martedì 31 ottobre 2017

Lavoratori dipendenti: bonus di 80 euro in busta paga


Sale di 600 euro il tetto di reddito annuo per i beneficiari del bonus Irpef di 80 euro al mese. Dal 2018 il beneficio pieno andrà ai redditi fino a 24.600 euro, quello parziale a quelli compresi fra questa somma e 26.600 euro. Con l’aumento disposto dalla legge di Bilancio verrà tra l’altro garantito agli statali il previsto aumento di 85 euro lordi con il rinnovo dei contratti senza che una parte dei lavoratori perda il bonus da 80 euro per il superamento dei tetti di reddito.

Nuove le soglie di reddito, che passano rispettivamente da 24 mila a 24.600 e da 26 mila a 26.600. In questo modo sarebbero salvi gli 80 euro anche per i dipendenti pubblici alla luce degli aumenti degli stipendi statali. Nessuna novità, invece, per chi ha uno stipendio basso, sotto gli 8mila euro annui: per questi lavoratori il diritto al bonus Renzi non c’è e non ci sarà, considerando che la detrazione per reddito da lavoro dipendente, sotto questa soglia di reddito, supera l’Irpef.


BENEFICIARI – A partire dal prossimo 1° gennaio 2018 potranno beneficiare del bonus:

in misura piena, i lavoratori dipendenti del settore pubblico e privato con redditi fino a 24.600 euro;
in misura parziale e proporzionata al proprio reddito i lavoratori dipendenti statali e privati fino a 26.600.

REGOLE E COSA CAMBIA – I requisiti di reddito specificati nel D.L. 66/2014 e in vigore attualmente sono i seguenti:

reddito inferiore a 8 mila euro: 0 euro;

reddito compreso tra 8 euro e 24 mila euro: 960 euro all’anno di bonus;

reddito tra i 24 mila e i 26 mila euro: 26.000 – reddito complessivo/2000 x 960.

A partire dal prossimo anno, la Legge di Bilancio 2018 cambia gli ultimi due punti e i requisiti di reddito potrebbero essere i seguenti:

reddito compreso tra 8 mila euro e 24.600 euro: 960 euro all’anno di bonus;
reddito tra i 24.600 e i 26.600 euro: 26.600 – reddito complessivo/2000 x 960.

A CHI NON SPETTA – Nel caso in cui in sede di dichiarazione dei redditi i lavoratori dipendenti statali e del settore privato dovessero superare le soglie di reddito previsto la legge prevede la restituzione completa del bonus Renzi di 80 euro. Stesse regole anche per chi non supera il reddito di 8 mila euro e quindi non è titolare del diritto a beneficiare del credito Irpef in busta paga.

Aumento soglia di reddito bonus 80 euro 2018: per effetto della nuova legge di bilancio 2018, a partire dal 1° gennaio 2018, aumenta la soglia di reddito per accedere al bonus 80 euro di Renzi. Tale aumento, infatti, si è reso necessario per non sterilizzare l'aumento di stipendio dei dipendenti coinvolti dal rinnovo dei contratti statali, bloccati da più di 7 anni.

Con il rinnovo del contratto statale, infatti, la ministra Madia e i sindacati, hanno concordato per i dipendenti pubblici, un aumento di stipendio proporzionale in base al reddito del lavoratore e fino ad un massimo di 85 euro.
Un aumento questo, che sin da subito ha mostrato qualche lacuna, una tra tutte, il fatto che avrebbe potuto azzerare il bonus 80 euro a causa dell'aumento del reddito del dipendente ed il conseguente superamento della soglia reddituale.

Tale aumento di soglia di reddito, non sarà a beneficio solo del bonus 80 euro 2018 dipendenti pubblici ma tutti lavoratori e porterà dunque ad un allargamento della platea dei beneficiari.




mercoledì 25 ottobre 2017

Stress da lavoro correlato: valutazione dei rischi



A partire dal gennaio 2011 è obbligatorio per le aziende italiane effettuare la valutazione dello stress da lavoro correlato. Esiste un obbligo di valutazione dei rischi da stress da lavoro correlato sancito dal Testo Unico in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

La valutazione dei rischi stress lavoro-correlato deve essere effettuata dal datore di lavoro, che non può delegare l’adempimento neanche ad un soggetto in possesso di specifiche competenze in materia.

Prima di entrare nel dettaglio della valutazione del rischio stress da lavoro correlato, richiamiamo alcune definizioni per meglio comprendere l’argomento.

Lo stress da lavoro può essere definito quale condizione che può essere accompagnata da disturbi o disfunzioni di natura fisica, psicologica o sociale e può essere una conseguenza del fatto che dei lavoratori non si sentono in grado di corrispondere alle richieste o aspettative riposte in loro. In termini generici quindi è importante sottolineare come lo Stress non sia di per se una malattia, bensì una condizione innescata nell'organismo umano da parte di una fonte o sollecitazione esterna che comporta una serie di adattamenti che, se protratti nel tempo, possono assumere carattere di patologia.

Quando può esserci squilibrio?
Diciamo che si può verificare quando il lavoratore non si sente in grado di corrispondere alle richieste lavorative. Tuttavia non tutte le manifestazioni di stress da lavoro possono essere considerate come stress lavoro-correlato. Lo stress lavoro-correlato è quello causato in modo particolare da vari fattori propri del contesto e del contenuto del lavoro.

Le caratteristiche dello stress da lavoro possono riassumersi in due aspetti. Uno quello che si riferisce al ambiente lavorativo ossia scarsa comunicazione, mancanza di definizione di obiettivi, conflitti di ruolo, insicurezza dell’impiego, partecipazione ridotta al processo decisionale; mentre il secondo aspetto è quello che si riferisce al contenuto del lavoro ossia problemi di affidabilità, disponibilità o idoneità, carico di lavoro eccesivo o ridotto, carenza di ritmo sul lavoro, orari di lavoro poco flessibili e incapacità di creare reali turni di lavoro.

Il datore di lavoro è tenuto ad effettuare la valutazione del rischio, avvalendosi del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP), con il coinvolgimento del medico competente, ove nominato, affiancato preferibilmente da uno psicologo del lavoro e previa consultazione del Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS/RLST). La valutazione si articola in due fasi: una necessaria e l’altra eventuale, da attivare nel caso in cui, nel corso della prima fase, si siano individuati elementi di rischio.

Importante sottolineare e distinguere il concetto di Stress da Lavoro Correlato, da quello di Mobbing  inteso come una persecuzione sistematica messa in atto da una o più persone allo scopo di danneggiare chi ne è vittima fino alla perdita del lavoro. Se dunque i possibili rischi soprattutto a livello psicologico, evidenziati dagli indicatori sintomatici possono risultare analoghi, nello Stress manca la componente di intenzionalità che è invece presente nel mobbing.

Si chiama stress da lavoro correlato ed è una delle più comuni cause di malattia professionale tra i lavoratori, un “rischio psicosociale” assieme a sindrome da burnout e a forme estreme di mobbing e violenza sul lavoro. I rischi psicosociali sono definiti quali aspetti di organizzazione e gestione del lavoro che possono arrecare danni fisici o psicologici.

La sindrome da burnout rappresenta una vera e propria forma di esaurimento o logorio derivante dalla natura di alcune mansioni professionali. Più precisamente si tratta di una esperienza soggettiva di cattivo rapporto con il lavoro, che viene vissuta generalmente in una fase successiva ad uno stato di tradizionale stress lavorativo e con una forma grave che ha delle sue caratteristiche specifiche e delle conseguenze negative in termini di salute, di produttività e di soddisfazione lavorativa. Ove l’esito patologico colpisce le persone che esercitano professioni d’aiuto, qualora queste non rispondano in maniera adeguata ai carichi eccessivi di stress che il loro lavoro li porta ad assumere. Questo fenomeno quindi, conosciuto già dagli anni ’70, è il risultato patologico di una componente di fattori di stress e di reazioni soggettive che colpisce solo quelle professioni rivolte ad aiutare altre persone (medici, infermieri, avvocati, sacerdoti…) e che porta il soggetto a “bruciarsi” attraverso un meccanismo di eccessiva immedesimazione nei confronti degli individui oggetto della attività professionale, facendosi carico in prima persona dei loro problemi e non riuscendo quindi più a discernere tra la loro vita e quella propria.


lunedì 23 ottobre 2017

Benessere aziendale, cosa si intende?



Il benessere aziendale può essere definito come un pacchetto di servizi, beni e opere che l'azienda mette a disposizione dei propri dipendenti e dei loro familiari. Si tratta certamente di uno dei temi caldi del momento nel settore lavoro. Andiamo quindi a vedere di cosa si tratta.

Si definisce Welfare Aziendale l’insieme delle iniziative volte ad incrementare il benessere del lavoratore e della sua famiglia. Questo nuovo sistema di retribuzione sta diventando sempre più punto fondamentale di ogni realtà lavorativa, indipendentemente dal settore di riferimento.  Il bisogno di  Welfare si può dunque definire universale: un piano ben strutturato è in grado di soddisfare i bisogni e le esigenze dei lavoratori.

Sapere cos’è il Welfare è solo il primo passo per comprendere pienamente i vantaggi che derivano dall’attivazione di un piano, i benefici sono molteplici e bilaterali.  Il Welfare Aziendale  consente di introdurre un sistema di servizi a sostegno del collaboratore, con vantaggi fiscali per l’azienda e il dipendente.

Quali sono i vantaggi? Andiamo ad analizzarli nel dettaglio

Aumento del potere d’acquisto:

Contributi aziendali, sconti, promozioni, convenzioni per accedere a beni e servizi con condizioni esclusive

Incremento della produttività aziendale

Il miglioramento del clima aziendale porterà alla diminuzione del turnover e dell’assenteismo

Risparmio sul costo del personale

Ottimizzazione del vantaggio fiscale, servizi in ottemperanza alla norma vigente del TUIR art.51 – art.100

Miglioramento del clima all’interno dell’azienda

Aumento considerevole del benessere del lavoratore

Miglior conciliazione tra vita privata e professionale

Cominciamo col dire che non esiste una normativa uniforme ed organica in materia di Welfare aziendale. Pertanto tutto ciò che viene riconosciuto dal datore di lavoro e che è volto al miglioramento della qualità della vita dei lavoratori rientra nel concetto di Welfare aziendale. Il Welfare aziendale infatti altro non è che il sistema che garantisce il benessere dei dipendenti.

Il Welfare viene già da tempo, riconosciuto, almeno in parte, dai contratti collettivi nazionali di lavoro. Sono molteplici ad esempio, i CCNL che prevedono  dei versamenti obbligatori da parte del datore di lavoro, nell'ambito dell'assistenza sanitaria integrativa. Ma anche nell'ambito della previdenza complementare: quasi la totalità dei CCNL prevede che nel caso in cui il lavoratore decida di destinare il proprio TFR ai fondi di previdenza il datore di lavoro debba effettuare il versamento di un ulteriore contributo al fondo.

Rientra sempre nel concetto di Welfare anche lo Smart Working di recente istituzione. Previsto dalla l. n. 81/2017 e definito “lavoro agile”, lo Smart Working già di uso comune in molti paesi, si affaccia nel nostro ordinamento come una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato che certamente può ampiamente facilitare la conciliazione vita-lavoro.


Tuttavia il luogo dove il Welfare può trovare la propria massima applicazione è quello aziendale: le singole imprese sono infatti i soggetti che meglio possono individuare i bisogni dei dipendenti. Per scendere al livello pratico, di seguito vengono illustrate le fasi per l'istituzione del Welfare in azienda.

Analisi dei bisogni dei dipendenti
Il primo passo per attuare il Welfare in azienda sarà pertanto quello di effettuare un'indagine circa le misure più utili ai dipendenti. Qualora esse non fossero già conosciute dall'Ufficio del personale, pensiamo ad esempio alle aziende di notevoli dimensioni, si potrà procedere con la consegna di un questionario in forma anonima ai dipendenti che dovranno restituirlo compilato. Il questionario può essere articolato attraverso domande a risposta multipla e può lasciare spazio anche a suggerimenti da parte dei lavoratori

Analisi di fattibilità
L'azienda passa al vaglio le preferenze espresse dai dipendenti e individua le misure in concreto attuabili. Oggetto delle analisi aziendali saranno quindi sia l'organizzazione in concreto di tali misure che , e soprattutto, il budget da predisporre a tal fine. A questo punto l'azienda può procedere con l'elaborazione concreta del Welfare aziendale.

L'istituzione del Welfare può seguire due strade: l'accordo collettivo di secondo livello oppure il regolamento aziendale.

La stipula di un accordo sindacale aziendale è certamente la scelta più vantaggiosa per quelle aziende in cui esiste già un consolidato sistema di relazioni sindacali. Il Welfare può infatti rivelarsi come uno dei migliori strumenti per migliorare i rapporti con i sindacati.

In alternativa è sempre possibile procedere con la stesura di un regolamento aziendale. In questo caso la fonte del Welfare non avrà natura negoziale ma costituirà un atto unilaterale del datore di lavoro. Nell'elaborazione del Welfare si dovrà sempre fare attenzione a riconoscere misure omogenee per la totalità o per categorie di dipendenti individuabili attraverso criteri oggettivi. È infatti fondamentale non trasformare il Welfare in bonus ad personam. Conclusa la fase di elaborazione del piano, i dipendenti potranno iniziare a godere delle misure offerte dall'azienda. Una delle modalità più semplici è l'utilizzo delle piattaforme online, alle quali i dipendenti accedono avendo a disposizione una certa somma da "spendere".

Welfare aziendale: il nuovo incentivo
Come noto le misure di welfare, come anche i premi di produttività,  sono stati oggetto di agevolazioni fiscali , rafforzate notevolmente dalle leggi di stabilità 2016 e  2017 e rientrano anche in  un nuovo provvedimento.

È attualmente  in attesa di registrazione dalla Corte dei Conti il decreto interministeriale  che prevede l'istituzione di particolari agevolazioni nel caso la contrattazione aziendale preveda  misure di Welfare aziendale , volte  alla migliore conciliazione tra vita professionale e vita privata dei lavoratori. L'agevolazione consiste in un sgravio il cui ammontare verrà determinato in base alla disponibilità delle risorse ma non potrà essere superiore al 5% della retribuzione imponibile ai fini previdenziali dichiarata nell'anno.

Condizione essenziale per accedere allo sgravio è quella di aver depositato il contratto collettivo aziendale presso l'Ispettorato territoriale del lavoro.

L'accordo aziendale deve prevedere delle misure rientranti nelle seguenti aree di intervento:

Area di intervento genitorialità;

Area di intervento flessibilità organizzativa (smart working);

Welfare aziendale.

Il contratto collettivo aziendale deve riguardare almeno il 70% dei lavoratori occupati. Il termine di presentazione della domanda per il 2017 è al momento fissata al 15 novembre 2017 per i contratti depositati entro il 31 ottobre. Per la piena operatività si attendono tuttavia la pubblicazione in Gazzetta del decreto e le istruzioni operative da parte dell'INPS.

Confermate anche per il 2017 le agevolazioni fiscali per i premi di produttività e per le somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili dell’impresa.

Cosa è cambiato nel 2017. Sono stati elevati i limiti reddituali di accesso con conseguente ampliamento della platea dei lavoratori beneficiari. In particolare, si prevede un innalzamento, da 50.000 a 80.000 euro, del tetto massimo di reddito di lavoro dipendente, relativo al periodo d’imposta precedente, che consente l’accesso alla tassazione agevolata.

Gli importi dei premi erogabili aumentano da 2.000 a 3.000 euro nella generalità dei casi e da 2.500 a 4.000 per le aziende che coinvolgono pariteticamente i lavoratori nell’organizzazione del lavoro.

In tema di welfare aziendale, le agevolazioni si applicano anche nel caso di erogazione dei benefits sulla base delle previsioni dei contratti collettivi nazionali di lavoro, degli accordi interconfederali o di contratti collettivi territoriali.



venerdì 20 ottobre 2017

APe sociale e volontaria domande e requisiti



L'Ape Sociale è un’indennità garantita dallo Stato ed erogata dall’INPS ai lavoratori in stato di bisogno che chiedano di andare in pensione in anticipata. Ricordiamo innanzitutto le regole di base dell’anticipo pensionistico APE: lo possono utilizzare dipendenti pubblici e privati e lavoratori autonomi con 63 anni di età a cui mancano tre anni e sette mesi per il raggiungimento della pensione di vecchiaia, con almeno 20 anni di contributi.

L’APe volontaria è utilizzabile da tutte le categorie di lavoratori con 63 anni di età, 20 anni di contributi, al massimo 3 anni e sette mesi alla pensione di vecchiaia, e con un assegno pari ad almeno 1,4 volte il minimo, mentre l’APe sociale è riservato a quattro specifiche tipologie di lavoratori, ovvero:

disoccupati per licenziamento, dimissioni per giusta causa, o procedure di conciliazione ex legge 604/1996 (articolo 7), che abbiamo terminato il sussidio spettante da almeno tre mesi;

caregiver che assistono da almeno sei mesi coniuge, partner in unione civile, o parente di primo grado convivente con handicap grave;

lavoratore disabile almeno al 74%;

addetto a mansioni usuranti.

Come è noto, la fondamentale differenza fra i due trattamenti è che l’APe volontaria è un anticipo pensionistico, finanziato dal sistema bancario, che poi viene restituito con al pensione (pagando rate per 20anni), mentre l’APe sociale è un’indennità pagata interamente dallo Stato. Altro punto importante da sottolineare: l’APe volontario è compatibile con il proseguimento dell‘attività lavorativa, mentre per l’accesso all’Ape sociale bisogna interrompere l’attività lavorativa. E’ possibile sommare solo redditi da lavoro dipendente fino a 8mila euro annui, o da lavoro autonomo fino a 4mila 800 euro annui.

Per quanto riguarda l’APe sociale, sono 25mila 895 le domande rigettate (il 64,89%) e 13mila 601 quelle accolte.

Per quanto riguarda la pensione precoci le domande respinte sono state 18mila 411 domande, ossia ben il 70,13% delle 26mila 251 presentate.

Dunque, anche se venissero riammesse tutte le domande su cui è ripresa l’istruttoria, continuerebbero a essere ampiamente maggioritarie le richieste da parte di lavoratori ai quali in realtà non è stato certificato il requisito.

Questo significa due cose:

tutti coloro che hanno presentato domanda entro il 15 luglio e hanno avuto al certificazione dei requisiti accedono all’APe sociale nel 2017, non si pone il problema dell’esaurimento delle risorse disponibili che avrebbe provocato uno slittamento al 2018;

l’INPS prenderà in considerazione anche le domande presentate dopo il 15 luglio 2017, perché la norma prevede la possibilità di esaminare queste richieste nel caso in cui quelle arrivate nei tempi previsti non esauriscano le risorse. Attenzione: la scadenza non è lontanissima, è il 30 novembre.
Mentre il requisito dei tre anni e sette mesi dalla pensione di vecchiaia, necessario per avere diritto all’APe Volontaria, si riferisce al solo momento in cui viene presentata la domanda: gli eventuali adeguamenti alle aspettative di vita su scelta iniziale del lavoratore possono estendere la durata del prestito con ricalcolo del trattamento e relativa rata di ammortamento.

I requisiti fondamentali per ottenere l’APe volontaria sono 63 anni di età, 20 anni di contributi, una assegno maturato nel momento in cui si richiede l’anticipo pensionistico pari ad almeno 1,4 volte il minimo, e al massimo tre anni e sette mesi dalla pensione di vecchiaia. La legge ha chiarito che il requisito anagrafico che consente la maturazione del  diritto alla pensione di vecchiaia entro 3 anni e 7 mesi dalla data di domanda di APE tiene conto dell’adeguamento agli incrementi della speranza di vita dei requisiti di accesso al sistema pensionistico.

Significa che nel momento in cui si chiede l’accesso all’APe non possono mancare più di tre anni e sette mesi all’età per la pensione e si tiene conto degli adeguamenti alle aspettative di vita scattati fino al momento in cui si chiede l’APe, ma (par di capire) non di quelli che eventualmente sono previsti in periodi successivi. Esempio: richiesta di APe volontaria nel novembre 2017. I tre anni e sette mesi si calcolano in base al requisito per la pensione di vecchiaia relativo al 2017, quindi:

65 anni e sette mesi per le lavoratrici dipendenti;

66 anni e 1 mese per le lavoratrici autonome;

66 anni e sette mesi per i lavoratori dipendenti e autonomi.

In pratica, tutti coloro che hanno 63 anni soddisfano il requisito. Nei prossimi anni, però scatteranno innalzamenti dell’età pensionabile e adeguamenti alle aspettative di vita.

Il lavoratore che chiede l’APe volontaria può scegliere, nel momento in cui presenta la domanda, come comportarsi in relazione ai futuri scatti di adeguamento alle aspettative di vita. Se decide di rideterminare il beneficio, aggiungendo quindi i mesi in più che sono scattati, l’INPS farà i relativi calcoli, basandosi sugli accordi quadro con banche e assicurazioni che regolamentano la concessione del finanziamento e dell’assicurazione sul prestito. Si tratta degli accordi che vanno siglati entro 30 giorni dal decreto attuativo appena entrato in vigore: quello con le banche determina le regole di concessione del prestito, l’APe viene versato al lavoratore dall’INPS, ma è finanziato dalle banche.

Attenzione: il finanziamento supplementare è già incluso nelle valutazioni svolte dalla banca dopo la domanda di APe ai fini dell’accertamento delle cause di mancata accettazione della proposta di finanziamento e di conseguenza è previsto originariamente nel contratto di finanziamento, senza alcuna successiva verifica da parte dell’istituto finanziatore al momento dell’adeguamento.

Per quanto riguarda il lavoratore, la regola comporta che nel momento in cui scatta l’innalzamento delle aspettative di vita, si allunga il periodo di APe volontaria, e si ricalcola di conseguenza l’importo del beneficio, e quello delle rate ventennali di restituzione (che come è noto saranno applicate sulla pensione vera e propria).

Nell’ipotesi in cui invece il lavoratore, nel momento in cui chiede l’APE, dichiara di non voler il finanziamento supplementare in caso di innalzamento delle aspettative di vita, non è ancora chiaro cosa accadrà.

Ricordiamo che l’APe volontaria non è ancora operativa, perché mancano i provvedimenti di prassi e gli accordi quadro con banche e assicurazioni, previsti entro 30 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.


Riscatto della laurea ai fini pensionistici



Il riscatto della Laurea, ossia dei periodi di studi universitari, influisce sull'anzianità (nel senso che detti periodi vengono computati) e conseguentemente sul trattamento di fine rapporto,  cioè il versamento dei contributi per gli anni passati all'Università in modo da avvicinare il momento della pensione. L’idea è rendere flessibile anche il riscatto: potendo scegliere non solo il numero degli anni da recuperare, cosa possibile già oggi.

Chi oggi è vicino dalla pensione e chiede il riscatto della laurea di solito si vede presentare un conto parecchio salato. E questo perché il calcolo viene fatto sulla base del suo stipendio attuale che, a fine carriera, tende a essere più alto. Chi chiede il conteggio, quindi, spesso rinuncia all'operazione e resta al lavoro fino alla scadenza naturale. Rendere flessibile il riscatto significa slegare la somma da pagare dallo stipendio attuale, considerarla un versamento volontario di contributi.

Il riscatto della laurea ai fini pensionistici può essere chiesto da tutti i lavoratori iscritti alle gestioni INPS che abbiano già conseguito il titolo di studio e non siano già coperti da contribuzione nel periodo di frequentazione dell’università. Si possono riscattare solo gli anni previsti dalla durata ordinaria del corso di laurea, se lo studente è andato fuori corso non potrà riscattare gli anni in più che ci ha impiegato per laurearsi. La frequentazione dell’università deve essere successiva al 31 marzo 1996. Il riscatto della laurea può essere chiesto anche da chi è già titolare di pensione. Naturalmente, se lo si chiede per anticipare la pensione di vecchiaia, l’operazione andrà fatta prima dell’età pensionabile perché gli anni siano poi conteggiabili ai fini della maturazione della pensione. Possono chiedere il riscatto dalla laurea anche i soggetti inoccupati.

Una regola fondamentale consiste nel fatto che i periodi di cui si chiede il riscatto non devono già essere coperti da contribuzione. Nel caso in cui, durante il corso di studi, ci sia stato un periodo limitato di lavoro durante il corso, ad esempio un impiego part-time, potrà essere chiesto il riscatto della laurea al netto dei periodi già coperti da contribuzione. Sono ammessi al riscatto tutti i titoli di laurea (vecchio ordinamento, laurea triennale, laurea magistrale, diplomi di specializzazione post-laurea, Accademia delle Arti e Conservatorio, dottorati di ricerca. Non sono inclusi, invece, i master universitari.

Il riscatto della laurea è un’operazione onerosa, il cui costo dipende da diversi fattori: collocazione cronologica del periodo di studio (prima o dopo il 1995, e prima e dopo il 2011), e sistema di calcolo della pensione (contributivo o retributivo).

Se il periodo di riscatto è valutato con metodo retributivo, il calcolo si effettua in base al principio della riserva matematica. In sintesi, si calcolano due diverse pensioni: quella senza riscatto, e quella che conteggia anche gli anni del corso di studi. La nuova pensione tiene conto di un beneficio corrispondente all’aumento delle settimane in quota A (media rivalutata degli ultimi 5 anni di contribuzione prima del pensionamento).

Il beneficio pensionistico va a questo punto moltiplicato per un coefficiente attuariale legato a età, sesso e stato lavorativo del richiedente. Esempio: beneficio (calcolato in base allo schema sopra indicato) pari a 15mila 600 lordi annui. Coefficiente di un lavoratore di 63 anni pensionato pari a 16,68. Onere spettante: 260mila 200 euro.

Se invece il periodo di riscatto è valutato con il contributivo, il calcolo si effettua con il sistema a percentuale, che consiste nell’applicazione dell’aliquota contributiva in vigore al momento della domanda sull’imponibile previdenziale dello ultime 52 settimane. In pratica, si calcolano gli ultimi 12 mesi di contribuzione obbligatoria precedenti alla domanda di riscatto, si applica l’aliquota vigente (ad esempio, il 33% per l’Assicurazione generale obbligatoria), si calcola l’adeguamento per il periodo oggetto di riscatto.

Esempio: retribuzione imponibile ultimi 12 mesi 40mila euro. Costo onere annuale 13mila 200 euro, per quattro anni di studi 52mila 800 euro.

Esiste infine uno specifico metodo di calcolo per gli inoccupati, che è analogo a quello che si effettua per chi ha la pensione contributiva (quindi, su base percentuale) prendendo come riferimento il minimale reddituale della Gestione Commercianti per l’anno della domanda di riscatto. Per esempio, il minimale 2017 è pari a 15.548, quindi l’onere di riscatto è di 5mila 130,84 euro per ogni anno.

Altro esempio, un laureato di 32 anni, impiegato, che guadagna circa 25.000 euro l’anno (non è un miraggio, si può fare). Quanto dovrebbe pagare ogni anno per riscattare la laurea per la pensione? Circa 8.300 euro l’anno. Moltiplicato per 5 anni (triennale più magistrale) arriviamo ai 41.200 euro in totale. Ci vorrebbe un mutuo. Ma sarebbe peggio se aspettasse ad avere quasi l’età pensionabile: il costo raddoppierebbe. Gli converrebbe lavorare 5 anni in più e dimenticarsi del riscatto. Come si vede, il riscatto della laurea è un’operazione piuttosto costosa. per cui è sempre opportuno fare bene tutti i calcoli sulla convenienza (in relazione al fatto che poi aumenta la pensione, piuttosto che si aggancia prima l’età pensionabile).

Possono essere riscattati solo i periodi corrispondenti alla durata legale del corso di laurea (o una sua parte), compresi i dottorati di ricerca, i diplomi di specializzazione post laurea ed i titoli di studio equiparati a seguito dei quali sia stata conseguita la laurea o i diplomi previsti dall’articolo 1, della legge 341/1990. Possono essere riscattati anche i titoli conseguiti all’estero, se hanno valore legale in Italia.

Non possono invece essere riscattati:

i periodi di iscrizione fuori corso;

i periodi già coperti da contribuzione obbligatoria o figurativa o da riscatto;

le borse di studio concesse dalle Università per la frequenza ai corsi di dottorato di ricerca;

gli assegni concessi da alcune scuole di specializzazione



lunedì 2 ottobre 2017

Sgravio contributivo cooperative: solo ai nuovi soci



Per potere la società cooperativa di lavoro fruire dello sgravio contributivo previsto dalla legge 448 1998, il lavoratore neoassunto deve essere anche un nuovo socio. Questo quanto stabilito dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 20739 del 4 settembre 2017.

La cooperativa in questione aveva  fruito degli sgravi contributivi totali , ex art. 3, comma 5, I. n. 448/1998, per l'assunzione di 3 lavoratrici    con contratto di lavoro subordinato a far data dal 2001, Tali lavoratrici però  figuravano quali socie della cooperativa fin dal giugno 1998. La corte di appello ha giudicato insussistente il diritto della cooperativa a fruire  dell'agevolazione  in quanto la norma  prevede , testualmente che si applichi  "alle società cooperative di lavoro, relativamente ai nuovi soci lavoratori con i quali venga instaurato un rapporto di lavoro assimilabile a quello di lavoratori dipendenti».

L’azienda ha presentato ricorso per Cassazione ma anche i giudici di legittimità  hanno rigettato il ricorso, affermando che l'art. 3, comma 5, della L. n. 448 del 1998, deve interpretarsi nel senso che, per potere la società cooperativa di lavoro fruire dello sgravio in questione, il lavoratore neoassunto deve essere anche un nuovo socio, essendo l'aggettivo «nuovi» riferito tanto ai soci quanto ai lavoratori e non potendo attribuirsi alla disposizione altro senso che quello «fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse».

Le Cooperative sociali per l'inserimento di persone svantaggiate svolgono attività finalizzate all'inserimento lavorativo di:

invalidi fisici, psichici e sensoriali

ex degenti di istituti psichiatrici (anche giudiziari)

soggetti in trattamento psichiatrico

tossicodipendenti

alcoolisti

minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare

persone detenute o internate negli istituti penitenziari

condannati e internati ammessi alle misure alternative alla detenzione e al lavoro esterno

Le persone svantaggiate devono costituire almeno il 30% dei lavoratori della cooperativa e, compatibilmente con il loro stato soggettivo, essere socie della cooperativa stessa.

Per le cooperative rispondenti ai requisiti sopra esposti è prevista una serie di agevolazioni contributive: le retribuzioni corrisposte alle persone svantaggiate godono della totale esenzione dal pagamento dei contributi previdenziali.

Le citate agevolazioni contributive non valgono per:

le persone detenute o internate negli istituti penitenziari

gli ex degenti di ospedali psichiatrici giudiziari

per le persone condannate e internate ammesse al lavoro esterno

Le aliquote contributive da applicare nei confronti di tali soggetti, infatti, sono ridotte nella misura percentuale individuata ogni due anni con DM. Gli sgravi contributivi spettano anche per i 6 mesi successivi alla cessazione dello stato di detenzione;

La condizione di persona svantaggiata deve risultare da documentazione proveniente dalla PA, fatto salvo il diritto alla riservatezza.

La percentuale del 30% deve essere calcolata in relazione al numero complessivo dei lavoratori, sia soci che dipendenti della cooperativa, con esclusione dei soci volontari. Le persone svantaggiate non concorrono alla determinazione del numero complessivo dei lavoratori cui si deve fare riferimento per la determinazione dell'aliquota.

Per la valutazione del rispetto della percentuale del 30% può essere preso a riferimento un "arco temporale»" non superiore a 12 mesi nel caso in cui, a fronte di determinati eventi di carattere produttivo, la percentuale stessa non sia stata mantenuta costantemente.

I lavoratori svantaggiati possono essere assunti con contratto di lavoro part-time al fine di consentire la fruizione di cure e terapie riabilitative.


Visite mediche fiscali: chiarimenti INPS, come accreditarsi



L'INPS ha pubblicato il messaggio n. 3685 2017 con cui chiarisce le modalità di richiesta, da parte di Pubbliche amministrazioni, delle credenziali per l’accesso al servizio on line di richiesta visita medica di controllo, modificate a seguito dell'accorpamento sull'istituto di previdenza del servizio di visite di controllo della malattia di tutti i lavoratori pubblici e privati.

Nuove modalità di richiesta di accreditamento dei datori di lavoro pubblici al Polo Unico delle visite mediche fiscali, che si aggiungono a quelle precedentemente comunicate dall’Ente di previdenza, e chiarimenti sulla corretta compilazione della modulistica. Nel nuovo messaggio l’INPS introduce novità procedurali con l’obiettivo di semplificare le operazioni per disporre le visite fiscali ai dipendenti in malattia – su richiesta dei datori di lavoro pubblici e privati o d’ufficio. - dopo che dallo scorso primo settembre è ufficialmente entrata in vigore la Riforma che introduce il Polo Unico delle Visite Fiscali, interamente gestito dall'istituto di previdenza tanto per le aziende private quanto per quelle pubbliche.

Per legge si dispone che, in caso di datore di lavoro pubblico, il modulo di richiesta delle credenziali debba essere compilato e sottoscritto dal legale rappresentante dell'ente. Alla luce delle novità normative l'Inps chiarisce che tali indicazioni, vanno lette nel senso per cui titolato ad autorizzare la richiesta di abilitazione in favore dei funzionari individuati è il legale rappresentante, un suo delegato, e anche i soggetti da questi ultimi espressamente incaricati.

Per semplificare le modalità di abilitazione, la modulistica di richiesta, da parte delle aziende private e pubbliche, è stata unificata in due nuovi moduli, SC65 e SC62, il modello SC65 deve essere utilizzato per la richiesta di abilitazione del datore di lavoro, mentre il modello SC62 deve essere utilizzato per la richiesta di abilitazione presentata direttamente dal dipendente individuato per l’accesso al servizio. In tale ultimo caso, il modulo prevede sia la firma del dipendente, che del datore di lavoro (legale rappresentante dell'ente o soggetto da questi delegato o soggetto incaricato) per autorizzazione.

Il secondo passaggio è l’invio del modulo alla sede competente dell’INPS via PEC (posta elettronica certificata), allegando copia del documento di riconoscimento del sottoscrittore, ed eventuale delega o incarico da parte del legale rappresentante. A questo punto l’INPS attiva il PIN e invia la relativa comunicazione, sempre via PEC, all’ente richiedente invitandolo a ritirare il codice. Il ritiro potrà essere effettuato da un soggetto incaricato dal legale rappresentante. L’operatore INPS, al momento del ritiro, verifica che l’incaricato sia munito di apposita delega al ritiro del PIN e fa sottoscrivere allo stesso una ricevuta di consegna dei PIN ritirati.

Nel caso in cui la pubblica amministrazione che richiede l’abilitazione al sistema Polo unico visite fiscali abbia già il PIN, l’invio dei moduli via PEC è sufficiente per l’abilitazione, ed eventualmente anche per la conversione del PIN  ordinario in dispositivo, senza necessità di ritiro presso la sede INPS. Importante: le comunicazione devono necessariamente essere inviate attraverso gli indirizzi PEC dell’amministrazione richiedente.

La stessa procedura può essere utilizzata anche per la richiesta di accedere al servizio online di visualizzazione degli attestati di malattia.

Si fa presente che con riferimento sia ai chiarimenti sui soggetti titolati a sottoscrivere le richieste di PIN e abilitazioni, sia alle modalità di trasmissione delle richieste e ritiro dei PIN, è valido anche per la richiesta di abilitazione delle PPAA ai servizi on line di visualizzazione degli attestati di malattia, di cui alla circolare n. 60 del 16 aprile 2010.

Ricordiamo che il Polo Unico per le visite fiscali è stato previsto dal dlgs 75/2017, attuativo della Riforma della PA, e di fatto attribuisce all’INPS anche la competenza per gli accertamenti e le pratiche relative alla malattia dei dipendenti della pubblica amministrazione (prima se ne occupavano le Asl), del tutto parificate ai datori di lavoro privati.

Resta ancora da attuare la disposizione sull’unificazione fra pubblico e privato delle fasce orarie di reperibilità. Al momento, per il settore pubblico le fasce orarie vanno dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 18, mentre per il privato dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19.




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