, il patrimonio del debitore è al sicuro da qualsiasi aggressione.

Il calcolo del TFR è l'importo che il datore di lavoro corrisponde al lavoratore al termine del rapporto di lavoro e a richiesta dopo un periodo (anticipazione del TFR), di solito 8 anni di servizio nella stessa azienda in determinati casi stabiliti dalla legge come, ad esempio, la necessità di affrontare importanti spese medico-sanitarie. L'anticipazione è limitata al 70% dell'importo liquidato in caso di risoluzione del contratto di lavoro.

La cessione del quinto è una tipologia di prestito rivolta ai lavoratori dipendenti (pubblici, statali, di enti parastatali, di aziende private) e da qualche anno a questa parte ai lavoratori in pensione definita cessione del quinto pensionati, ovvero ai soggetti che possono contare su una busta paga o una pensione su cui può essere addebitata la rata del finanziamento.

Nella miriade di offerte che ci sono nella galassia dei prestiti personali un italiano su quattro si affida alla cessione del quinto dello stipendio. Sono questi i risultati di un'indagine svolta dai portali Facile.it e Prestiti.it, secondo cui a richiedere questa forma di prestito sono soprattutto dipendenti e pensionati.

La cessione del quinto della pensione deve essere un prestito personale a tasso fisso e rata costante, da estinguersi mediante cessione pro solvendo di una quota della pensione fino al quinto della stessa, valutato al netto delle ritenute fiscali e fatto salvo l'importo corrispondente al trattamento minimo, per periodi non superiori a dieci anni.



sabato 17 marzo 2018

Contratti di lavoro si cambia



E' stato firmato il testo definitivo della riforma del modello contrattuale. Dopo anni di tentativi Confindustria, Cgil, Cisl e Uil hanno finalmente chiuso una partita che si protraeva da tempo e che - oltre a definire un modello con cui disciplinare il contratto nazionale (su due livelli di contrattazione e livelli salariali autonomi) - definisce anche nuove regole sulla rappresentanza sindacale e, per la prima volta, anche quella delle imprese.

Una firma, inoltre, che riporta in primo piano il ruolo di regolatore che Confindustria e sindacati giocano nella vita economica del Paese dopo una lunga stagione che ne aveva messo in discussione le competenze ed allontana eventuali interventi di legge con cui scavalcare le parti sociali, come quel salario minimo per legge a cui ha pensato negli ultimi mesi la politica.

Viene individuato un trattamento economico complessivo (Tec), costituito dal trattamento economico minimo (Tem, i minimi tabellari) e da tutte quelle voci (dagli scatti di anzianità, all’Edr, all’elemento perequativo, al welfare sanitario o previdenziale) che il Ccnl considera comuni a tutti i lavoratori del settore. In sostanza le differenti esperienze negoziali delle categorie vengono sistematizzate dal documento conclusivo delle parti sociali. Alla luce di queste esperienze, il menù a disposizione delle parti nella negoziazione si è arricchito. Il contratto nazionale non si limita più a indicare i minimi tabellari ma ricomprende ormai altre voci: tra queste, il welfare entra a pieno titolo nel trattamento economico complessivo. Il contratto nazionale individuerà, dunque, i minimi tabellari per la vigenza contrattuale e la variazione avverrà, secondo le regole dei singoli Ccnl, in base agli scostamenti registrati dall’Ipca, l’indice dei prezzi al consumo armonizzato per i Paesi Ue (depurato dei prezzi dei beni energetici importati), calcolato dall’Istat.

In busta paga, inoltre, entreranno anche eventuali forme di welfare: il trattamento economico complessivo, infatti, sarà costituito dal salario minimo e da tutti i trattamenti economici, dunque compreso il welfare, che il contratto collettivo nazionale di categoria qualifica come "comuni a tutti i lavoratori del settore". Per quanto riguarda la contrattazione aziendale, il secondo livello, invece, l'accordo punta ad incentivarne uno "sviluppo virtuoso", sia quantitativo che qualitativo. E tornando alle norme sulla rappresentanza e all'obiettivo anti dumping che si pongono le parti sociali sembrano non voler escludere un intervento di legge che rafforzi lo scopo anti pirateria. "Le intese in materia di rappresentanza possono costituire, attraverso il loro recepimento, il presupposto per l'eventuale definizione di un quadro normativo in materia", si legge infatti nel documento.

Un modello contrattuale che spinge alla crescita della produttività aziendale e, con essa, dei salari dei lavoratori. Il documento conclusivo di Confindustria e Cgil, Cisl e Uil, confermando gli attuali due livelli contrattuali (nazionale e aziendale o, in alternativa, territoriale) valorizza il ruolo del contratto nazionale e della contrattazione decentrata: il primo come fonte di regolazione dei rapporti di lavoro e garante dei trattamenti economici e normativi comuni ai lavoratori del settore, sull’intero territorio nazionale; la seconda, come luogo in cui si realizza l’incontro virtuoso tra salario e produttività.

Le parti riconoscono un ruolo importante alla contrattazione collettiva che può creare le condizioni per «migliorare il valore reale» delle retribuzioni e, nel contempo, «favorire la crescita del valore aggiunto e dei risultati aziendali», valorizzando le «competenze tecniche e organizzative dei lavoratori» contro il rischio di un appiattimento nelle politiche salariali.

Si tratta, appunto, di un modello che lascia alle categorie la decisione se distribuire gli aumenti ex post (come fanno i meccanici) o ex ante (come i chimici). Sempre in tema di autonomia e responsabilità delle parti, attraverso la contrattazione si potrà valorizzare nei diversi settori la partecipazione organizzativa, per contribuire alla competitività delle imprese e valorizzare il lavoro.




martedì 12 dicembre 2017

Ritardo consegna busta paga: 7mila euro di multa



La busta paga è il documento necessario per tutti i dipendenti, che attesta la retribuzione netta e lorda del lavoratore e serve per verificare lo stipendio percepito e la sua congruità con quanto stabilito nel CCNL.

Cosa può fare il lavoratore, quando il datore non corrisponde la retribuzione e le indennità di legge (malattia, assegni familiari, maternità, etc?).

Occorre premettere che la retribuzione ha una duplice funzione economico-sociale:

da un lato rappresenta il corrispettivo della prestazione lavorativa;

dall’altro costituisce il messo per il mantenimento del lavoratore e della sua famiglia.

L’insolvenza del datore di lavoro costituisce quindi violazione sia di un obbligo contrattuale sia di un obbligo costituzionale (articolo 36 della Costituzione).

Normativa di riferimento in materia di prospetto paga: obblighi del datore di lavoro su modalità e tempi di consegna della busta paga, regime sanzionatorio per ritardi e omissioni.

La retribuzione rappresenta il principale obbligo del datore di lavoro, conferendo alla prestazione il carattere di contratto oneroso di scambio. Allo stesso modo, vige l’obbligo di consegna contestuale al dipendente della busta paga, documento in grado di mettere il lavoratore in condizione di verificare come è stato determinato il proprio compenso, come previsto dalla Legge n. 4/1953.

Tempi di consegna
Per quanto concerne i tempi di consegna della busta paga resta il riferimento alla disciplina di riferimento, ossia la legge n. 4/1953. L’articolo 1 prevede l’obbligo di consegnare il prospetto di paga ai dipendenti (con esclusione dei dirigenti) all’atto della corresponsione della retribuzione.

Anche l’’articolo 3 prevede che il prospetto di paga debba essere consegnato al lavoratore nel momento stesso in cui gli viene consegnata la retribuzione.

Modalità di consegna
Oltre alla consegna cartacea, come chiarito dal Ministero del Lavoro:

“non si ravvisano motivi ostativi all’invio del prospetto di paga con posta elettronica, se si considera la prassi generalizzata dell’accredito diretto dello stipendio in conto corrente bancario e la notevole diffusione delle conoscenze informatiche, purché vi sia la prova legale dell’effettiva consegna del prospetto di paga al lavoratore alla scadenza prevista per il pagamento della retribuzione”.

Indirettamente, quindi, viene confermata la necessità di inviare il prospetto paga negli stessi tempi previsti per il versamento dello stipendio (che di norma scatta a fine mese o nei primi giorni di quello successivo).

Sanzioni busta paga
Per quanto concerne le sanzioni relative ai mancati obblighi legati al prospetto paga, il comma 7 dell’art. 22 del d.lgs. n. 151/2015 ha introdotto una struttura progressiva per fasce di gravità:

da 150 a 900 euro se la violazione interessa da 1 a 5 lavoratori o se si perpetra per un periodo fino a 6 mensilità;

da 600 a 3.600 euro se riguarda più di 5 lavoratori o supera i 6 mesi;

da 1.200 a 7.200 euro se riguarda più di 10 lavoratori o più di 12 mesi.

Viene inoltre disposto che le sanzioni relative alla mancata consegna della busta paga non si applichino nei confronti del datore di lavoro che assolve gli obblighi in materia di prospetto di paga, mediante la consegna al lavoratore di copia delle registrazioni effettuate nel libro unico del lavoro. In tale ipotesi il datore di lavoro rimane però sanzionabile ai sensi dell’articolo 39, comma 7, del d.l. n. 112/2008, convertito dalla legge n. 133/2008.




giovedì 23 novembre 2017

Stipendio in contanti forse un ricordo


Il datore di lavoro non potrà più pagare in contanti dipendenti e collaboratori, lo stipendio deve essere sempre tracciabile tramite bonifico, assegno o sportello bancario o postale.

Divieto di pagare lo stipendio in contanti per qualsiasi tipologia di rapporto (dipendente, collaboratori) e datore di lavoro: se l’impresa vuole versare la retribuzione in moneta sonante dovrà al massimo agire al massimo per il tramite di uno sportello bancario o postale; sono previste alcune esclusioni come il lavoro domestico, ma per tutte le altre formule di lavoro privato dovrà essere garantita la tracciabilità del pagamento.

Lo stipendio potrà essere accreditato unicamente secondo le seguenti modalità:

bonifico sul conto identificato dal codice IBAN indicato dal lavoratore;

pagamento in contanti presso lo sportello bancario o postale indicato dal datore di lavoro;

emissione di assegno consegnato direttamente al lavoratore o, in caso di suo comprovato impedimento, a un suo delegato. L’impedimento s’intende comprovato quando il delegato a ricevere il pagamento è il coniuge, il convivente o un familiare, purché di età non inferiore a sedici anni.

La legge è pensata per evitare comportamenti scorretti, come il pagamento di stipendi inferiori a quelli previsti dai contratti nazionali o da quelli indicati in busta paga. Con il pagamento tracciabile, il datore di lavoro non potrà più versare una somma diversa da quella dichiarata.

In base alla legge (che per ora non è ancora stata approvata definitivamente), il pagamento della retribuzione potrà avvenire esclusivamente tramite bonifico, con assegno, o in contanti ma soltanto attraverso uno sportello bancario o postale. In quest’ultimo caso, il datore di lavoro deve comunicare al centro per l’impiego gli estremi della banca o dell’ufficio postale attraverso il quale vengono effettuati i pagamenti di stipendio, dandone notifica qualora si cambi lo sportello di riferimento.

In tutto questo, la firma della busta paga da parte del lavoratore non costituirà più prova del pagamento ella retribuzione.

La legge è molto chiara nel definire in modo chiaro le modalità di pagamento dello stipendio: "I datori di lavoro o committenti corrispondono la retribuzione ai lavoratori, nonché ogni anticipo di essa, attraverso un istituto bancario o un ufficio postale con uno dei seguenti mezzi

a) accredito diretto sul conto corrente del lavoratore;

b) pagamento in contanti presso lo sportello bancario o postale;

c) emissione di un assegno da parte dell’istituto bancario o dell’ufficio postale consegnato direttamente al lavoratore o, in caso di suo comprovato impedimento, a un suo delegato", si legge nella norma.

Le norme non si applicano ai datori di lavoro non titolari di partita Iva e ai rapporti di lavoro domestico.

Poi vengono definite regole precise per i datori di lavoro: "Non possono corrispondere la retribuzione per mezzo di assegni o di somme contanti di denaro, qualunque sia la tipologia del rapporto di lavoro instaurato". Le sanzioni di fatto ammontano da 5mila a 50 mila euro.. Se invece l’impresa effettua i pagamenti attraverso uno sportello bancario o postale ma non ne comunica gli estremi ai centri per l’impiego, scatta una sanzione di 500 euro.

Una volta approvata in via definita la legge entrerà in vigore dopo 180 giorni dalla pubblicazione in gazzetta ufficiale.

È giusto combattere evasione fiscale e corruzione, ma sorgono dubbi sulle modalità; resta infatti da capire se sia eticamente corretto che lo Stato obblighi per legge i propri cittadini ad avere un conto corrente presso istituti privati, senza prevedere tutele come l’azzeramento delle commissioni bancarie per determinate operazioni ed ancor più la garanzia dei soldi dei correntisti in caso di fallimento della banca.




martedì 7 novembre 2017

Busta paga: cos'è la retribuzione imponibile



La busta paga è il documento necessario per tutti i dipendenti, che attesta la retribuzione netta e lorda del lavoratore e serve per verificare lo stipendio percepito e la sua congruità con quanto stabilito nel CCNL. Sulla busta paga si possono inoltre verificare i contributi pensionistici versati dal datore di lavoro a vantaggio del dipendente.

La retribuzione imponibile è per definizione la base per il calcolo delle trattenute che il datore di lavoro è tenuto ad operare periodicamente sulla busta paga dei lavoratori. Le tipologie principali di imponibile sono quello contributivo o previdenziale e quello fiscale o imponibile IRPEF, ma esistono molti altri imponibili, come per esempio l'imponibile cassa edile, l'imponibile INAIL, ecc.

Imponibile previdenziale

La retribuzione imponibile ai fini contributivi non può essere inferiore alla retribuzione contrattualmente dovuta e comunque ad un valore minimo calcolato annualmente per settore, detto minimale contributivo.

Gli importi dei minimali contributivi vengono calcolati e pubblicati dall'INPS ogni anno sulla base del trattamento minimo di pensione.

In pratica questo significa che se per caso la busta paga di un dipendente che lavora a tempo pieno fosse di € 1.000 (Mille Euro) per un mese intero, i contributi previdenziali (9,19%) devono essere calcolati su € 1.224 ( 47,07 x 26) anziché su € 1.000 perché scatta appunto il minimale. Può capitare che in un dato mese il dipendente sia assente per motivi vari e che i 1000 euro si riferiscano ad indennità o a integrazioni carico datore di lavoro in misura inferiore al 100% della normale retribuzione e non a retribuzione diretta per ore effettivamente lavorate.

Per verificare il rispetto della condizione richiesta occorre quindi riportare a giornata la retribuzione corrisposta nel periodo di paga dividendo il suo ammontare complessivo per le giornate retribuite nel periodo. Se il lavoratore è retribuito in misura fissa mensile ovvero ha ricevuto la retribuzione per tutte le giornate lavorative del mese, il divisore è 26. Non sono soggette ad applicazione del minimale le giornate di assenza per malattia, maternità o infortunio per le quali il datore di lavoro ha corrisposto a proprio carico ai lavoratori solo indennità integrative delle prestazioni previdenziali dovute a carico degli Enti previdenziali (in questo caso infatti il numero giorni minimale del mese in busta paga sarà inferiore a 26).

Il minimale per i lavoratori assunti con contratto a tempo parziale è calcolato in misura unica per tutti i settori; si ottiene moltiplicando l'importo stabilito in misura giornaliera per il numero di giornate di lavoro settimanali (6 giornate anche in caso di settimana corta) e dividendo il risultato per il numero di ore settimanali contrattualmente previste per i lavoratori a tempo pieno.

Per un settore con orario normale di 40 ore il minimale orario sarà quindi pari a € 47,07 X 6 : 40 = € 7,06

Per alcune categorie di lavoratori la retribuzione imponibile è determinata in misura convenzionale; non vengono quindi prese in considerazione le retribuzioni effettivamente corrisposte.

Rientrano in questa casistica le retribuzioni relative:

ai soci delle cooperative di produzione e lavoro;

ai lavoratori italiani o comunque appartenenti a Paesi comunitari, assunti sul territorio nazionale con contratto avente come oggetto esclusivo la prestazione in Paesi extracomunitari non convenzionati o parzialmente convenzionati. Le disposizioni trovano applicazione anche ai lavoratori italiani trasferiti o assunti direttamente nel Paese extracomunitario;

ai lavoratori che prestano attività all'estero per un periodo superiore a 183 giorni nell'arco di 12 mesi;

agli operai agricoli a tempo determinato; per questi lavoratori viene applicato il salario convenzionale determinato con decreto ministeriale, se superiore a quello spettante in applicazione della contrattazione collettiva a livello provinciale.

Imponibile contributivo nel settore edile

Nel settore edile la contribuzione è riferita ad una retribuzione convenzionale commisurata ad un numero di ore settimana non inferiore all'orario di lavoro normale stabilito dalla contrattazione collettiva di categoria e territoriale, con esclusione delle assenze per malattia, infortunio sciopero, cassa integrazione ed altri eventi indennizzati (maternità, congedo matrimoniale, donatori di sangue, ecc.), eventi per i quali il trattamento economico è assolto attraverso accantonamento presso le casse edili (ferie, riposi annui).

Nel caso di rapporto di lavoro iniziato o concluso nella settimana si fa riferimento all'orario di lavoro relativo alle giornate nelle quali il rapporto si è svolto.

Imponibile fiscale

L'imponibile fiscale è la base di calcolo dell'IRPEF, Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche, ottenuta applicando aliquote diverse a scaglioni progressivi di reddito (o imponibile)

Un esempio di calcolo dell'IRPEF in busta paga lo trovate a questo indirizzo:

Il reddito di lavoro dipendente è costituito da tutte le somme e i valori (intendendo con tale espressione la quantificazione dei beni e dei servizi) che il dipendente percepisce nel periodo di riferimento, a qualunque titolo, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro.

Costituiscono reddito da lavoro dipendente, dunque, tutti gli elementi reddituali che siano in qualunque modo riconducibili al rapporto di lavoro, le voci imponibili della retribuzione concorrono alla determinazione della base di calcolo dei contributi previdenziali ed assistenziali, dei premi per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e delle ritenute fiscali.

Sono esclusi dall'imponibile fiscale e contributivo:

le somministrazioni di vitto da parte del datore di lavoro, nonché quelle in mense organizzate direttamente dal datore di lavoro o gestite da terzi;

le prestazioni di servizi di trasporto collettivo alla generalità o a categorie di dipendenti, anche se affidate a terzi, ivi compresi gli esercenti servizi pubblici (ad esempio, la società che gestisce il servizio pubblico urbano o extra-urbano del luogo in cui si trova l'azienda oppure il servizio taxi);

i compensi e le indennità che il lavoratore percepisce da terzi e che per clausola contrattuale devono essere riversati al datore di lavoro o che per legge devono essere riversati allo Stato;

le indennità, i gettoni di presenza e gli altri compensi corrisposti dallo Stato, dalle regioni, dalle province e dai comuni per l'esercizio di pubbliche funzioni, nonché i compensi corrisposti ai membri delle commissioni tributarie, ai giudici di pace e agli esperti del Tribunale di sorveglianza che per legge debbono essere riversati allo Stato;

le somme erogate dal datore di lavoro alla generalità dei dipendenti o a categorie di dipendenti per la frequenza di asili nido, colonie climatiche da parte dei familiari, nonché per borse di studio a favore dei medesimi familiari; il corrispettivo dell'utilizzo delle opere e servizi per le finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto, da parte dei dipendenti;

le indennità percepite per le trasferte o le missioni fuori del territorio comunale, nei limiti indicati;

i rimborsi di spese di trasporto comprovate da documenti provenienti dal vettore per le trasferte nell'ambito comunale;

le indennità e le maggiorazioni di retribuzione spettanti ai lavoratori tenuti per contratto all'espletamento delle attività lavorative in luoghi sempre variabili e diversi, anche se corrisposte con carattere di continuità, nella misura del 50% del loro ammontare;

le indennità di navigazione e di volo previste dalla legge o dal contratto collettivo, nella misura del 50% del loro ammontare;

le indennità di trasferimento, di prima sistemazione e equipollenti, nella misura del 50% del loro ammontare. L'importo escluso da tassazione non può tuttavia superare un valore massimo.

Non costituiscono reddito imponibile le seguenti spese rimborsate:

spese di viaggio, anche per i familiari fiscalmente a carico, e di trasporto delle cose, strettamente collegate al trasferimenti (non vi rientrano i successivi viaggi che il dipendente nel corso dell'anno faccia, esempio, per visitare la famiglia che non si è trasferita con lui);

spese ed oneri sostenuti dal dipendente in qualità di conduttore, per recesso del contratto di locazione in dipendenza dell'avvenuto trasferimento della sede di lavoro;

le spese di viaggio, di trasporto e di recesso dal contratto di locazione sostenute dal dipendente in occasione dell'avvenuto trasferimento della sede di lavoro, rimborsate dal datore di lavoro e analiticamente documentate;

gli assegni di sede e di altre indennità percepite per servizi prestati all'estero, nella misura del 50%;

gli assegni familiari e l'assegno per il nucleo familiare, nonché, con gli stessi limiti e alle medesime condizioni, gli emolumenti per carichi di famiglia comunque denominati, erogati nei casi consentiti dalla legge.

Riguardo i contributi, ossia parte dei soldi che vengono versati ogni mese dal dipendente e dal datore di lavoro per finanziare l'INPS, nei casi di dipendenti privati l’istituto di riferimento è l’INPS, mentre per i dipendenti pubblici è l’INPDAP. La differenza è che i contributi versati dal datore di lavoro non sono visibili sulla busta; al contrario, i contributi versati dal lavoratore sono indicati nell’apposita casella.

I contributi costituiscono il finanziamento delle prestazioni previdenziali e assistenziali, finanziamento che viene attuato mediante l'applicazione di una percentuale sulla retribuzione che il lavoratore percepisce. L’imponibile contributivo sia contributivo che fiscale, è un vero e proprio contenitore di valori che servono esclusivamente allo scopo di poter attuare una corretta tassazione da parte del datore di lavoro.



venerdì 3 novembre 2017

Retribuzione imponibile e minimali: come si determinano i contributi





La busta paga è il documento necessario per tutti i dipendenti, che attesta la retribuzione netta e lorda del lavoratore e serve per verificare lo stipendio percepito e la sua congruità con quanto stabilito nel CCNL. Sulla busta paga si possono inoltre verificare i contributi pensionistici versati dal datore di lavoro a vantaggio del dipendente.

Con effetto dal 1° gennaio 2017, il minimale di retribuzione giornaliera per il tempo pieno, valido per la generalità dei lavoratori, è fissato in € 47,68. La retribuzione minima giornaliera per il calcolo dei contributi non deve essere inferiore al minimo contrattuale e al minimo legale. In particolare, il minimale contrattuale giornaliero è determinato sulla base delle tabelle retributive del contratto collettivo di settore e deve essere applicato anche dai datori di lavoro non aderenti, neppure di fatto, al CCNL. Il minimale legale rappresenta il “minimo dei minimi”, ovvero la soglia al di sotto della quale la retribuzione minima giornaliera non può comunque scendere.

Come calcolare i contributi?

La retribuzione imponibile utile al fine del calcolo della contribuzione previdenziale non può essere inferiore all'importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi o individuali.

L’importo giornaliero della retribuzione imponibile, inoltre è soggetto al vincolo del controllo del minimale previsto dall’art 7 della legge 11 novembre 1983 n. 638, ovvero alla soglia minima pari al 9,5% del trattamento minimo di pensione in vigore al primo di gennaio.

La retribuzione minima giornaliera per il calcolo dei contributi, quindi deve essere non inferiore al maggiore dei due importi minimi, sia quello contrattuale che quello legale, se la retribuzione è superiore ad entrambi, andrà utilizzata quella effettiva.

I contributi entro il minimale sono i contributi previdenziali calcolati sul minimale di retribuzione imponibile: questo è il valore minimo che per legge deve essere rispettato per permettere l’accredito dei contributi, cioè il “reddito minimo” sul quale deve essere applicata l’aliquota contributiva, dunque su cui vanno calcolati i contributi. Normalmente i contributi previdenziali sono calcolati applicando un’aliquota alla retribuzione, o al reddito imponibile: quando, però, la retribuzione o il reddito sono inferiori a un determinato ammontare, detto minimale, i contributi sono calcolati applicando l’aliquota prevista al minimale e non al reddito effettivo.

Un esempio:

Tizio, che ha un negozio ed è iscritto alla Gestione Inps commercianti, guadagna, nell’anno, 5.000 euro;

l’aliquota previdenziale della Gestione commercianti è pari al 23,19% (salvo alcune eccezioni);

i suoi contributi dovrebbero quindi ammontare a 159,50 euro (il 23,19% di 5.000);

la Gestione commercianti, però, prevede un reddito minimale annuo pari a 548 euro: significa che chi ha un reddito inferiore a tale soglia, anche se non ha guadagnato nulla, deve comunque pagare i contributi sul minimale, come se avesse guadagnato, nell’anno, 15.548 euro;

Tizio, quindi, anziché pagare 1.159,59 euro, deve pagare 3.613,02 euro di contributi (3.605,58 contributo Ivs più 7,44 contributo maternità, calcolati sul minimale);

naturalmente, se il reddito è superiore, è a questo che deve essere applicata l’aliquota contributiva.

Per i lavoratori dipendenti è previsto un reddito, o stipendio minimale: se l’imponibile, di fatto, risulta inferiore al valore minimale determinato dall’Inps, i contributi si calcolano su quest’ultimo valore e gli accrediti sono diminuiti in proporzione.

Nel dettaglio, il minimale settimanale per l’accredito dei contributi obbligatori e figurativi per i lavoratori dipendenti ammonta al 40% del trattamento minimo di pensione in vigore al 1° gennaio di ogni anno.

Ciò vuol dire che poiché il trattamento minimo è pari a 501,86 euro, il minimale settimanale su cui calcolare i contributi è pari a 200,74 euro.

Quello annuale è invece pari a 10.438,48 euro (200,74 moltiplicato per 52 settimane).

I contributi settimanali calcolati sul minimale, per i dipendenti del settore privato, risultano così pari a 66,24 euro (200,74 per 33%, cioè l’aliquota complessiva Ivs a carico di dipendente e datore di lavoro), mentre quelli annuali devono risultare almeno pari a 3.444,48 euro (cioè 66,24 per 52).

Se è stato versato nell’anno un ammontare almeno corrispondente a tale cifra, il dipendente risulta assicurato per tutte e 52 le settimane. Se, invece, il lavoratore non raggiunge la retribuzione imponibile minima di 10.438,48 euro, i periodi coperti sono ridotti: la diminuzione è calcolata in proporzione a quanto versato, dividendo lo stipendio per il minimale settimanale.

Un esempio per comprendere meglio: se X, nell’anno, ha un imponibile di 8.500 euro, non si vedrà accreditate 52 settimane di contributi, ma soltanto 42 (ottenute dividendo 8.500 per il minimale settimanale di retribuzione, ossia per 200,74).

In pratica, anche se X ha lavorato tutto l’anno, ai fini della pensione si vedrà accreditate 10 settimane in meno, come se non avesse lavorato per oltre 2 mesi. Questo succede perché non è previsto un numero minimo di ore di lavoro su cui versare i contributi. Di conseguenza, la contribuzione va calcolata tenendo conto dell’orario pattuito tra le parti nel contratto di lavoro, anche se inferiore a un eventuale orario minimo stabilito dal contratto collettivo.

Lo stesso minimale valido per gli artigiani e i commercianti è valido anche per i liberi professionisti e i lavoratori parasubordinati (co.co.co.) iscritti alla Gestione separata: tuttavia, per loro, i versamenti calcolati sul minimale non sono obbligatori, ma il minimale serve unicamente per rapportare, su base mensile e annuale, i contributi versati.

Un esempio:

Caio, lavoratore parasubordinato, lavora per tutto l’anno come co.co.co., da gennaio a dicembre, ricevendo una retribuzione pari a 12.000 euro, liquidata mensilmente dal committente;

i contributi su 12.000 euro di reddito ammontano a 3.806,40 euro, di cui 1/3 sono a carico del lavoratore e 2/3 a carico del committente, che li versa all’Inps, Gestione separata (assieme a quelli a carico del collaboratore, che gli sono trattenuti dalla retribuzione) entro il 16 del mese successivo a quello in cui è erogato il compenso: il committente di Caio, dunque, ha versato 317,20 euro per 12 mesi;

tuttavia, nonostante Caio abbia lavorato per 12 mesi e il committente abbia versato i contributi ogni mese, alla fine dell’anno il lavoratore si vede accreditati soltanto 9 mesi di contribuzione: questo perché il suo reddito imponibile è sotto il minimale da assoggettare a contribuzione, dunque gli vengono accreditati soltanto i mesi di contributi corrispondenti ai contributi versati;
548 per 31,72% (l’aliquota contributiva valida per i co.co.co., nella Gestione separata) è pari, difatti, a 4.931,83 euro circa: questi sono i contributi annui calcolati sul minimale;

rapportando al mese i contributi minimali, abbiamo un ammontare di 410,99 euro circa: vuol dire che, perché sia accreditato almeno un mese di contributi, devono essere versati, nell’anno, almeno 410,99 euro;

poiché il committente di Caio ha versato 3.806,40 euro, Caio si vede accreditati, dunque, 9 mesi di contributi (3.806,40 euro/410,99): il risultato deve essere arrotondato solo per difetto e non per eccesso (quindi non si possono accreditare 10 mesi di contributi se i versamenti non sono almeno pari a 4109,90 euro).

Lo stesso procedimento di calcolo vale anche per i versamenti effettuati nel fondo delle casalinghe: in questo caso, il minimale è pari a 310 euro annui ed il minimale mensile a 25,82 euro.

In pratica, l’Inps accredita per ogni anno tanti mesi di contributi, quanti ne risultano dividendo l’importo complessivo versato nell’anno per 25,82 euro, sino a un massimo di 12 mesi. In questo modo:
se in un anno risultano versati 110 euro, ad esempio, i mesi accreditati sono 4;

perché risulti accreditata un’annualità intera, bisogna versare all’Inps 310 euro;

se in un anno sono versati più di 310 euro, i contributi non possono essere “spalmati” nelle annualità non interamente coperte, ma servono soltanto ad aumentare la misura dell’assegno di pensione.

In alcuni casi particolari i contributi non sono calcolati sulla retribuzione effettivamente erogata ma su retribuzioni stabilite convenzionalmente.

Per i lavoratori domestici l’importo del contributo orario è stabilito annualmente, sempre da una circolare dell’Inps. Tali importi sono stabiliti in relazione a retribuzioni convenzionali commisurate a fasce di retribuzione effettiva. L’Inps ha pubblicato la circolare per l’anno 2014 nella quale è confermato che per i lavoratori che prestano attività presso lo stesso datore di lavoro per più di 24 ore settimanali l’importo dei contributi da versare è fisso (nel 2014 pari a 1,01 euro ad ora, importo che si eleva a 1,08 euro all'ora in caso di contratto a termine) ed è indipendente dall’entità della retribuzione effettiva percepita. Per maggiori informazioni vediamo i contributi 2014 per lavoratori domestici.

Sulla base di retribuzioni convenzionali sono calcolati anche i contributi per i lavoratori italiani operanti all'estero, in Paesi extracomunitari con i quali non sono in vigore accordi di sicurezza sociale. Tali retribuzioni sono fissate con decreto ministeriale.





martedì 31 ottobre 2017

Lavoratori dipendenti: bonus di 80 euro in busta paga


Sale di 600 euro il tetto di reddito annuo per i beneficiari del bonus Irpef di 80 euro al mese. Dal 2018 il beneficio pieno andrà ai redditi fino a 24.600 euro, quello parziale a quelli compresi fra questa somma e 26.600 euro. Con l’aumento disposto dalla legge di Bilancio verrà tra l’altro garantito agli statali il previsto aumento di 85 euro lordi con il rinnovo dei contratti senza che una parte dei lavoratori perda il bonus da 80 euro per il superamento dei tetti di reddito.

Nuove le soglie di reddito, che passano rispettivamente da 24 mila a 24.600 e da 26 mila a 26.600. In questo modo sarebbero salvi gli 80 euro anche per i dipendenti pubblici alla luce degli aumenti degli stipendi statali. Nessuna novità, invece, per chi ha uno stipendio basso, sotto gli 8mila euro annui: per questi lavoratori il diritto al bonus Renzi non c’è e non ci sarà, considerando che la detrazione per reddito da lavoro dipendente, sotto questa soglia di reddito, supera l’Irpef.


BENEFICIARI – A partire dal prossimo 1° gennaio 2018 potranno beneficiare del bonus:

in misura piena, i lavoratori dipendenti del settore pubblico e privato con redditi fino a 24.600 euro;
in misura parziale e proporzionata al proprio reddito i lavoratori dipendenti statali e privati fino a 26.600.

REGOLE E COSA CAMBIA – I requisiti di reddito specificati nel D.L. 66/2014 e in vigore attualmente sono i seguenti:

reddito inferiore a 8 mila euro: 0 euro;

reddito compreso tra 8 euro e 24 mila euro: 960 euro all’anno di bonus;

reddito tra i 24 mila e i 26 mila euro: 26.000 – reddito complessivo/2000 x 960.

A partire dal prossimo anno, la Legge di Bilancio 2018 cambia gli ultimi due punti e i requisiti di reddito potrebbero essere i seguenti:

reddito compreso tra 8 mila euro e 24.600 euro: 960 euro all’anno di bonus;
reddito tra i 24.600 e i 26.600 euro: 26.600 – reddito complessivo/2000 x 960.

A CHI NON SPETTA – Nel caso in cui in sede di dichiarazione dei redditi i lavoratori dipendenti statali e del settore privato dovessero superare le soglie di reddito previsto la legge prevede la restituzione completa del bonus Renzi di 80 euro. Stesse regole anche per chi non supera il reddito di 8 mila euro e quindi non è titolare del diritto a beneficiare del credito Irpef in busta paga.

Aumento soglia di reddito bonus 80 euro 2018: per effetto della nuova legge di bilancio 2018, a partire dal 1° gennaio 2018, aumenta la soglia di reddito per accedere al bonus 80 euro di Renzi. Tale aumento, infatti, si è reso necessario per non sterilizzare l'aumento di stipendio dei dipendenti coinvolti dal rinnovo dei contratti statali, bloccati da più di 7 anni.

Con il rinnovo del contratto statale, infatti, la ministra Madia e i sindacati, hanno concordato per i dipendenti pubblici, un aumento di stipendio proporzionale in base al reddito del lavoratore e fino ad un massimo di 85 euro.
Un aumento questo, che sin da subito ha mostrato qualche lacuna, una tra tutte, il fatto che avrebbe potuto azzerare il bonus 80 euro a causa dell'aumento del reddito del dipendente ed il conseguente superamento della soglia reddituale.

Tale aumento di soglia di reddito, non sarà a beneficio solo del bonus 80 euro 2018 dipendenti pubblici ma tutti lavoratori e porterà dunque ad un allargamento della platea dei beneficiari.




lunedì 15 maggio 2017

Quattordicesima mensilità: come si calcola



Nel mese di giugno per i contratti che lo prevedono, verrà erogata la quattordicesima mensilità quale retribuzione differita, perché erogata in periodi prestabiliti dell'anno, e maturata da parte del dipendente nel corso dell'anno e percepita una sola volta nell'arco dei dodici mesi. Si tratta in sostanza di un istituto di origine contrattuale che ne stabilisce le modalità di pagamento nonché individua gli elementi retributivi che incidono nel calcolo dell’importo dovuto,  e non legale, dal momento che non è prevista in tutti i settori di attività ma può essere inserita anche in sede di contrattazione aziendale: è quindi il contratto stesso che va a definire i termini e i tempi dell'erogazione, nonché gli elementi su cui andare a calcolare l'importo.

Come si calcola la quattordicesima e quali sono le caratteristiche di questo istituto?

Le sue modalità di calcolo sono simili a quelle della tredicesima. Qui spieghiamo come si calcola questa mensilità.

La quattordicesima, al pari della tredicesima, si calcola sulla base della retribuzione lorda annuale. Per le frazioni di mese si parte da una parte di 15 giorni. Ovviamente, nel caso in cui una persona abbia lavorato per meno di 12 mesi, bisogna basare il calcolo sul numero di mesi effettivamente lavorati.

Facciamo anche in questo caso un esempio di calcolo della quattordicesima. Il conteggio avviene sulla base di questa formula:
retribuzione lorda mensile X numero di mesi lavorati / totale mensilità

Per esaminare la composizione della quattordicesima mensilità occorre considerare che nel nostro ordinamento non vige un principio di universale, da utilizzare ogni qualvolta la legge faccia riferimento al concetto di retribuzione di modo da poter conoscere già in anticipo quali elementi la compongono.

Nella maggior parte dei casi comunque la contrattazione collettiva, nella retribuzione da prendere a base di calcolo , ricomprende la paga base, l'indennità di contingenza, i terzi elementi nazionali o provinciali, eventuali scatti di anzianità, e altri elementi retributivi erogati con continuità, e quindi superminimo, assegno ad personam, straordinari forfetizzati.

La quattordicesima mensilità viene definita calcolando un dodicesimo per ogni mese intero di servizio prendendo come riferimento il periodo che va dal 1° luglio al 30 giugno dell'anno successivo.

Nel calcolo della  quattordicesima mensilità , in quanto retribuzione differita, è necessario tenere in considerazione tutti gli elementi che hanno caratterizzato la retribuzione, soprattutto sotto il profilo delle assenze dal lavoro; a seconda della tipologia dell'assenza, pertanto, la quattordicesima viene erogata per intero ovvero parzialmente.

L'erogazione avviene per intero nelle assenze dovute a:

Congedo matrimoniale

Ferie

Festività

Permessi

Malattia a totale carico del datore di lavoro

Avviene invece in misura ridotta per le assenze dovute a:
Congedo parentale
Malattia e infortunio oltre il periodo gestibile da contratto

Servizio di leva

Aspettativa non retribuita

Sciopero

Permessi non retribuiti

E' da rilevare che in quasi in tutti i casi in cui l'assenza del lavoratore è tutelata e coperta dall'intervento degli Istituti previdenziali e assistenziali, la maturazione della quattordicesima mensilità è garantita e pagata dagli istituti stessi i quali la calcolano direttamente sulla base dei dati forniti dal datore di lavoro all'ente.

La maggior parte dei contratti collettivi prevede una integrazione a carico del datore di lavoro in tutti quei casi in cui le  assenze comportino il pagamento dei trattamenti economici a carico degli Istituti previdenziali fino a garantire la retribuzione netta che sarebbe spettata in caso di effettiva prestazione. Si rende necessario, quindi, determinare l'importo che il datore di lavoro deve aggiungere all'indennità riconosciuta dall'Istituto tenendo presente che tale indennità non è soggetta a contributi previdenziali.

Per evitare che il dipendente possa subire una imposizione fiscale troppo elevata con il picco delle aliquote fiscali, l'imposta viene calcolata separatamente dalle altre competenze del mese.



mercoledì 19 aprile 2017

Lavoro: licenziarsi da un contratto a tempo indeterminato


Per contratto di lavoro a tempo indeterminato si deve intendere un accordo fra le parti nel quale un soggetto, il lavoratore, si impegna dietro versamento di una retribuzione e senza vincolo di durata alcuno, a prestare la propria attività lavorativa accettando il potere direttivo, organizzativo e disciplinare di un altro soggetto, il datore di lavoro.

Con il D. lgs 151/2015, entrato in vigore in attuazione del Jobs Act, è stata rivista la disciplina delle dimissioni volontarie e della risoluzione consensuale. Il Jobs Act, a rafforzamento del contrasto alle dimissioni in bianco, ha introdotto una ulteriore novità, ovvero la compilazione in via telematica delle dimissioni.

Le dimissioni volontarie sono le classiche  date dal lavoratore per ragioni personali (famiglia, cambio lavoro, salute ecc.), in questo caso il lavoratore di sua spontanea volontà rassegna le dimissioni dal proprio lavoro a tempo indeterminato in quanto per ragioni personali non può più proseguire con il lavoro.

Il lavoratore può rassegnare le proprie dimissioni volontarie dando un margine di preavviso al datore di lavoro per consentirgli di trovare un altro lavoratore per sostituirlo nelle sue mansioni ordinarie. Il preavviso è stabilito dai CCNL i quali distinguono il periodo di preavviso in base alle mansioni del lavoratore (es. impiegato o operaio) e l’anzianità di servizio (un operaio con più anni di esperienza sarà più difficile da sostituire).

Proprio per la sua peculiarità il preavviso è sempre obbligatorio, nel caso in cui lavoratore dia le proprie dimissioni in tronco, quindi smettendo di lavorare da un giorno all’altro o comunque prima della scadenza del preavviso il datore di lavoro può richiedere un risarcimento al lavoratore, pari di solito alle giornate di mancato preavviso.

Caso diverso sono le dimissioni per giusta causa. In questo caso infatti le dimissioni vengono presentate dal lavoratore non per ragioni personali, ma perché per qualche ragione il rapporto di lavoro si è incrinato irrimediabilmente e il lavoratore non ritiene più di poter proseguire il lavoro neanche temporaneamente

In questo modo potreste avere diritto ad un risarcimento per un danno da voi subito a torto, stimato in una condizione di parità relativa all'ammontare delle retribuzioni che avreste percepito per la durata intera del contratto.  Ovviamente, prima di effettuare tutti gli incartamenti valutate sempre bene la situazione, senza fare cose affrettate.  Analizzando il motivo del recesso del contratto.  Per poi, informarvi con delle persone esperte nel campo.

Il contratto a tempo indeterminato è un accordo redatto per iscritto tra il datore di lavoro ed un dipendente, regolato dal Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro (CCNL). Esso non riporta la scadenza del rapporto lavorativo e deve contenere: i dati del principale e del lavoratore; la mansione data a quest'ultimo; l'importo dello stipendio mensile; l'orario di attività; i giorni di ferie; le eventuali ore di permesso; le informazioni riguardanti il licenziamento e le dimissioni.

L'articolo 2118 c. C. Prevede che tale obbligazione può essere sospesa soltanto dando un opportuno preavviso, per consentire all'imprenditore di trovare un subentrante, senza creare disguidi alla società. In questi casi, non occorre che il dirigente esprima la sua accettazione, perché la scelta di licenziarsi è una dichiarazione volontaria unilaterale ed inoppugnabile. Tuttavia, prima che il datore di lavoro ne venga a conoscenza, è possibile decidere per la sua revoca.

Il periodo di preannuncio è differente secondo la tipologia dell'accordo stipulato, il tipo di assunzione, l'anzianità raggiunta, ecc. Comunque, se non vengono indicate specifiche disposizioni, si applicano le regole basilari oppure quelle di equità. Le dimissioni assumono validità quando il datore di lavoro la riceve e, dunque, ne viene a conoscenza.

Se vi dimettete senza dare il preannuncio, dovrete sborsare un'indennità di mancato preavvertimento al datore di lavoro.  L'importo da rimunerare corrisponderà all'ammontare della retribuzione che avreste dovuto incassare durante i giorni di preavviso non rispettato.

Comunque, il responsabile può anche rifiutare quest'ultimo.  In questo caso, purché voi siate d'accordo, vi dovrà erogare l'indennità sostitutiva, corrispondente sempre allo stipendio relativo al suddetto intervallo.

Il licenziamento dovrà essere presentata al sovraintendente, attraverso una raccomandata con ricevuta di ritorno, per poter documentare la data di spedizione. Se lo desiderate, potrete anche presentarla mediante posta elettronica certificata e, comunque, entro un lasso massimo di un mese, a partire dalla data del vostro licenziamento volontario. Il datore di lavoro vi dovrà inviare una comunicazione, per richiedervi di firmare la vostra rescissione dal contratto.

Nella lettera delle dimissioni da trasmettere direttamente all'Ufficio del personale della vostra azienda, dovrete: specificare che si tratta di una comunicazione di licenziamento; indicare i vostri dati anagrafici, la data dell'assunzione, la tipologia della funzione, il livello, il giorno a partire dal quale sarà effettivo l'esonero dal lavoro; puntualizzare, nella parte conclusiva della missiva, la scadenza del periodo di preavviso; firmarla e datarla; farne una copia e conservarla insieme alla ricevuta dell'invio.

Il datore di lavoro deve provvedere al pagamento del T.F.R. attraverso la busta paga con la quale eroga l’ultima retribuzione, che, ovviamente, deve essere corrisposto al termine effettivo del rapporto di lavoro e, quindi, con le stesse modalità seguite fino ad oggi, a meno che le parti non si mettano d’accordo diversamente, ma sempre consegnando la busta paga al lavoratore.

Solitamente, nel giro di due o tre mesi, il datore di lavoro provvede a regolarizzare la posizione del dipendente dimesso, quindi, trascorso tale periodo, le consiglio di metterlo ufficialmente in mora a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno.






giovedì 6 aprile 2017

Benefit aziendale si punta al benessere



Nuovo approccio aziendale ai fringe benefit: più attenzione all'equilibrio psicofisico dei dipendenti con servizi calibrati sulle singole esigenze.

I fringe benefits sono la principale risorsa dei datori di lavoro per creare welfare aziendale e incentivare la produttività, strettamente connessa al benessere dei lavoratori. Nel 2017 con l’approvazione della Legge di Bilancio 2016 entrano in vigore nuove regole di detassazione sulla busta paga dei lavoratori.

Asili, borse di studio, assistenza ai familiari anziani: sono esempi di welfare aziendale incentivato dalla Legge di Stabilità 2016 con nuove forme di fiscalizzazione, contribuzione e campo di applicazione. I Consulenti del Lavoro hanno messo a punto una circolare che riassume il nuovo quadro normativo utile come guida per imprese e lavoratori.

Il  benessere aziendale si fa sempre più strada nella cultura delle aziende italiane, che oggi offrono nuove tipologie di benefici accessori. A divulgarlo è una ricerca di Top Employers Institute, l’ente certificatore delle eccellenze aziendali in ambito HR che ha preso in considerazione non solo i fringe benefit più adottati dalle aziende, ma anche quelli maggiormente scelti e graditi dai dipendenti. Il mondo dei "fringe benefit" mostra secondo gli esperti "un'attenzione spiccata alle soluzioni antistress e alla sostenibilità.

Questi i risultati emersi:
il 76% delle aziende si preoccupa del benessere psicofisico, dello stato di stress e dei carichi di lavoro dei propri dipendenti, tramite questionari mirati e domande specifiche inserite nelle survey periodiche;

il 71% propone e attua un’ampia serie di programmi di benessere, accanto alle più tradizionali ma molto apprezzate polizze integrative di assicurazione sanitaria;

il 66% offre e attua corsi di gestione del tempo, per imparare a lavorare in maniera più efficace e con minore sforzo;

il 66% provvede a un parcheggio aziendale, e talune aziende mettono a disposizione un servizio di bike sharing per il tragitto casa-lavoro;

il 59% incentiva permessi speciali per attività di volontariato;

il 56% offre la possibilità di un intero anno sabbatico per motivi di studio, aggiornamento professionale, assistenza e cura parentale o anche per una pausa di riflessione personale, per “staccare la spina” e poi rientrare più motivati e proattivi sul posto di lavoro;

il 41% provvede a contributi economici per l’accudimento dei figli;

il 18% propone incontri e programmi per aiutare a smettere di fumare

In generale, sembra cambiato l’approccio delle aziende ai fringe benefit.

I datori di lavoro offrono sempre meno spesso benefici omologati e uguali per tutti e puntano sempre di più a servizi personalizzati e calibrati sulle esigenze dei singoli dipendenti pensati anche in chiave competitiva in un’ottica di attrazione e fidelizzazione dei talenti.

Per David Plink, CEO di Top Employers Institute, offrire un ambiente di lavoro ottimale, in grado di favorire la crescita non solo professionale, ma anche personale e umana delle persone si traduce, a sua volta, in potenzialità di sviluppo e crescita anche a livello aziendale.

«I fringe benefit giocano un ruolo sempre più competitivo nelle motivazioni di chi cerca o vuole cambiare posto di lavoro.
Il mercato è cambiato e la motivazione per cui si cambia lavoro non è più solo quella economica, ma entrano in gioco anche altri fattori, come l’ambiente di lavoro, le prospettive di carriera, la flessibilità e – perché no? – anche i fringe benefit “su misura”.

Motivo per cui le aziende più innovative, come le aziende certificate Top Employers, li utilizzano in chiave sempre più personalizzata e come strumento di attrazione e fidelizzazione dei talenti».

Oggi, infatti, sempre più aziende non si limitano più ad offrire solo a smartphone, laptop e auto in leasing, ma puntano diretti al benessere dei dipendenti in chiave antistress e alla sostenibilità offrendo palestre, nutrizionisti, counselling, contributi per l’asilo nido, corsi per la gestione del tempo, bonus volontariato, programmi per smettere di fumare, yoga, massaggi, consulenze nutrizionali e così via.

I fringe benefit, tradotto in italiano come “benefici accessori, marginali”, fanno parte di una particolare tipologia di retribuzione prevista dall’articolo 2099 comma 3 del codice civile secondo il quale “… il prestatore di lavoro può anche essere retribuito in tutto o in parte con partecipazione agli utili o ai prodotti, con provvigione o con prestazioni in natura”.

Fanno parte di questi benefici una serie di servizi dedicati al lavoratore, come buoni pasto, assistenza sanitaria, polizze assicurative, finanziamenti agevolati, acquisto di prodotti a prezzo scontato, acquisto di azione societarie e infine veri e propri beni mobili e immobili, come autovetture, ad uso esclusivamente aziendale, personale o promiscuo e alloggi per il singolo dipendente o per la famiglia.

Questo particolare tipo di reddito viene posto in busta paga del dipendente, con regole variabili per quanto riguarda la tassazione: alcuni fringe benefit sono esenti da tassazioni, come i contribuiti INPS e INAIL, assistenza sanitaria fino a 3.615,20 € all’anno e i buoni pasto commisurati in 5,29 € al giorno.

Con il nuovo anno, inoltre, ci sono nuovi privilegi per i dipendenti premiati: dal 2017, infatti,  l’importo del premio di produttività detassato è raddoppiato. Si passa dai 2000 € ai 4000 € , con un’ aliquota del 10% con un aumento del tetto di reddito di riferimento di 30.000 €: rispetto all'anno scorso si passa quindi da 50.000 € a 80.000 €. In più, i lavoratori potranno convertire la somma di denaro percepita in servizi di welfare aziendale, il tutto esente da tassazione.


martedì 7 febbraio 2017

Busta paga:i nuovi obblighi ai datori di lavoro



La busta paga è il documento necessario per tutti i dipendenti, che attesta la retribuzione netta e lorda del lavoratore e serve per verificare lo stipendio percepito e la sua congruità con quanto stabilito nel CCNL. Sulla busta paga si possono inoltre verificare i contributi pensionistici versati dal datore di lavoro a vantaggio del dipendente. Il pagamento dello stipendio potrà essere effettuato solo con versamento in banca o alle Poste e la firma sulla busta paga non costituirà più una prova dell’avvenuto pagamento.

Stipendi versati solo in banca o in posta e la firma sulla busta paga non costituirà prova dell'avvenuto pagamento. Sono queste le principali novità introdotte dal disegno di legge (c1041) recante "disposizioni in materia di modalità di pagamento delle retribuzioni ai lavoratori".

In arrivo cambiamenti in tema di busta paga con il disegno di legge C1041 recante “Disposizioni in materia di modalità di pagamento delle retribuzioni ai lavoratori” che vede come prima firmataria la Titti Di Salvo (Dem) e relatrice Valentina Paris (Pd) ed è attualmente all’esame della Commissione Lavoro della Camera in sede referente.

L’obiettivo principale del provvedimento è quello di evitare brogli sulle retribuzioni, andando a contrastare il fenomeno che affligge molti lavoratori ai quali i datori di lavoro corrispondono una retribuzione inferiore ai minimi fissati dalla contrattazione collettiva, pur facendo firmare loro una busta paga nella quale risulti una retribuzione regolare, dietro minaccia di licenziamento o dimissioni in bianco.

Il Ddl prevede quindi che il versamento dello stipendio possa avvenire solo in banca o alla posta, eliminando al contempo la validità probatoria della firma apposta sulla busta paga per l’avvenuto pagamento della retribuzione. Il tutto senza caricare di nuovi oneri imprese e/o lavoratori, allo scopo è prevista, entro tre mesi dall’entrata in vigore della norma, la stipula di una convenzione tra il Governo, Associazione bancaria italiana e Poste italiane Spa per individuare gli strumenti bancari e postali idonei per consentire ai datori di lavoro di eseguire il pagamento della retribuzione ai propri lavoratori.

Sarà il lavoratore, al momento della firma del contratto, a decidere per il pagamento mediante:

accredito diretto sul proprio conto corrente;

emissione di un assegno da parte dell’istituto bancario o dell’ufficio postale, consegnato direttamente al lavoratore (o ad un delegato in caso di comprovato impedimento);

pagamento in contanti presso lo sportello bancario o postale.

I datori di lavoro o committenti non potranno più corrispondere la retribuzione per mezzo di assegni o di somme contanti di denaro, qualunque sia la tipologia del rapporto di lavoro instaurato.

In fase di assunzione il datore di lavoro dovrà comunicare, al Centro per l’Impiego competente per territorio gli estremi dell’istituto bancario o dell’ufficio postale che provvederà al pagamento delle retribuzioni al lavoratore, nel rispetto delle norme sulla privacy. La comunicazione, per evitare di attribuire nuovi carichi burocratici ai datori di lavoro, sarà inserita nello stesso modulo che i datori di lavoro inviano obbligatoriamente al Centro per l’impiego in caso di nuove assunzioni. Per annullare l’ordine di pagamento il datore di lavoro dovrà trasmettere alla banca o alle Poste copia della lettera di licenziamento/dimissioni del lavoratore.

In caso di inadempimento sono previste sanzioni amministrative pecuniarie da 5mila a 50mila euro. Per la mancata comunicazione al Centro per l’Impiego è prevista una sanzione di 500 euro seguita da un accertamento della direzione provinciale del lavoro.

Sono esclusi da tali obblighi i datori di lavoro non titolari di partita IVA, i rapporti di lavoro domestico e familiare e i rapporti instaurati dai piccoli o piccolissimi condomini.

l provvedimento che si compone di 5 articoli introduce un semplice meccanismo che consiste nel rendere obbligatorio il pagamento delle retribuzioni ai lavoratori (nonché ogni anticipo), attraverso gli istituti bancari o gli uffici postali.

La scelta del sistema di pagamento è rimessa direttamente al lavoratore, il quale potrà optare per l'accredito diretto sul proprio conto corrente, per l'emissione di un assegno (consegnato direttamente al lavoratore o in caso di comprovato impedimento a un suo delegato) oppure per il pagamento in contanti presso lo sportello bancario o postale.

Viene vietato in sostanza ai datori di lavoro il pagamento della retribuzione a mezzo di assegni o contante qualunque sia la tipologia del rapporto di lavoro instaurato.

Si stabilisce, inoltre, che la firma della busta paga non costituisce prova dell'avvenuto pagamento della retribuzione.

Il provvedimento fissa l'obbligo per il datore di lavoro, al momento dell'assunzione, di comunicare al centro per l'impiego competente gli estremi dell'istituto bancario o dell'ufficio postale che provvederà al pagamento delle retribuzioni al lavoratore, nel rispetto delle norme sulla privacy.

La comunicazione, per evitare di attribuire nuovi oneri burocratici ai datori, sarà inserita nello stesso modulo che gli stessi inviano obbligatoriamente al centro per l'impiego quando effettuano nuove assunzioni. La modulistica, quindi, dovrà essere opportunamente modificata (dai centri per l'impiego) entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della legge per permettere l'invio corretto della comunicazione anche in modalità telematica.

Allo stesso modo, l'ordine di pagamento potrà essere annullato soltanto trasmettendo alla banca o alle poste copia della lettera di licenziamento o delle dimissioni del lavoratore, rese secondo le modalità di legge, fermo restando l'obbligo di effettuare tutti i pagamenti dovuti al lavoratore dopo la risoluzione del rapporto di lavoro.

La convenzione - La proposta di legge prevede, inoltre, la stipula di una convenzione (entro tre mesi dall'entrata in vigore) tra il Governo e l'Associazione bancaria italiana e la società Poste italiane Spa che individua gli strumenti bancari e postali idonei per consentire ai datori di lavoro di eseguire il pagamento della retribuzione ai propri lavoratori, con l'importante previsione che ciò non deve determinare nuovi oneri né per le imprese nè per i lavoratori.

Le esclusioni - Il ddl esclude dagli obblighi introdotti i datori di lavoro che non sono titolari di partita Iva, i quali spesso non sono neanche titolari di un conto corrente. In ogni caso sono esclusi dalla pdl, i rapporti di lavoro domestico e familiare (nei quali i datori spesso sono persone anziane o disabili), così come i rapporti instaurati dai piccoli o piccolissimi condomini (ad es. per pulizia scale o manutenzione verde condominiale).

Le sanzioni - Sono, infine, previste pesanti sanzioni pecuniarie (da 5mila a 50mila euro) per i datori di lavoro che non ottemperano agli obblighi introdotti dalla legge. Chi non comunica al centro per l'impiego competente per territorio gli estremi dell'istituto bancario o dell'ufficio postale che effettuerà il pagamento delle retribuzioni è soggetto al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria di 500 euro e al successivo accertamento della direzione provinciale del lavoro, che procederà alle conseguenti verifiche.





sabato 21 gennaio 2017

I diritti di un dirigente di imprese commerciali


In forza del CCNL dei dirigenti commerciali, il dirigente ha diritto ad una retribuzione composta dal minimo contrattuale (per il neo-assunto, € 3.000,00), dagli scatti di anzianità (€ 129.11 mensili al compimento di ogni biennio di anzianità, con un massimo di 11 bienni) e, per i dirigenti assunti o nominati fino alla data del 30/6/95 dall'elemento di maggiorazione (12% degli elementi della retribuzione utili per il calcolo del TFR).

Nei mesi di dicembre e di giugno di ogni anno il dirigente ha diritto a mensilità supplementari. Al dirigente spettano 4 giorni di permesso retribuito in sostituzione delle festività abolite, e 30 giorni di ferie (nel periodo di ferie non vanno computate le domeniche e le festività).

E’ stata sottoscritta il 21 luglio del 2016, tra Confcommercio e Manageritalia, l’ipotesi di accordo per il rinnovo del CCNL 31/7/2013 e successive modificazioni, per i dirigenti di aziende commerciali, della distribuzione e dei servizi- - L’accordo che decorre dall’1/1/2015 e scadrà il 31/12/2018, avrà piena vigenza a seguito dell’approvazione da parte degli Organismi Direttivi delle parti contraenti.

Aumento retributivo
Fermo restando il minimo contrattuale previsto all’art. 5 del CCNL e pari a Euro 3.890,00, ai dirigenti compete, sulla retribuzione di fatto, un aumento pari a euro 80,00 mensili lordi dall’1/1/2017, un aumento pari a euro 100,00 mensili lordi dall’1/1/2018 e un aumento pari a euro 170,00 mensili lordi dall’1/12/2018.

Malattia
Il periodo di comporto per i dirigenti non in prova con il nuovo accordo passa da 12 mesi a 240 giorni in un anno solare, mentre viene introdotto l’art. 188/Bis che al contrario, prevede un prolungamento del periodo di comporto nei confronti dei dirigenti ammalati in caso di patologia grave e continuativa che comporti terapie salvavita, periodicamente documentata da specialisti del Servizio Sanitario Nazionale, a richiesta del dirigente, per un ulteriore periodo non superiore a complessivi 180 giorni e alla condizione che siano esibiti dal dirigente i predetti certificati medici.

Durante il periodo di cui al comma precedente al dirigente verrà corrisposta l’intera retribuzione ed in caso di risoluzione del rapporto alla scadenza del termine allo stesso sarà dovuta . oltre al trattamento di fine rapporto, anche l’indennità sostitutiva del preavviso di cui al successivo art. 39. comma 5.

Le citate previsioni entrano in vigore dalla data di sottoscrizione del presente accordo ma per i dirigenti che alla data di sottoscrizione del presente accordo abbiano in corso un evento di malattia le nuove previsioni contenute negli artt. 18 e 18 bis troveranno applicazione dal 15/9/2016.

Previdenza complementare
Il contributo dovuto per ogni dirigente iscritto al Fondo, composto da un contributo ordinario ed un contributo integrativo, viene così stabilito:

– il contributo ordinario è dato dalla somma del contributo a carico del datore di lavoro e del contributo a carico del dirigente pari rispettivamente al 11,65% e 1% della retribuzione convenzionale annua(Euro 59.224,54). Il contributo a carico del datore di lavoro è fissato all’11,88% a decorrere dall’1/1/2016, al 12,11% a decorrere dall’1/1/2017 e al 12,35% a decorrere dall’1/1/2018;

– il contributo integrativo, comprensivo della quota di cui all’accordo specifico a titolo di contributo sindacale, a carico del datore di lavoro, è pari all’1,99% della retribuzione convenzionale annua (Euro 59.224,54) e confluisce nel conto generale. Ferma restando la retribuzione convenzionale, il contributo integrativo è pari al 2,03% a decorrere dall’1/1/2016, al 2,07% a decorrere dall’1/1/2017 e al 2,11% a decorrere dall’1/1/2018.

Fermo restando il contributo ordinario a carico del dirigente indicato al comma 5, il contributo ordinario a carico del datore di lavoro per i dirigenti definiti all’art. 28, commi da 1 a 3, dell’ipotesi di accordo 21/7/2016 (assunti o nominati proprio dalla data di stipula) d’anno 2016 è pari al 3,97%, della retribuzione convenzionale annua. A decorrere dall’anno 2017 è pari al 4,05%, a decorrere dall’anno 2018 è pari al 4,13%.

Assistenza sanitaria integrativa
Il contributo da versare al Fondo di Assistenza Sanitaria Integrativa “Mario Besusso” è:

a) 5,50% a carico dell’azienda per ciascun dirigente in servizio, comprensivo della quota di cui all’accordo specifico a titolo di contributo sindacale o della quota di servizio;

b) 2,51% a carico dell’azienda e a favore della gestione dirigenti pensionati, dovuto per ciascun dirigente alle dipendenze della stessa a decorrere dall’1/1/2016 in ragione d’anno, e elevato al 2,56% in ragione d’anno a decorrere dall’1/1/2018;

c) 1,87% a carico del dirigente in servizio.

La contribuzione annua a carico dei dirigenti pensionati è fissata in euro 2.032,00 euro a decorrere dall’1/1/2016 ed in 2.054,00 euro a decorrere dall’1/1/2018. Tale importo è soggetto a rivalutazione tenendo conto anche delle esigenze di equilibrio tecnico del Fondo.



sabato 24 dicembre 2016

CCNL studi professionali: regole per il lavoro a tempo parziale, ferie e retribuzione




Il contratto di lavoro a tempo parziale, meglio conosciuto come contratto part time, indica un rapporto di lavoro subordinato caratterizzato da una riduzione dell'orario di lavoro rispetto a quello a tempo pieno.

Come ogni contratto di lavoro, anche quello part time può essere sia a tempo determinato che indeterminato. Un contratto part time per essere in regola deve essere sottoscritto da entrambe le parti e deve contenere informazioni precise sulla durata della prestazione lavorativa e sull'orario di lavoro con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all'anno.

Tale riduzione può assumere diverse forme: in un primo caso, può essere prevista in relazione all’orario normale giornaliero; in una seconda ipotesi, l’attività lavorativa può invece essere svolta a tempo pieno, ma limitatamente a periodi predeterminati nel corso della settimana del mese o dell’anno; infine, le parti possono concordare combinazioni delle tipologie precedenti.

Il contratto a tempo parziale e la regolamentazione della durata della prestazione di lavoro costituiscono i punti focali del CCNL degli studi professionali che disciplina nel dettaglio la materia anche sotto il profilo dei margini di flessibilità esigibili dal datore di lavoro.

La regolamentazione contrattuale integra per numerosi aspetti la disciplina legale recata dal decreto legislativo di riordino dei contratti, attuativo del Jobs Act,. prevedendo, in alcuni casi, una disciplina più favorevole al lavoratore. Un esempio è rappresentato dalle prestazioni supplementari per le quali è richiesto, in ogni caso, il consenso del lavoratore.

Il CCNL 17 aprile 2015 dedicato al lavoro negli studi professionali disciplina ampiamente il contratto di lavoro a tempo parziale cui è dedicato il Titolo X della Parte terza.

La regolamentazione contrattuale integra per numerosi aspetti la disciplina legale recata dal D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81 attuativo del Jobs Act, che costituisce il quadro normativo di riferimento.

La legge richiede che il contratto di lavoro a tempo parziale, da stipularsi in forma scritta ai fini della prova, contenga l’indicazione puntuale della durata della prestazione e della collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno, ma non stabilisce alcun limite minimo per tale durata (il limite massimo deriva indirettamente dall’orario corrispondente al tempo pieno).

In consonanza con l’art. 8 del d.lgs. n. 81/2015, l’art. 39, comma 1, Ccnl studi professionali prevede che i lavoratori affetti da patologie oncologiche e altre patologie invalidanti, per i quali residui una ridotta capacità lavorativa, anche a causa degli effetti invalidanti di terapie salvavita, accertata da una commissione medica istituita presso la ASL territorialmente competente, hanno diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in lavoro a tempo parziale. A richiesta del lavoratore, il rapporto di lavoro a tempo parziale deve essere trasformato nuovamente in rapporto di lavoro a tempo pieno.

In mancanza di regole precise fissate dai contratti collettivi, vengono stabilite per legge le modalità applicative: il datore di lavoro può chiedere al lavoratore lo svolgimento di lavoro supplementare, le parti possono pattuire clausole elastiche e flessibili in materia ad esempio di orario di lavoro. Le parti possono pattuire clausole elastiche (che consentono lo spostamento della collocazione dell’orario di lavoro) o flessibili (consentono la variazione in aumento dell’orario di lavoro nel part time verticale o misto).

Si definiscono le aree di applicazione del contratto come segue:
1) Area professionale Economico-Amministrativa: Consulenti del Lavoro, Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili, Revisori Contabili, altre professioni di valore equivalente ed omogenee all'area professionale non espressamente comprese;

2) Area Professionale Giuridica: Avvocati, Notai, altre professioni di valore equivalente.

3) Area professionale Tecnica: Ingegneri, Architetti, Geometri, Periti Industriali, Geologi, Agronomi e Forestali, Periti agrari, Agrotecnici, altre professioni di valore equivalente ed omogenee all’area professionale.

4) Area professionale Medico Sanitaria e Odontoiatrica: Medici, Medici Specialisti, Medici Dentisti, Odontoiatri, Medici Veterinari e Psicologici, Operatori Sanitari, abilitati all’esercizio autonomo delta professione di cui alla specifica Decretazione Ministeriale, ad esclusione dei Laboratori Odontotecnici, altre professioni di valore equivalente ed omogenee all’area.

5) Altre attività professionali intellettuali: Si tratta di quelle attività non rientranti nelle prime quattro aree, con o senza Albo professionale.

E' facoltà del datore di lavoro stabilire il periodo delle ferie di norma da maggio a ottobre, in funzione delle esigenze della struttura lavorativa e sentiti i lavoratori, e secondo i principi del D.lgs. 66/2003 in materia.

A decorrere dal 1° Luglio 1992 il personale di cui al presente contratto avrà diritto ad un periodo di ferie annue nella misura di 26 (ventisei) giorni lavorativi, comprensivi delle giornate di sabato se l'orario è distribuito su 6 (sei) giorni. In caso di regime di "settimana corta", dal lunedì al venerdì. Il periodo di ferie annuali è pari a 22 (ventidue) giorni lavorativi.

2. Il decorso delle ferie resta interrotto nel caso di sopravvenienza, durante il periodo stesso, di malattia regolarmente denunciata e riconosciuta dalle strutture sanitarie pubbliche competenti per territorio.

Eccettuate le prestazioni occasionali o saltuarie, la retribuzione mensile è in misura fissa e cioè non variabile in relazione alle festività, ai permessi retribuiti, alle giornate di riposo settimanale di legge, cadenti nel periodo di paga e, fatte salva le condizioni di miglior favore, alla distribuzione dell'orario settimanale.

Essa si riferisce pertanto a tutte le giornate del mese di calendario.

La retribuzione corrisposta al lavoratore dovrà risultare dal libro unico del lavoro nel quale dovrà essere specificato il periodo di lavoro a cui la retribuzione si riferisce, l'importo della retribuzione, la misura e l'importo dell'eventuale lavoro straordinario e/o supplementare e di tutti gli altri elementi che concorrono a formare l'importo corrisposto nonché tutte le ritenute effettuate.

La quota giornaliera della retribuzione ed il computo dell'indennità sostitutiva delle ferie, si ottiene dividendo l'importo mensile per il divisore convenzionale 26 (ventisei).

La quota oraria della retribuzione si ottiene dividendo l'importo mensile per il divisore convenzionale 170 (centosettanta).

Quando si debba determinare la retribuzione spettante per frazione di mese (inizio o cessazione del lavoro nel corso del mese o assenza non retribuita), si procede alla corresponsione delle quote giornaliere (ventiseiesimi) corrispondente alle presenze effettive.
Le frazioni di anno saranno computate, a tutti gli effetti contrattuali per dodicesimi, computandosi come mese intero le frazioni di mese pari o superiori a quindici giorni.

Gli relativi aumenti applicabili a ciascun livello  da gennaio 2016 sono i seguenti :

Quadri 21,17 €

I LIVELLO  18,74 €
 
2 LIV     16,32 €
 
3  S LIV   15,14 €
 
3  LIV   15,00
 
4 S LIV   14,55
 
4 LIV   14,02
 
5 LIV 13,05



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