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lunedì 22 ottobre 2018

Utilizzando Whatsapp in modo in proprio si può perdere il posto di lavoro



Attenzione agli sfoghi su Whatsapp: possono costarti il posto di lavoro. Magari si parla male del capo, proprio durante l’orario di lavoro, pensando che niente e nessuno potrà venirne a conoscenza. Invece, sempre di più sono i giudici che sentenziano contro le conversazioni tra privati. Che possono sfociare in licenziamenti o comunque in sanzioni disciplinari. Ricordate che tutto ciò che si fa con le nuove tecnologie non è privato. I giudici stanno infatti allargando le maglie dell’utilizzo in giudizio delle conversazioni fra privati. E ad entrare sempre più nei processi sono proprio gli scambi di messaggi su Whatsapp, tra gruppi o con singoli destinatari: tutti possono dar luogo a licenziamenti o sanzioni disciplinari.

Ma i messaggi possono essere utilizzati anche dal lavoratore per dimostrare l’esistenza di un’attività di tipo subordinato o la comunicazione dell’assenza per malattia.

I messaggi Whatsapp sono prove documentali che possono essere prodotte anche quando il datore di lavoro non è tra i destinatari della chat. Ha quindi valore giudiziario la registrazione di una chat Whatsapp inviata da un dirigente alla moglie dell’amministratore unico che denota un atteggiamento ostile verso l’azienda e giustifica il licenziamento. (Tribunale di Fermo, decreto 1973 del 2017). Ed è legittima anche la produzione delle chat inviate da un medico del pronto soccorso ai colleghi. Se qualcuno fa la “spia” e recapita i contenuti al dirigente, questi possono essere utilizzati per legittimare la sanzione disciplinare (Tribunale di Vicenza, sentenza del 14 dicembre 2017 n. 778).

I giudici hanno inoltre ritenuto legittima l’esclusione da parte di una cooperativa e, di conseguenza, il licenziamento disciplinare di un socio lavoratore che, in una chat su Whatsapp, aveva tentato di boicottare l’attività produttiva, fomentando forme di protesta anche da parte degli altri soci (Tribunale di Bergamo sentenza del 7 giugno 2018 n. 424).

Ma il Tribunale di Roma (sentenza n. 3478 del 4 maggio scorso) ha ritenuto illegittimo il licenziamento irrogato alla lavoratrice colpevole di aver usato un tono di sfida nel file vocale inviato nella chat di gruppo su Whatsapp della quale faceva parte anche il proprio superiore. Per il giudice contano le parole usate e non le intenzioni, ed è proprio la trascrizione del file vocale a salvare la lavoratrice, acquisita in giudizio come prova documentale.

Nel bene e nel male le chat assumono quindi un valore dirimente e, in genere, il diritto di difesa prevale sulla riservatezza altrui. Così i messaggi Whatsapp possono fornire la prova dell’esistenza di un rapporto di lavoro, ma per ottenere le differenze retributive occorre che dal tenore degli stessi emergano elementi precisi e concordanti (Tribunale di Milano, sentenza del 27 aprile 2018 n.1148). I messaggi Whatsapp inchiodano il datore anche ai vincoli della subordinazione quando siano comprovati «gli ordini e le direttive anche sull'orario di lavoro» (Tribunale di Vercelli, sentenza n. 110 del 31 luglio 2017).

La questione della producibilità in giudizio delle conversazioni private è molto delicata. Da un lato va valutato il diritto di difesa della parte che pretende di far entrare quella prova nel processo, dall’altra il diritto alla riservatezza degli utenti. L’articolo 616 del Codice penale protegge l’inviolabilità della corrispondenza e ne punisce la rivelazione senza giusta causa. Ma la regola della segretezza può essere derogata dal legittimo interesse invocato anche dal nuovo Regolamento Ue in materia di privacy che permette il trattamento dei dati personali anche senza il consenso dell’interessato.

Le ultime sentenze hanno decisamente allargato le maglie della producibilità in giudizio delle conversazioni tra privati, dando vita a una visione moderna del diritto che non esclude di prendere in considerazione tutti gli elementi di prova a disposizione delle parti in causa, partendo dal presupposto che la vita online delle parti in causa può rilevare elementi utili su quella off line.
Per i magistrati, quindi, se vi è un interesse di causa e la corrispondenza è rilevante ai fini del giudizio potrà essere utilizzata senza invocare la privacy del diretto interessato.

I giudici hanno detto sì pure al licenziamento da una cooperativa di un socio lavoratore che, su Whatsapp, aveva tentato di boicottare l’attività di produzione, fomentando forme di protesta da parte degli altri soci (Tribunale di Bergamo, sentenza 7 giugno 2018, numero 424). Illegittimo, invece, per il Tribunale di Roma il licenziamento di una lavoratrice, colpevole di aver utilizzato un tono di sfida in un vocale inviato al gruppo di Whatsapp di cui faceva parte anche il superiore (sentenza 3478 del 4 maggio 2018). Secondo il giudice, infatti, contano soltanto le parole usate, non le intenzioni. La trascrizione del vocale è stata la salvezza della lavoratrice, comunque un po’ incauta.



martedì 10 luglio 2018

Se il dipendente che non va al lavoro ha diritto allo stipendio?



L’azienda può sospendere il pagamento dello stipendio nei casi di assenza ingiustificata o di impossibilità del dipendente di svolgere la prestazione lavorativa.

Sia quando il dipendente non può lavorare per sopraggiunte impossibilità, sia quando è lui stesso a non recarsi volontariamente al lavoro (assenza ingiustificata), il datore di lavoro non è tenuto a versargli lo stipendio. Anche nell’ambito lavorativo, infatti, vige il principio, sancito dal codice civile, secondo cui ciascuna delle parti può rifiutarsi di adempiere alla propria prestazione se l’altra non adempie. Procediamo con ordine e cerchiamo di comprendere se e quando il datore deve pagare lo stipendio al dipendente che non va al lavoro.

Quando l’assenza è ingiustificata il datore di lavoro può smettere di pagare al dipendente lo stipendio.

Le ragioni dell’assenza del dipendente
Il dipendente che non può recarsi al lavoro per una valida ragione deve subito comunicarlo al datore. Il caso emblematico è quello della malattia, per la quale è prevista una apposita trafila: visita medica; invio telematico del certificato all’Inps da parte dello stesso medico di base; possibilità per l’azienda di verificare, in via telematica, il certificato medico inviato all’Inps; eventuale richiesta di visita fiscale inoltrata all’Inps dall’azienda. Altra ipotesi tipica sono i permessi e i congedi riconosciuti dalla normativa di settore e dai contratti collettivi. Non in ultimo, ci sono le ferie retribuite che non possono essere negate al dipendente, ma che vanno previamente concordate con il datore.

Entro tali limiti fissati dalla normativa, il dipendente può assentarsi dal lavoro senza subire alcuna conseguenza di tipo sanzionatorio; inoltre quasi sempre il lavoratore assente mantiene il diritto allo stipendio pieno, salvo laddove per l’assenza non venga previsto il diritto alla retribuzione (è il caso,ad esempio, dei permessi non retribuiti).
Laddove invece l’assenza sia ingiustificata, il datore di lavoro può procedere allesanzioni disciplinari le quali possono essere di quattro tipi:

il rimprovero verbale;

la multa di importo pari a non più di quattro ore;

la sospensione dal soldo e dal servizio per non più di 10 giorni: in pratica il dipendente non deve andare a lavorare ma non ottiene neanche la retribuzione;

il licenziamento disciplinare. A seconda che il licenziamento venga intimato con o senza preavviso (a seconda cioè della gravità della condotta), si parlerà di licenziamento «per giustificato motivo soggettivo» e di licenziamento «per giusta causa».

Se il dipendente non è più in grado di lavorare il datore può sospendere il pagamento dello stipendio e, nei casi più gravi, licenziarlo

Veniamo così al capitolo più caldo: quello appunto del licenziamento. In caso di malattia, il licenziamento è vietato se non supera il cosiddetto «periodo di comporto»: si tratta del limite massimo di assenze che il dipendente può fare per malattia e durante il quale mantiene il diritto alla conservazione del posto. Superato il comporto, invece, il lavoratore può essere licenziato.

Una seconda ipotesi in cui il licenziamento è legittimo è quella del cosiddetto «giustificato motivo oggettivo», quello cioè dettato dalla impossibilità della prestazione lavorativa per sopravvenuta incapacità del dipendente (e sempre che lo stesso non possa essere ricollocato in mansioni equivalenti). Si pensi al caso di una persona che, divenuta non vedente, non possa più svolgere funzioni di segreteria; a un addetto alle vendite che non è più in grado di stare in piedi per molte ore; a una donna che, per via di una grave operazione, sia costretta ogni tre ore a prenderne una di riposo, ecc.

Ma il licenziamento non è l’unica soluzione che ha il datore di lavoro: questi può anche disporre la sospensione dello stipendio per i giorni di assenza ingiustificata o determinati da impossibilità della prestazione.

La sospensione dello stipendio
Dopo aver passato in rassegna cosa succede quando il dipendente si assenta dal lavoro, cerchiamo di comprendere se, nei casi di assenza ingiustificata o determinata da una impossibilità fisica a svolgere le mansioni, è possibile sospendere il pagamento della busta paga. In altre parole, se il dipendente non va al lavoro ha diritto allo stipendio?
A riguardo la Cassazione ha affermato che nel contratto di lavoro «ciascuna parte può valersi dell’eccezione di inadempimento prevista dal codice civile» in base alla quale, se una parte non adempie ai propri obblighi l’altra può esimersi dal rispettare i suoi. Alla inadempienza del lavoratore il datore di lavoro non deve necessariamente reagire solo con sanzioni disciplinari o, al limite, con il licenziamento, oppure col rifiuto di ricevere la prestazione parziale e con la richiesta di risarcimento dei danni. Ne consegue che «nel caso di inadempimento della prestazione lavorativa il datore di lavoro non è tenuto al pagamento delle retribuzioni». Detto in parole più semplici, non è dovuta la retribuzione durante il periodo di sospensione del rapporto, salvo che si verta in una delle ipotesi in cui la sospensione è tutelata dalla legge, quale la malattia.

I casi in cui si può non pagare lo stipendio al dipendente che non va al lavoro sono essenzialmente due:

assenza ingiustificata (fuori cioè dai casi di malattia, infortunio, permessi, congedi, gravidanza, puerperio, ecc.);

assenza determinata da impossibilità sopravvenuta allo svolgimento della prestazione lavorativa. Si tratta delle ipotesi che abbiamo esemplificato poc’anzi: un addetto ai trasporti che non può più guidare per una patologia alla schiena, un pilota di aereo che perde la vista, un addetto alla sicurezza che perde l’uso di una gamba, ecc. Si tratta di situazioni collegate alle condizioni fisiche del lavoratore, divenute incompatibili con le mansioni ad esso assegnate. A differenza della prima ipotesi (assenza ingiustificata), qui il dipendente non ha alcuna colpa.

Ciò nonostante, secondo la giurisprudenza, la sospensione dal servizio per impossibilità sopravvenuta allo svolgimento della prestazione non dà diritto alla retribuzione e se prolungata nel tempo autorizza il licenziamento del dipendente qualora non sia possibile ricollocare lo stesso a mansSoni equivalenti.


sabato 12 maggio 2018

Licenziamento in malattia: controllo sui social legittimo



Il dipendente assente per malattia non è totalmente al sicuro dal licenziamento: ci sono dei casi, infatti, in cui l’azienda può recedere il contratto di lavoro.

La legge tutela il lavoratore che si ammala riconoscendogli un’indennità di malattia e preservandolo da possibili provvedimenti disciplinari da parte del datore di lavoro. Infatti, il datore di lavoro può recedere il contratto solamente una volta decorso il periodo di comporto stabilito dalla legge. Quindi non si può licenziare un dipendente in malattia a meno che questa non si prolunghi oltre il cosiddetto periodo di comporto.

Il dipendente in malattia non ha solamente dei diritti, ma anche dei doveri. La Corte di Cassazione ha stabilito la legittimità del licenziamento qualora il dipendente in malattia svolga attività che possono ostacolare la sua guarigione.

Il periodo coperto dall'indennità di malattia, prevede che i dipendenti rispettino determinati doveri. Non solo il dipendente deve fare comunicazione della malattia al proprio datore di lavoro, richiedere il certificato al proprio medico di base e rispettare gli orari di reperibilità previsti per le visite fiscali, ma è anche chiamato a curarsi e a non svolgere tutte quelle attività che potrebbero peggiorare le proprie condizioni di salute oppure rallentare il percorso di guarigione. Qualora non venissero rispettati anche queste ultime indicazioni, il lavoratore in malattia può essere licenziato dal proprio datore di lavoro per giusta causa.

Il lavoratore in malattia è obbligato a mantenere un comportamento idoneo a consentire il corretto decorso della malattia, agevolando la guarigione. Lo svolgimento di attività che vadano a compromettere la guarigione può essere motivo di licenziamento per giusta causa da parte dell’azienda, anche se la prova di tale comportamento arriva mediante foto e/o video pubblicati dal lavoratore sui social network. E’ quanto ha chiarito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 6047/2018 che ha legittimato il licenziamento intimato per giusta ad un lavoratore che durante il periodo di assenza per malattia si era esibito in un concerto, postando poi su Facebook tale attività.

Tuttavia ci sono altri due casi in cui il dipendente assente a causa di malattia, infortunio sul lavoro o gravidanza, può essere licenziato. Il primo è quello per cui il licenziamento è giustificato da motivazioni estranee alla malattia; ad esempio si può recedere dal contratto in caso di crisi aziendale (licenziamento per giustificato motivo oggettivo).

Il secondo caso riguarda il dipendente per cui l’assenza per malattia - purché inferiore al periodo di comporto - abbia arrecato un grave pregiudizio all’azienda impedendo la prosecuzione del rapporto di lavoro.

Licenziare un dipendente assente per malattia è possibile ma solamente quando sussistono determinate condizioni. Facciamo chiarezza analizzando caso per caso quando il licenziamento è legittimo.

Il caso arrivato in Cassazione ha visto vincere un'azienda che aveva disposto un licenziamento per giusta causa di un dipendente in malattia per lombosciatalgia che, durante il periodo di indennità ha partecipato a un concerto, suonando sul palco con il suo gruppo musicale. L'azienda è venuta a conoscenza dell’accaduto tramite il profilo Facebook del dipendente stesso.

La risposta della Corte di Cassazione è stata chiara: l’azienda è legittimata a procedere con il licenziamento per giusta causa qualora il dipendente svolga attività che con molta probabilità prolungano il periodo di malattia. Lo svolgimento dell'attività di rischio, aggiunge la Cassazione, porta a presumere l'inesistenza stessa della malattia, gettando le base per la giustificazione di un licenziamento da parte del datore di lavoro.

Motivi di licenziamento

Il dipendente che si assenta dal posto di lavoro a causa di una malattia o di un infortunio è tutelato per un determinato periodo di tempo. La legge infatti stabilisce che l’azienda non può licenziare il dipendente a causa dell’assenza protratta per malattia, a meno che questa non superi il periodo di comporto.

Il secondo caso in cui è possibile licenziare un dipendente assente per malattia è quello giustificato da motivo oggettivo. La legge, ad esempio, permette al titolare di un’azienda in difficoltà di risolvere la crisi licenziando il personale in esubero. In caso di crisi o ristrutturazione aziendale, quindi, anche il lavoratore in malattia può essere compreso nel licenziamento collettivo. Il licenziamento però deve essere indipendente dall’assenza per malattia: in pratica il titolare dell’azienda deve dimostrare che avrebbe licenziato il dipendente malato anche se questo fosse stato regolarmente a lavoro.

Negli ultimi anni la giurisprudenza si espressa in favore di quei datori di lavoro che hanno licenziato dei dipendenti che - approfittandosi della loro malattia - sono diventati poco produttivi e inefficienti, arrecando così un grave pregiudizio all’impresa.

Quando il dipendente è colpevole di scarso rendimento l’azienda può procedere con il licenziamento anche prima della scadenza del periodo di comporto. Tuttavia spetterà al datore di lavoro dimostrare che il licenziamento è giustificato da:

il comportamento negligente del dipendente. Dovrà provare inoltre che questo atteggiamento non è causato dall’organizzazione del lavoro aziendale né da fattori socio ambientali;

la profonda sproporzione che c’è tra gli obiettivi previsti e i risultati effettivamente raggiunti dal dipendente.

Inoltre la giurisprudenza stabilisce che per valutare lo scarso rendimento del dipendente - fattore che giustifica il licenziamento - bisogna prendere in considerazione un arco temporale piuttosto lungo e non dei casi sporadici.

Infine ricordiamo che ci sono delle situazioni in cui il licenziamento può scattare anche in seguito ad una sanzione disciplinare; ad esempio, se il dipendente in malattia non si rende reperibile in più di un’occasione al controllo del medico fiscale disposto dall’INPS può essere soggetto al licenziamento.



venerdì 20 aprile 2018

Licenziamento per giusta causa: valutazione del giudice



Licenziamento per giusta causa: il giudice deve valutare le circostanze del caso concreto e la portata soggettiva della condotta di lavoratore e datore. Il licenziamento per giusta causa di un lavoratore per ingiustificata assenza è illegittimo se non vi sa stato un preventivo richiamo e l’azienda non abbia risposto alla richiesta di un periodo di ferie per gravi motivi familiari. A tal fine, occorre che i giudici di merito chiamati a vagliarne la correttezza, valutino le condotte di entrambe le parti e l’entità degli addebiti formulati.

Con sentenza n. 9339 del 16 aprile 2018, la Corte di Cassazione ha affermato che, in tema di valutazione della giusta causa e del conseguente licenziamento, occorre rifarsi non soltanto alla fattispecie astratta determinata dalla contrattazione collettiva ma è necessario valutare il comportamento inadempiente del dipendente tenendo presenti gli aspetti oggettivi e soggettivi in cui è maturato.

Il giudizio comparativo deve valutare non soltanto il comportamento del lavoratore ma anche quello del datore di lavoro; tale valutazione appare necessaria per comprendere se, sulla base dei principi di correttezza e buona fede, lo stesso abbia una parte di responsabilità relativa all’inadempimento contestato. Nel caso di specie l’assenza ingiustificata superiore a 3 giorni era stata preceduta da una richiesta di ferie per gravi ed improrogabili esigenze familiari alla quale il datore non aveva dato riscontro: pochi giorni dopo era deceduto il genitore del dipendente.

Al termine dei tre giorni, senza effettuare prima alcun richiamo, il datore di lavoro ha intimato al lavoratore il licenziamento per giusta causa per assenza ingiustificata. Il lavoratore presentava quindi ricorso, accolto in primo grado e poi respinto dalla Corte di Appello. La Corte di Cassazione ha nuovamente ribaltato il giudizio affermando che: Il giudice di secondo grado ha emesso la propria decisione senza procedere alla valutazione della gravità del licenziamento in un necessario giudizio di comparazione delle reciproche condotte alla stregua dei canoni di correttezza e buona fede.

Il dipendente aveva inviato al proprio datore di lavoro la domanda di fruizione delle ferie, motivata da “gravi ed improrogabili esigenze familiari”, per poter assistere il padre gravemente malato. L’azienda non aveva risposto e il dipendente si era, comunque, assentato nel periodo di ferie richiesto, durante il quale veniva colpito da lutto grave.

Allo scadere dei tre giorni dall’inizio dell’assenza ingiustificata, il datore di lavoro – senza effettuare prima alcun richiamo – ha proceduto con la contestazione dell’assenza ingiustificata, intimando il licenziamento per giusta causa al dipendente.

Il lavoratore ricorre in giudizio. La domanda di impugnativa del licenziamento era stata accolta in primo grado, mentre la Corte di Appello aveva riconosciuto legittima e proporzionata la decisione del datore di lavoro di licenziare il dipendente, ritenendo sussistente la proporzionalità della sanzione espulsiva, visto che il dipendente aveva superato i tre giorni di assenza ingiustificata previsti dal CCNL.

Con l’ordinanza n. 9339/2018, invece, la Suprema Corte ribalta il giudizio, ritenendo che “il giudice di secondo grado ha emesso la propria decisione senza procedere alla valutazione della gravità del licenziamento in un necessario giudizio di comparazione delle reciproche condotte alla stregua dei canoni di correttezza e buona fede”.

Secondo i Giudici, infatti, non basta il richiamo alla sanzione prevista dalla contrattazione collettiva, perché quest’ultima non può essere soggetta ad una applicazione slegata dalla realtà concreta nel quale si è svolto il rapporto di lavoro.

Il giudizio di comparazione – secondo la Corte – richiede che venga esaminato non solo il comportamento del lavoratore, ma anche la condotta del datore di lavoro, che nel caso di specie non aveva risposto alla richiesta di ferie, per gravi motivi famigliari, del lavoratore.

Pertanto, deve sempre essere accertato il rapporto di proporzionalità tra sanzione e infrazione e il giudice è obbligato ad accertare la reale entità e gravità delle infrazioni addebitate al dipendente, tenendo conto delle circostanze del caso concreto e della portata soggettiva della condotta.




martedì 20 marzo 2018

Regole sul lavoro: le differenze tra pubblico e privato



Per i lavoratori pubblici, la tutela contro i licenziamenti illegittimi non discende più dall’articolo 18, ma da una norma speciale, allargando la distanza con il lavoro privato.

Le differenze ovviamente fra dipendente pubblico o privato ci sono e sono molte, a partire non soltanto dallo stipendio ma anche dalle regole su assunzione e licenziamento.

Se secondo la maggior parte delle persone lavorare come dipendente pubblico permette di guadagnare di più rispetto a quanto previsto per i colleghi del settore privato, è bene fare alcune precisazioni perché non sempre è così.

Quali sono quindi le differenze tra un lavoratore statale dipendente del settore pubblico e cosa cambia invece per chi è assunto nel privato? Cerchiamo di seguito di dare una panoramica complessiva delle due opzioni.

Una delle prime differenze tra statali e lavoratori del settore privato riguarda le modalità di assunzione.

Per diventare dipendente pubblico, secondo quanto previsto dal comma 3 dell’art. 97 della Costituzione, è necessario superare un concorso, aperto a tutti i cittadini italiani che rispettano i requisiti per lavorare nella Pubblica Amministrazione.

I bandi di concorso per diventare dipendente statale vengono periodicamente pubblicati in Gazzetta Ufficiale e, salvo specifici casi in cui sono previste deroghe alla normativa, l’assunzione come dipendente pubblico avviene sulla base della graduatoria di merito relativa all’esito del concorso.

Al contrario, come noto a chi si è imbattuto in qualsiasi offerta di lavoro, per lavorare come dipendente privato è necessario inviare la propria candidatura e il proprio curriculum vitae debitamente compilato presso l’azienda che offre opportunità di lavoro. Sarà il datore di lavoro o il selezionatore responsabile delle risorse umane a scegliere quale dipendente assumere sulla base di valutazioni inerenti ai bisogni dell’azienda.

Una delle differenze maggiori tra il lavoro nella Pubblica Amministrazione e come dipendente di azienda privata riguarda lo stipendio.

I dipendenti statali guadagnano in media 2.000 euro all’anno in più di un dipendente privato, questo secondo il confronto tra gli stipendi di dipendenti pubblici e privati. Se lo stipendio di un dipendente pubblico è pari a 34.289 euro, un dipendente del settore privato può vantare una retribuzione pari a 32.315 euro, una differenza che certamente non è eccessiva.

Ovviamente non tutti i dipendenti statali se la passano meglio dei dipendenti del settore privato e anche nel settore pubblico bisogna fare le opportune differenze. In Italia tra i dipendenti pubblici meno pagati c’è sicuramente il personale della scuola e della sanità, con redditi annui di gran lunga inferiori rispetto a quanto guadagnato dai colleghi europei e pari a poco più di 28.000 euro all’anno.

Situazione simile per vigili del fuoco, polizia e forze armate, mentre sul fronte opposto, gli stipendi più alti sono quelli delle agenzie fiscali, con retribuzioni che per i ruoli di maggior prestigio arrivano fino a 200 mila euro annui, seguiti dai colleghi di Inps, Inail e Ministeri.

Per i dipendenti privati l’ammontare dello stipendio è determinato dal CCNL della propria categoria, messo a punto con l’accordo delle sigle sindacali rappresentati del settore e quindi il guadagno annuo può variare notevolmente sia in base al settore di lavoro che al proprio inquadramento contrattuale.

Non sempre lo stipendio di chi lavora nel settore privato è inferiore a quello di un dipendente pubblico - fatta accezione dei dirigenti della PA - e anzi è proprio nel settore privato che c’è maggiore opportunità di crescita professionale e avanzamento di carriera e, perché no, di ambire a stipendi maggiori rispetto alla media.

Uno dei temi di maggior critica riguarda le regole sui licenziamenti  manuale per i dipendenti pubblici e privati, a seguito delle due diverse discipline introdotte dall’avvento della riforma del lavoro e dall’abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Le regole attualmente in vigore introdotte con la riforma Fornero del 2012 hanno modificato quanto previsto in materia di licenziamenti individuali: in caso di licenziamento illegittimo il lavoratore avrà diritto al risarcimento proporzionale e non più alla reintegra sul posto di lavoro.
Questo tuttavia soltanto per i dipendenti privati: nei confronti degli statali in caso di licenziamento illegittimo vige ancora quanto previsto dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori: come confermato dai giudici della Corte di Cassazione.

Vediamo se è preferibile lavorare nel pubblico o nel privato? Ovviamente non esiste una risposta certa. Spesso per chi lavora nel settore pubblico il rischio è di perdere la motivazione del proprio lavoro. Fare carriera non è semplice e il rischio è di trovarsi incastrati nelle maglie della burocrazia. Mentre il vantaggio per chi lavora nel pubblico è la certezza del posto fisso che, nonostante tutto, sembra essere ancora oggi una delle priorità degli italiani.

Il problema della reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento nullo o annullabile per i dipendenti pubblici torna ad allargare di molto la distanza tra lavoro pubblico e privato, infatti sull’applicabilità o meno dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori al lavoro pubblico, mediante l’introduzione di una norma specifica nel testo unico del pubblico impiego, il legislatore ha risolto tutti i dubbi, prevedendo una norma applicabile esclusivamente ai dipendenti pubblici, secondo la quale “Il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna l’amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, e comunque in misura non superiore alle ventiquattro mensilità, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali”.

La filosofia di fondo, nel pubblico impiego, è rimasta quella della conservazione del posto, vinto dopo una selezione oggettiva. In quest’ottica, ulteriori esempi sono gli istituti della mobilità del personale e della gestione delle eccedenze: diversamente dal privato, qui non si arriva quasi mai alle espulsioni. Si viene ricollocati presso altri uffici. Anche i trasferimenti forzati hanno una serie di garanzie per l’interessato, come gli ambiti territoriali limitati.

Differenti normative esistono, inoltre, per l’utilizzo dei rapporti precari, e autonomi. Il Jobs act ha ridisegnato diverse fattispecie nel duplice tentativo di salvaguardare le esigenze di flessibilità buona delle aziende, e di rilanciare i rapporti stabili (apprendistato incluso). Nel settore pubblico, invece, queste discipline restano ancorate alla temporaneità o eccezionalità del ricorso. Non solo: nella Pa anche i contratti di lavoro autonomo e le collaborazioni ricevono, oggi, una disciplina speciale rispetto al privato.



martedì 5 dicembre 2017

Contratto di apprendistato: licenziamento e preavviso come funziona




Il contratto di apprendistato presenta tra le proprie peculiarità, rispetto al rapporto di lavoro a tempo indeterminato, la possibilità per il datore di lavoro di recedere una sola volta, alla conclusione del periodo formativo. Il recesso è quindi esercitabile soltanto al termine del periodo formativo, esattamente nel giorno coincidente con il termine del periodo di apprendistato, con preavviso ma senza obbligo di motivazione. Le parti possono dunque recedere liberamente dal contratto, ma nel rispetto del preavviso e solo se a decorrere dal termine del periodo di formazione (art 2118 c.c.). Se questo non avviene, il rapporto prosegue come ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

L'apprendistato è lo strumento più diffuso per l'inserimento nel mercato del lavoro. Si tratta di un particolare rapporto all'interno del quale il lavoratore acquisisce delle competenze professionali attraverso l'inserimento all'interno dell'organizzazione produttiva del datore di lavoro presso il quale svolge le proprie mansioni. Si dice, infatti, che si tratta di un contratto di lavoro a causa mista: da un lato, infatti, il lavoratore svolge una vera e propria prestazione lavorativa ricevendo in cambio, oltre alla retribuzione, una formazione specifica.

Se il licenziamento al termine dell’apprendistato non è legittimo si trasforma automaticamente in tempo indeterminato. Questo perchè, anche alla luce della disciplina sui contratti di lavoro in apprendistato, quando il licenziamento dell’apprendista risulta nullo (ad esempio per procedura irregolare) ed il rapporto si considera non interrotto – in manca di un regolare preavviso di licenziamento – ciò dà origine a un rapporto subordinato a tempo indeterminato.

Di norma, al termine del contratto, le parti possono recedere. Diversamente il rapporto di lavoro prosegue trasformandosi in tempo indeterminato. La risoluzione unilaterale da parte del datore di lavoro al termine dell’apprendistato richiede dunque formale disdetta, con l’osservanza del periodo di preavviso.

In tal senso, la previsione della disdetta ai sensi dell’art. 2118 c.c., cioè con preavviso, è propria di un rapporto indeterminato. Il mancato esercizio del diritto di recesso da parte del datore di lavoro e la nullità del licenziamento comportano dunque la trasformazione automatica del contratto di apprendistato a contratto di assunzione a tempo indeterminato. In sintesi, al contratto di apprendistato si applicano le norme sul licenziamento previste per gli altri contratti di lavoro dipendente.
Tuttavia, diversamente dagli altri, il mancato raggiungimento degli obiettivi formativi può ad esempio giustificare il licenziamento.

Diversamente, nel periodo di preavviso continua a trovare applicazione la disciplina del contratto di apprendistato (art. 2, co. 1, D. Lgs. n. 167/2011 come modificato dall’art. 1, co. 16, lett. b), L. 28 giugno 2012, n. 92). In questo contesto nulla è cambiato con il decreto legislativo di riordino dei contratti di lavoro attuativo del Jobs Act (art 42 del D.lgs 81/2015).

Per determinare i giorni di preavviso, nel rispetto del giusto livello di inquadramento, bisogna fare riferimento al periodo di preavviso previsto per il livello con cui si era inquadrati da apprendista e non a quello che si raggiunge al termine del periodo formativo. Il preavviso decorre dal momento in cui è conosciuta dall’altra parte e la decorrenza è interrotta nel caso in cui sopraggiungano le ferie.

Il licenziamento dell’apprendista è ammissibile ed è considerato giustificato (motivo oggettivo) se non implica una semplice sostituzione con addetti alle medesime mansioni. È però a carico del datore di lavoro l’onere di dimostrare il motivo. Quindi, se la causa è un riassetto aziendale, vanno comprovate le ragioni che la motivano oltre a quelle del licenziamento in questione.
Per quanto riguarda invece il licenziamento nel periodo di formazione, si applica la disciplina comune del recesso giustificato dai contratti di lavoro a tempo.

Per determinare i giorni di preavviso, nel rispetto del giusto livello di inquadramento, bisogna fare riferimento al periodo di preavviso previsto per il livello con cui si era inquadrati da apprendista e non a quello che si raggiunge al termine del periodo formativo. Il preavviso decorre dal momento in cui è conosciuta dall’altra parte e la decorrenza è interrotta nel caso in cui sopraggiungano le ferie.

Il datore di lavoro può risolvere il contratto di apprendistato alla fine del periodo di formazione. E’, infatti, prevista espressamente la possibilità per le parti di recedere dal contratto con preavviso decorrente dal termine del periodo di formazione.

Al termine del periodo formativo la decisione di risolvere il contratto, quindi, lasciata alle parti che potranno decidere di farlo senza giustificazioni. In questo caso, tuttavia, pur non essendo richieste motivazioni, sarà necessario comunicare in forma scritta la volontà di recedere all’altra parte e calcolando il preavviso, tenendo conto della data di conclusione del contratto. Se, invece, nessuna delle parti esercita la facoltà di recesso al termine del periodo di formazione, il rapporto prosegue come ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.


giovedì 17 agosto 2017

Guida alla conciliazione dopo il licenziamento





Proponiamo una guida alle tre procedure di conciliazione previste in caso di licenziamento del lavoratore dipendente alla luce della legge vigente.

In caso di licenziamento di un lavoratore è necessario ricorrere alla procedura di conciliazione introdotta dal Jobs Act (Decreto Legislativo n. 23/2015): questo meccanismo è previsto in caso di contenzioso sul lavoro. Alla luce delle diverse normative in vigore, la conciliazione può dunque essere facoltativa, preventiva (nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo) e a “tutele crescenti”.

Vediamole nel dettaglio.

Conciliazione facoltativa
Dal 24 novembre 2010 il tentativo di conciliazione dinanzi alla Commissione della Direzione Provinciale del Lavoro è tornato facoltativo, non più necessariamente propedeutico al ricorso al tribunale (Dlgls 183/2010). Così, in caso di controversia individuale, le parti possono rivolgersi o meno al giudice se la vertenza ha come oggetto:

impugnazione del licenziamento;

pretesa retributiva;

costituzione del rapporto di lavoro;

violazione del dovere di fedeltà;

risarcimento danni;

violazione del patto di non concorrenza;

violazione di obblighi di sicurezza e igiene sul lavoro;

illegittime modalità di attuazione del diritto di sciopero.

La conciliazione facoltativa prevede che il proponente (lavoratore o datore di lavoro) presenti domanda, presso la Segreteria delle Commissioni provinciali, indicando:

generalità delle parti;

luogo della conciliazione;

luogo delle comunicazioni;

esposizione dei fatti;

ragioni che li sostengono.

I funzionari della DTL devono verificare i dati essenziali: se insufficienti vanno integrati, se omessi la procedura non va avanti. Se i dati sono corretti, entro 20 giorni dalla richiesta o dalla ricezione dell’istanza al convenuto, la controparte può depositare le proprie memorie con le contro-difese ed eventuali domande in via riconvenzionale. Nei successivi 10 giorni, i funzionari della DPL devono convocare le parti dinanzi alla commissione o sottocommissione di conciliazione e poi, entro 30 giorni dalla convocazione, deve svolgersi il tentativo di conciliazione.

Nel caso in cui venga espletato, se la conciliazione viene raggiunta anche parzialmente, viene redatto un verbale sottoscritto dalle parti e il giudice del lavoro, su istanza di parte, rende esecutivo il decreto. Se non si raggiunge l’accordo conciliativo, la commissione deve sottoporre alle parti una proposta conciliativa da inserire obbligatoriamente a verbale, con indicazione delle posizioni delle singole parti.

Conciliazione preventiva
La Riforma Fornero (Legge 92/2012) ha modificato l’articolo 7 della legge 604/1966: prima di procedere al licenziamento, il datore di lavoro che abbia i requisiti dimensionali (più di 15 dipendenti nella singola unità produttiva o nell’ambito comunale o più di 60 nell’ambito nazionale) deve esperire una procedura di conciliazione volta all’esame congiunto dei motivi posti a base del recesso e finalizzata al raggiungimento di un eventuale accordo tra le parti (condizione di procedibilità ai fini dell’intimazione del licenziamento: in caso di violazione della suddetta procedura, il licenziamento è illegittimo).

Il datore di lavoro invia alla DTL una comunicazione in cui dichiara l’intenzione di procedere al licenziamento, indicando motivi e misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore. La comunicazione viene trasmessa per conoscenza anche al lavoratore e in seguito la DTL convoca le parti entro 7 giorni dalla ricezione della richiesta. In caso di mancata convocazione entro 7 giorni, il datore di lavoro può procedere al licenziamento. Diversamente, l’incontro si svolge dinanzi alla Commissione di Conciliazione e la procedura deve concludersi entro 20 giorni dalla trasmissione della convocazione, fatta salva l’ipotesi in cui le parti, di comune avviso, ritengano di proseguire la discussione finalizzata al raggiungimento di un accordo.

Se il tentativo di conciliazione ha esito negativo, viene redatto un verbale e il datore di lavoro può comunicare il licenziamento al lavoratore. Il Giudice, nell’ipotesi in cui dovesse ritenere illegittimo il licenziamento, procederà a determinate l’indennità risarcitoria.

Se la conciliazione ha esito positivo e prevede la risoluzione consensuale del rapporto, il lavoratore (in deroga alla disciplina ordinaria) avrà diritto alla nuova disoccupazione NASPI (sostitutiva dell’indennità di disoccupazione).


Conciliazione a tutele crescenti
Introdotta dal Jobs Act, si applica ai contenziosi sorti esclusivamente per lavoratori:

assunti a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015;

trasformati da lavoro a termine a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015;

qualificati da un rapporto di apprendistato dal 7 marzo 2015.

Qualora il datore di lavoro abbia intimato il licenziamento nei confronti di un lavoratore assunto a tutele crescenti, può offrirgli entro 60 giorni, al fine di evitare di andare in giudizio, un importo pari a 1 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 18 mensilità. L’importo non costituisce reddito imponibile ai fini fiscali, né è assoggettato a contribuzione previdenziale. Se il lavoratore accetta, il rapporto si estingue e si rinuncia ad eventuale impugnazione anche qualora il lavoratore l’abbia già proposto. Se il datore di lavoro utilizza questa offerta quale che sia l’esito, è tenuto ad effettuare una comunicazione obbligatoria tramite procedura “UNILAV – Conciliazione“ sul portale Cliclavoro, nella sezione “adempimenti”.







lunedì 24 luglio 2017

Lavoro intermittente: legittimo licenziare il lavoratore che compie 25 anni



La disciplina italiana sul lavoro intermittente non viola la disciplina europea in materia di divieti di discriminazioni dei lavoratori in ragione della loro età.

La Corte di Giustizia Europea, con la sentenza 19 luglio 2017, C‐143/16, ritiene che il datore di lavoro può essere autorizzato a concludere un contratto di lavoro intermittente con un lavoratore che abbia meno di 25 anni, qualunque sia la natura delle prestazioni da eseguire, e a licenziare detto lavoratore al compimento del venticinquesimo anno, quando tale disposizione persegue una finalità legittima di politica del lavoro e del mercato del lavoro e i mezzi per conseguire tale finalità sono appropriati e necessari.

Il caso dei giovani commessi di Abercrombie & Fitch è arrivato davanti alla Corte Ue. A portarcelo era stato un giovane assunto nel 2010 e poi licenziato al compimento dei 25 anni. Il lavoratore era stato assunto nel 2010 con contratto di lavoro intermittente a tempo determinato, poi convertito a tempo indeterminato il 1° gennaio 2012. Il 26 luglio di quell'anno, però, era stato licenziato perché compiva 25 anni.

Il lavoratore si era opposto a tale decisione e la Corte di appello di Milano gli aveva dato ragione ritenendo discriminatorio il licenziamento e imponendo all'azienda di riassumere il ragazzo.

La Cassazione aveva successivamente deciso di sollevare davanti alla Corte di giustizia una questione pregiudiziale, chiedendo se fosse compatibile con il diritto dell’Unione la normativa italiana (Dlgs 276/2003) secondo cui il contratto di lavoro intermittente può riguardare soltanto lavoratori di età inferiore a 25 anni o superiore a 45.

I giudici europei hanno deciso che la legge italiana non contrasta con il diritto dell’Unione e, in particolare, con la Carta dei diritti fondamentali e con la direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000. Secondo i giudici «la facoltà di concludere un contratto di lavoro intermittente con un lavoratore che abbia meno di 25 anni, qualunque sia la natura delle prestazioni da eseguire, e di licenziare detto lavoratore al compimento del venticinquesimo anno, persegue una finalità legittima di politica del lavoro e del mercato del lavoro e costituisce un mezzo appropriato e necessario per conseguire tale finalità».

La Corte non nega che la licenziabilità del lavoratore intermittente al compimento del venticinquesimo anno introduca una differenza di trattamento fondata sull’età. «Tuttavia - spiegano i giudici Ue - tale differenza di trattamento è giustificata dalla finalità di favorire l’occupazione giovanile. Infatti, i giovani sotto i 25 anni sono normalmente penalizzati sul mercato del lavoro dall'assenza di esperienza professionale. Per controbilanciare tale situazione, il contratto intermittente riservato agli infraventicinquenni consente agli stessi non tanto di ottenere un lavoro stabile quanto piuttosto di avere una prima esperienza lavorativa funzionale al successivo accesso al mercato del lavoro».

I giudici europei, insomma, alla luce di quanto sopra ritengono ragionevole la scelta del legislatore italiano di prevedere una simile tipologia contrattuale, compiuta in ragione dell'ampio margine discrezionale riconosciuto agli Stati membri nel perseguire uno scopo determinato in materia di politica sociale e dell'occupazione e nel definire le misure atte a realizzarlo. La direttiva 2000/78 è rispettata.

Secondo i magistrati europei la previsione, per il datore di lavoro, della facoltà di concludere un contratto di lavoro intermittente con un lavoratore che abbia meno di 25 anni, qualunque sia la natura delle prestazioni da eseguire, e di licenziare il lavoratore al compimento del venticinquesimo anno, “persegue una finalità legittima di politica del lavoro e del mercato del lavoro e costituisce un mezzo appropriato e necessario per conseguire tale finalità”.

I magistrati sostengono anche che ai lavoratori intermittenti, nei periodi di lavoro, è garantito un trattamento complessivamente “non meno favorevole” rispetto a quello di un lavoratore stabile con mansioni equivalenti. Dunque, in sintesi “nella la misura in cui il limite di venticinque anni di età sia da considerarsi uno strumento appropriato e necessario a raggiungere i richiamati obiettivi di politica occupazionale, deve considerarsi legittimo nel quadro nell'ordinamento dell’Unione”.


giovedì 8 giugno 2017

Licenziabile il manager: quando e motivazioni



Per la Cassazione lo svolgimento di attività extralavorativa in orario aziendale lede il vincolo fiduciario con il dipendente con mansioni direttive.

Lo svolgimento di attività extra lavorativa durante l'orario di lavoro, seppure in un settore non interferente con quello curato dal datore di lavoro, da parte di un responsabile commerciale con notevole autonomia nella gestione della attività, offendei il vincolo fiduciario tra le parti anche quando non comporta un danno economico all'Azienda e giustifica il licenziamento. In tale caso infatti le energie lavorative del prestatore vengono distolte ad altri fini e, quindi, finisce per essere non giustificata la corresponsione della retribuzione che, in relazione alla parte commisurata all'attività non resa, costituisce per il datore un danno economico e per il lavoratore un profitto ingiusto.

La sentenza della Cassazione n. 13199 del 25 maggio 2017 sottolinea inoltre, e soprattutto,  come il vincolo fiduciario con il dipendente risulta maggiormente stringente nel caso di attività autonome e lontane dal controllo diretto del datore di lavoro ed è più grave la lesione del patto, anche se non ne risulta un danno economico all'azienda.

Un Area Manager era stato licenziato per giusta causa a seguito della contestazione di calo di produttività, e fatti di rilievo disciplinare consistiti:

nell'avere portato sul luogo di lavoro articoli da commercializzare per conto di una società di cui faceva parte;

nell'essersi recato durante l'orario di lavoro presso il negozio di cui era socio;

di aver accumulato 13 episodi di ritardo nell'arrivo in azienda.

Il suo ricorso era stato respinto dal Tribunale mentre la Corte di Appello, ha dichiarato l'illegittimità del licenziamento e condannato la società a reintegrare nel posto di lavoro con risarcimento del danno, il giudice di appello ha ritenuto infatti che:

a) il problema gestionale derivante  dall'attività commerciale propria sul luogo di lavoro era  privo di prova certa;

b) l'avere costituito una società commerciale per la vendita di capi di abbigliamento di per sé non costituiva illecito disciplinare, in quanto non interferiva con quella svolta dal datore di lavoro;

c) l'avere raggiunto in due occasioni l'esercizio commerciale in orario di lavoro con l'autovettura aziendale non giustificava il licenziamento ma solo una sanzione conservativa, in quanto era un fatto episodico e senza conseguenze sull'attività aziendale;

d) la natura flessibile dell'orario richiesto al lavoratore, connessa alle mansioni direttive affidategli, rendeva priva di rilievo la timbratura effettuata oltre le ore 9:30.

La società ha presentato ricorso in cassazione, affidandosi a due motivi:

la società ricorrente denuncia che la Corte territoriale  non aveva considerato le ragioni per le quali la flessibilità dell'orario era stata concessa, per cui il mancato rispetto delle previsioni contrattuali non poteva ritenersi giustificato ogniqualvolta il dipendente, prima di recarsi in ufficio, aveva svolto attività di carattere personale, senza recarsi nelle sedi e nelle agenzie dislocate sul territorio;

la Corte ha errato nel non ritenere grave l'accertata attività esterna durante l'orario di lavoro, a causa della breve durata e per la mancanza di danno e nel considerare che sottrae all'obbligo la mansione direttiva che, invece, costituiva un'aggravante nella valutazione della condotta del lavoratore. Al lavoratore, infatti, erano affidati lo sviluppo e la gestione dei rapporti commerciali che, comportando una notevole autonomia nella gestione della attività, presupponevano l'esistenza di uno stringente vincolo fiduciario fra le parti.

I giudici della Cassazione hanno ritenuto fondato il secondo motivo, in quanto ha errato la Corte territoriale nel sostenere che «un comportamento illecito ridotto temporalmente», dal quale non sia derivato un pregiudizio concreto per il datore di lavoro, non sia idoneo a ledere il vincolo fiduciario, perché detta lesione può verificarsi ogniqualvolta la condotta ponga in dubbio la correttezza del futuro adempimento . Nel caso in cui la prestazione richiesta al dipendente, si svolga al di fuori della diretta osservazione e del controllo da parte del datore di lavoro, è maggiore l'affidamento che quest'ultimo deve potere riporre nella correttezza e nella buona fede del lavoratore.

Accogliendo il secondo motivo, i giudici si sono basati sul principio secondo cui “l'obbligo di fedeltà impone al lavoratore di astenersi dal porre in essere, non solo i comportamenti espressamente vietati dall'art. 2105 cod. civ., ma anche qualsiasi altra condotta che risulti in contrasto con i doveri connessi all'inserimento nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o crei una situazione di conflitto con gli interessi del datore di lavoro”.

Ricordiamo inoltre che il licenziamento del manager può essere legittimo anche quando i conti dell’impresa sono buoni, ovvero non sussiste un periodo di crisi aziendale e non ci sono spese straordinarie da sostenere, se la “soppressione” della sua posizione lavorativa è funzionale a un nuovo assetto riorganizzativo che, oltre a determinare una migliore efficienza può anche accrescere i margini di guadagno del datore di lavoro che sono pur sempre una ‘garanzia’ per la tenuta generale dei livelli occupazionali complessivi di una azienda. E' quanto ha sottolineato la Cassazione nella sentenza con la quale lo scorso 7 dicembre.

mercoledì 19 aprile 2017

Lavoro: licenziamento senza preavviso



I Contratti Collettivi Nazionali di categoria (Ccnl) definiscono, per ogni livello di inquadramento, un periodo di preavviso, variabile anche in base all'anzianità di servizio, che sia datore di lavoro che dipendente devono osservare prima di recedere unilateralmente dal contratto. Il periodo da osservare è indicato nel contratto e può essere modificato dalla trattativa individuale in sede di assunzione. Se ciò non avviene o non viene specificato nel contratto, il riferimento è il Ccnl. Un licenziamento senza preavviso raramente può essere giustificato.

Sono rari i casi in cui un licenziamento senza preavviso avviene per giusta causa; ad esempio, se si verifica un evento o comportamento che non consente la prosecuzione del rapporto lavorativo. I contratti collettivi prevedono alcuni fatti che rendono legittimo un licenziamento senza preavviso, come il rifiuto ingiustificato di svolgere l'attività lavorativa richiesta o il rifiuto di riprendere a lavorare anche dopo una visita medica che constati l'abilità al lavoro. Un altro caso è quello in cui ci si è comportati, durante il periodo di malattia, in maniera tale da pregiudicare la pronta guarigione. Il furto di beni dell'azienda durante lo svolgimento dell'attività lavorativa, una condotta penalmente rilevante tale da far venire meno la fiducia del datore di lavoro, o comportamenti violenti sul posto di lavoro, sono tutti motivi che possono portare al licenziamento senza preavviso.

Nel caso di un licenziamento per giusta causa, il datore di lavoro avrà l'onere di giustificare la sua decisione. Si deve trattare comunque di una circostanza talmente grave da non consentire, nemmeno provvisoriamente, la continuazione del rapporto di lavoro, soprattutto nel caso di contratti a tempo indeterminato. Se, invece, il contratto è a tempo determinato, ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, o senza preavviso.

Il lavoratore può essere licenziato senza preavviso sia durante o al termine del periodo di prova che nel caso di comportamenti particolarmente gravi, da quest’ultimo commessi e tali da integrare una giusta causa. In tutti gli altri casi, ivi compreso quello del fallimento dell’azienda, ben è possibile il licenziamento senza preavviso, ma al dipendente sarà dovuta, nell’ultima busta paga, l’indennità sostitutiva del preavviso.

Quando un lavoratore intende dare le proprie dimissioni, deve presentare al datore di lavoro una lettera (detta appunto di dimissioni) e dare il preavviso, perchè chiaramente non può venire a mancare da un momento all’altro e causare disagio nell’azienda per aver lasciato la sua posizione scoperta.

Il lavoratore dovrà quindi continuare a lavorare regolarmente per un periodo di tempo e dare un congruo preavviso prima di licenziarsi. Il tempo di preavviso varia seconda del contratto collettivo nazionale e della volontà delle parti. In particolari casi, tuttavia, il lavoratore può licenziarsi senza preavviso.

Questo accade sostanzialmente in tre casi, vediamoli insieme.

È possibile licenziarsi senza preavviso in questi tre casi:

1. durante il periodo di prova, perchè appunto si tratta di un lavoro di prova, possiamo ritenerlo in qualsiasi momento inadatto a noi e dimetterci.

2. Quando la parti (datore di lavoro e lavoratore) si accordano e stabiliscono che non è necessario il periodo di preavviso.

3. Per giusta causa (grave inadempimento del datore di lavoro, mancato versamento dei contributi previdenziali, comportamento scorretto a danno del lavoratore, variazioni delle condizioni aziendali).

Cosa succede se non si verifica una di queste tre circostanze ma intendiamo comunque dare le nostre dimissioni senza preavviso? Se il lavoratore intende licenziarsi senza preavviso, il datore di lavoro ha diritto alla cosiddetta “indennità di mancato preavviso“, ovvero dovrà ricevere da noi una somma pari alle retribuzioni che ci sarebbero spettate durante il periodo di preavviso in cui avremmo dovuto lavorare (solitamente trattiene questa somma sull’ultima busta paga che ci darà). Stessa cosa se é il lavoratore a essere licenziato senza preavviso: sarà il datore di lavoro a corrispondere l’indennità di mancato preavviso.



Lavoro: licenziarsi nel periodo di prova



Quando veniamo assunti per un qualsiasi lavoro, ognuno di noi deve passare un periodo di prova che va dai tre ai sei mesi prima di poter essere assunto definitivamente e a titolo permanente all'interno di un'azienda.

Il periodo di prova designa la clausola apposta al contratto di lavoro con cui le parti subordinano l’assunzione definitiva all’esito positivo di un determinato periodo.

La tesi predominante che inquadra il periodo di prova come clausola del contratto di lavoro contenente gli elementi caratteristici sia del termine che della condizione: esso determina infatti un rapporto di lavoro provvisorio a termine finale incerto, mentre il rapporto definitivo è subordinato alla condizione sospensiva potestativa del gradimento o del mancato recesso di una delle parti ed è a termine iniziale incerto coincidente con la fine del periodo di prova. In caso di esito positivo della prova, il contratto di lavoro diviene definitivo dalla data di assunzione.

L'assunzione ufficiale e corredata di documenti presso una qualsiasi azienda viene solitamente preceduta da un periodo di prova utile non solo al datore di lavoro per testare le competenze e le capacità del candidato, ma anche al futuro ed eventuale dipendente per comprendere se le mansioni che gli vengono affidate riescono ad appagare le proprie aspettative professionali. Per tale motivo, nel caso in cui questa seconda condizione non risulti essere soddisfatta oppure a causa di esigenze personali di altro tipo, è possibile decidere di licenziarsi ancor prima di stipulare il contratto lavorativo vero e proprio troncando anticipatamente qualsiasi rapporto con l'azienda. In questa guida spiegheremo come licenziarsi nel periodo di prova, dando utili informazioni attraverso pochi e semplici passaggi. Vediamo come fare quindi.

Poiché il periodo di prova si differenzia dal rapporto lavorativo ordinario per la mancata firma di un contratto ufficiale che leghi le due parti in causa, sia il datore che il dipendente possono decidere in qualsiasi momento di interromperlo senza incorrere nella necessità di fornire un determinato lasso di tempo di preavviso. Quest'ultimo è invece indispensabile quando il licenziamento va ad intaccare un legame professionale già ufficializzato tramite un atto legale siglato da entrambi gli interessati e varia in base al tipo di prestazione lavorativa offerta (esso non è nuovamente obbligatorio se la richiesta di dimissioni è accompagnata da motivazioni particolarmente giuste e fondate)

Nonostante la rescissione dal periodo di prova non necessiti del un periodo di preavviso, essa deve comunque essere manifestata e presentata per iscritto tramite un'apposita lettera di dimissioni da preparare possibilmente in duplice copia: una verrà consegnata al datore di lavoro, mentre l'altra, dopo essere comunque stata visionata e firmata da quest'ultimo, resterà nelle mani del dipendente come "ricevuta" dell'avvenuto esonero.

Nel corso delle fasi di redazione della lettera di licenziamento, è necessario spiegare l'intenzione di voler recedere dal rapporto lavorativo in corso ricordandosi di specificare, nonostante la legge già lo sancisca, che le dimissioni hanno effetto immediato in quanto non si è obbligati a fornire un determinato periodo di preavviso.  Occorre inoltre inserire, oltre al nome personale e dell'azienda, la data in seguito alla quale il documento comincerà ad avere valore effettivo e gli spazi adibiti ad ospitare la propria firma e quella del datore di lavoro.

Se un lavoro non soddisfa le proprie esigenze o quelle del datore di lavoro è bene potersi licenziare prima dell'assunzione definitiva.

Per poterlo fare è necessario seguire una procedura specifica in base alle politiche dell'azienda.  Se non sai come fare e hai intenzione di lasciare il tuo lavoro, potrei seguire le istruzioni di questa guida.  Non mi resta che augurare buon fortuna a tutti.

Il periodo di prova è quel periodo all’inizio del rapporto di lavoro stabilito solitamente nel contratto di lavoro individuale ma regolamentato dai Contratti collettivi che serve ad ambedue le parti per capire se effettivamente il lavoro ci va a genio e se il lavoratore è adeguato alle mansioni da svolgere.

Durante il periodo di prova ciascuna delle due parti può recedere dal rapporto di lavoro senza obbligo di preavviso. La volontà di recedere dal contratto deve essere comunque manifestata per iscritto mediante apposita lettera di dimissioni se il recesso è del lavoratore. In questo caso quindi le dimissioni avvengono in tronco, ma non è prevista alcuna indennità sostitutiva proprio perché ci si trova durante il periodo di prova.

Per le dimissioni durante il periodo di prova non è prevista la convalida delle dimissioni, il lavoratore però perde comunque il diritto all’indennità di disoccupazione.

Al datore di lavoro è data la facoltà di licenziare il prestatore di lavoro senza comunicare la decisione per iscritto e senza motivarla limitatamente alle seguenti tipologie di contratti di lavoro:
- rapporti di lavoro domestico

- personale inquadrato con qualifica di dirigente;

-lavoratori assunti in prova;

- apprendisti una volta terminato il periodo di formazione obbligatoria.

Il licenziamento al termine del periodo di prova non ha affatto natura di giustificato motivo oggettivo, essendo legato non già alla crisi dell’impresa o alla necessità di ridurre i costi o di sopprimere un posto, quanto piuttosto a un giudizio negativo circa la personalità del dipendente, il suo impegno e le sue effettive capacità.



Lavoro: licenziarsi da un contratto a tempo indeterminato


Per contratto di lavoro a tempo indeterminato si deve intendere un accordo fra le parti nel quale un soggetto, il lavoratore, si impegna dietro versamento di una retribuzione e senza vincolo di durata alcuno, a prestare la propria attività lavorativa accettando il potere direttivo, organizzativo e disciplinare di un altro soggetto, il datore di lavoro.

Con il D. lgs 151/2015, entrato in vigore in attuazione del Jobs Act, è stata rivista la disciplina delle dimissioni volontarie e della risoluzione consensuale. Il Jobs Act, a rafforzamento del contrasto alle dimissioni in bianco, ha introdotto una ulteriore novità, ovvero la compilazione in via telematica delle dimissioni.

Le dimissioni volontarie sono le classiche  date dal lavoratore per ragioni personali (famiglia, cambio lavoro, salute ecc.), in questo caso il lavoratore di sua spontanea volontà rassegna le dimissioni dal proprio lavoro a tempo indeterminato in quanto per ragioni personali non può più proseguire con il lavoro.

Il lavoratore può rassegnare le proprie dimissioni volontarie dando un margine di preavviso al datore di lavoro per consentirgli di trovare un altro lavoratore per sostituirlo nelle sue mansioni ordinarie. Il preavviso è stabilito dai CCNL i quali distinguono il periodo di preavviso in base alle mansioni del lavoratore (es. impiegato o operaio) e l’anzianità di servizio (un operaio con più anni di esperienza sarà più difficile da sostituire).

Proprio per la sua peculiarità il preavviso è sempre obbligatorio, nel caso in cui lavoratore dia le proprie dimissioni in tronco, quindi smettendo di lavorare da un giorno all’altro o comunque prima della scadenza del preavviso il datore di lavoro può richiedere un risarcimento al lavoratore, pari di solito alle giornate di mancato preavviso.

Caso diverso sono le dimissioni per giusta causa. In questo caso infatti le dimissioni vengono presentate dal lavoratore non per ragioni personali, ma perché per qualche ragione il rapporto di lavoro si è incrinato irrimediabilmente e il lavoratore non ritiene più di poter proseguire il lavoro neanche temporaneamente

In questo modo potreste avere diritto ad un risarcimento per un danno da voi subito a torto, stimato in una condizione di parità relativa all'ammontare delle retribuzioni che avreste percepito per la durata intera del contratto.  Ovviamente, prima di effettuare tutti gli incartamenti valutate sempre bene la situazione, senza fare cose affrettate.  Analizzando il motivo del recesso del contratto.  Per poi, informarvi con delle persone esperte nel campo.

Il contratto a tempo indeterminato è un accordo redatto per iscritto tra il datore di lavoro ed un dipendente, regolato dal Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro (CCNL). Esso non riporta la scadenza del rapporto lavorativo e deve contenere: i dati del principale e del lavoratore; la mansione data a quest'ultimo; l'importo dello stipendio mensile; l'orario di attività; i giorni di ferie; le eventuali ore di permesso; le informazioni riguardanti il licenziamento e le dimissioni.

L'articolo 2118 c. C. Prevede che tale obbligazione può essere sospesa soltanto dando un opportuno preavviso, per consentire all'imprenditore di trovare un subentrante, senza creare disguidi alla società. In questi casi, non occorre che il dirigente esprima la sua accettazione, perché la scelta di licenziarsi è una dichiarazione volontaria unilaterale ed inoppugnabile. Tuttavia, prima che il datore di lavoro ne venga a conoscenza, è possibile decidere per la sua revoca.

Il periodo di preannuncio è differente secondo la tipologia dell'accordo stipulato, il tipo di assunzione, l'anzianità raggiunta, ecc. Comunque, se non vengono indicate specifiche disposizioni, si applicano le regole basilari oppure quelle di equità. Le dimissioni assumono validità quando il datore di lavoro la riceve e, dunque, ne viene a conoscenza.

Se vi dimettete senza dare il preannuncio, dovrete sborsare un'indennità di mancato preavvertimento al datore di lavoro.  L'importo da rimunerare corrisponderà all'ammontare della retribuzione che avreste dovuto incassare durante i giorni di preavviso non rispettato.

Comunque, il responsabile può anche rifiutare quest'ultimo.  In questo caso, purché voi siate d'accordo, vi dovrà erogare l'indennità sostitutiva, corrispondente sempre allo stipendio relativo al suddetto intervallo.

Il licenziamento dovrà essere presentata al sovraintendente, attraverso una raccomandata con ricevuta di ritorno, per poter documentare la data di spedizione. Se lo desiderate, potrete anche presentarla mediante posta elettronica certificata e, comunque, entro un lasso massimo di un mese, a partire dalla data del vostro licenziamento volontario. Il datore di lavoro vi dovrà inviare una comunicazione, per richiedervi di firmare la vostra rescissione dal contratto.

Nella lettera delle dimissioni da trasmettere direttamente all'Ufficio del personale della vostra azienda, dovrete: specificare che si tratta di una comunicazione di licenziamento; indicare i vostri dati anagrafici, la data dell'assunzione, la tipologia della funzione, il livello, il giorno a partire dal quale sarà effettivo l'esonero dal lavoro; puntualizzare, nella parte conclusiva della missiva, la scadenza del periodo di preavviso; firmarla e datarla; farne una copia e conservarla insieme alla ricevuta dell'invio.

Il datore di lavoro deve provvedere al pagamento del T.F.R. attraverso la busta paga con la quale eroga l’ultima retribuzione, che, ovviamente, deve essere corrisposto al termine effettivo del rapporto di lavoro e, quindi, con le stesse modalità seguite fino ad oggi, a meno che le parti non si mettano d’accordo diversamente, ma sempre consegnando la busta paga al lavoratore.

Solitamente, nel giro di due o tre mesi, il datore di lavoro provvede a regolarizzare la posizione del dipendente dimesso, quindi, trascorso tale periodo, le consiglio di metterlo ufficialmente in mora a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno.






Lavoro: licenziarsi da un contratto a tempo determinato



Il contratto a tempo determinato è un contratto di lavoro subordinato, nel quale esiste un tempo ben preciso di durata del contratto con una data che indica la fine del rapporto.

L’apposizione del termine, a pena di nullità, deve risultare dall’atto scritto, direttamente (data, evento) o indirettamente dal contesto complessivo dell’atto medesimo.

Nel contratto a tempo determinato non è previsto l'istituto del preavviso ne' il recesso anticipato: il rapporto può cessare prima della scadenza del termine esclusivamente per comune volontà delle parti oppure per recesso per giusta causa (articolo 2119 codice civile).

Questo implica che le dimissioni da parte del lavoratore sono consentite solo se anche il datore di lavoro è d'accordo ovvero quando vi sono condizioni che impediscono di proseguire l'attività di lavoro (dimissioni per giusta causa).

Non è quindi ammesso il licenziamento con preavviso, sia per giustificato motivo che recedere da parte del datore di lavoro, nè le dimissioni da parte del lavoratore a prescindere dalla sussistenza della giusta causa.

In caso di dimissioni per giusta causa il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno che è pari all'ammontare delle retribuzioni che avrebbe percepito se il contratto avesse avuto la durata prevista.

In caso di dimissioni prima del termine senza giusta causa non è previsto esplicitamente il risarcimento del danno, ma la giurisprudenza, ravvisando un palese inadempimento contrattuale, ha previsto un risarcimento integrale del danno provocato al datore di lavoro.

Quando si ottiene un contratto a tempo determinato occorre esaminarlo bene. Per poi poter, in eseguito muoversi in base a quello che viene concordato e poi firmato. Il contratto a tempo determinato prevede sempre una scadenza di fine lavoro. Ma può succedere di volersi licenziare prima per motivi di vario genere. Per questo bisogna seguire delle regole e agire in modo corretto.

La prima cosa che va fatta è quella di rispettare i termini in materia di preavviso. Pertanto questi dipendono dai tempi relativi all'assunzione del contratto a tempo determinato. Di solito questi prevedono quindici giorni. Mentre, se ancora siete nel periodo di prova, non è necessario avvisare. Invece, il problema sorge se lavorate già da tempo nell'azienda. Quindi, dovrete procedere diversamente e cioè avvisare il datore preventivamente. A questo punto è necessario che parlate direttamente con il vostro datore di lavoro, portandogli la lettera di dimissioni. Oppure spedendo tutto tramite raccomandata con ricevuta di ritorno.

A questo punto se vi trovate sotto il periodo di prova o meno, dovrete sottoscrivere una lettera di dimissioni. Questa la dovete consegnare direttamente al vostro datore o all'ufficio del personale competente, in caso di grande azienda. Inoltre, potrete redarla sia a mano che in via telematica. Scrivendola e indicando luogo e data e sottoscrivendo in prima persona la vostra decisione di licenziarvi. È bene farsi consigliare anche da un esperto legale quale può essere un consulente del lavoro. Fate attenzione a non fare errori nella lettera di licenziamento che andate a presentare.

Una volta effettuata la consegna della lettera di licenziamento sarete liberi di non presentarvi più sul posto di lavoro. Il vostro contratto a tempo determinato verrà considerato decaduto e potrete quindi dedicarvi a cercare altro.

Il contratto di lavoro a tempo determinato si estingue normalmente e automaticamente alla data prevista dalle parti stipulanti nel contratto di assunzione. Tale data - lo ricordiamo ancora una volta - può essere stabilita in termini assoluti con il riferimento a un giorno, mese e anno precisi oppure può essere fissata mediante il riferimento al verificarsi di un determinato fatto previsto dalle parti (la chiusura di una fiera; il rientro in servizio del lavoratore sostituito eccetera). In questo caso non si può certo parlare di licenziamento; d'altro canto, pur se il datore non è tenuto ad alcuna formale comunicazione scritta, non pare inopportuno - soprattutto nel caso in cui la durata non sia stata stabilita con riferimento a una data certa ma in relazione a un fatto che potrebbe anche non essere a conoscenza del sostituto (come, appunto, il rientro del lavoratore sostituito, magari assegnato a un diverso reparto aziendale) - consegnare al lavoratore una lettera in cui lo si informa che, per l'avvenuto verificarsi della causale estintiva prevista, a decorrere dal tale giorno, il rapporto si intenderà risolto, con l'obbligo del dipendente di riconsegnare il pass aziendale (e quant'altro in suo possesso, tipo buoni mensa eccetera) e il suo diritto a ricevere le spettanze di fine rapporto.







giovedì 6 aprile 2017

Contratto a tutele crescenti e licenziamento




 Tra le principali novità normative realizzate dalla riforma del lavoro Jobs Act, che  ha introdotto il nuovo contratto di lavoro a tempo indeterminato detto "a tutele crescenti"

Il D.LGS 23/2015 di fatto limita l'applicazione dell'art. 18  dello Statuto dei lavoratori. Si esclude infatti  per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l'impugnazione del licenziamento”.

Il regime di tutela nel caso di licenziamento illegittimo:
a) si applica ai lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto;

b) vale anche nei casi di conversione, successiva all'entrata in vigore del decreto, del contratto a tempo determinato o dell’ apprendistato in contratto a tempo indeterminato;

c) nel caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore del decreto, integri il requisito occupazionale di cui all’articolo 18, ottavo e nono comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (il riferimento è al superamento della soglia dei 15 dipendenti).

Nei confronti del datore di lavoro imprenditore o non imprenditore trova applicazione quanto segue:

a) reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto. A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto se il lavoratore non riprende servizio entro 30 giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l'indennità di 15 mensilità

b) risarcimento del danno così calcolato: indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR (dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione) dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso minimo 5 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali

c) in luogo della reintegrazione, fermo restando il diritto al risarcimento del danno, il lavoratore ha facoltà di chiedere al datore di lavoro:
- un'indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale;
entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dall'invito del datore di lavoro di riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione.

E’ prevista una indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità.

La misura è dimezzata nelle piccole imprese e non può superare le sei mensilità.

Esclusa l'applicazione dell'art. 7, l. n. 604/66, che introduce una procedura di conciliazione davanti alla Commissione provinciale di conciliazione presso la Dtl, che il datore di lavoro, avente i requisiti dimensionali previsti dalla legge n. 300/70, deve obbligatoriamente esperire prima di intimare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (si tratta di una condizione di procedibilità).

Annullamento del licenziamento e condanna del datore di lavoro:
a) alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro;

b) al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro; massimo 12 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR;

c) al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, senza applicazione di sanzioni per omissione contributiva.
Il lavoratore può optare per le 15 mensilità.

E’ prevista una indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari a 1 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 12 mensilità, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle tutele previste per i casi di licenziamento per i quali sia ancora prevista la reintegrazione.
L'importo è dimezzato nelle piccole imprese entro massimo 6 mensilità.

In caso di revoca del licenziamento, purché effettuata entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell'impugnazione del medesimo, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti dal decreto in esame.

Al fine di evitare il giudizio e ferma restando la possibilità per le parti di addivenire a ogni altra modalità di conciliazione prevista dalla legge, il datore di lavoro può offrire al lavoratore licenziato, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, in una delle sedi protette (articolo 2113, comma 4, c.c. e articolo 76 del D.Lgs. n. 276/2003), un importo - che non costituisce reddito imponibile ai fini dell’IRPEF e non assoggettato a contribuzione previdenziale- di ammontare pari a 1 mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio; importo minimo 2 e massimo 18 mensilità, mediante consegna al lavoratore di un assegno circolare.

L’accettazione dell’assegno in tale sede da parte del lavoratore comporta l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia alla impugnazione del licenziamento anche qualora il lavoratore l’abbia già proposta. Le eventuali ulteriori somme pattuite nella stessa sede conciliativa a chiusura di ogni altra pendenza derivante dal rapporto di lavoro sono soggette al regime fiscale ordinario.

Attenzione: la comunicazione obbligatoria telematica di cessazione del rapporto è integrata da una ulteriore comunicazione, da effettuarsi da parte del datore di lavoro entro 65 giorni dalla cessazione del rapporto, nella quale deve essere indicata l’avvenuta ovvero la non avvenuta conciliazione; ove omessa si applica la medesima sanzione prevista per l’omissione della comunicazione COB. Il modello di trasmissione della comunicazione obbligatoria è conseguentemente riformulato.

Il decreto contiene, infine, alcune regole di "computo" la cui applicazione viene richiamata anche in tabella.

L'art. 7 specifica che l’anzianità di servizio del lavoratore che passa alle dipendenze dell’impresa subentrante nell’appalto si computa tenendosi conto di tutto il periodo durante il quale il lavoratore è stato impiegato nell’attività appaltata.

L'art. 8 dispone che per le frazioni di anno d’anzianità di servizio, le indennità e gli importi previsti nei seguenti casi
- licenziamento per giustificato motivo oggettivo/soggettivo o giusta causa privo degli estremi (art. 3, comma 1)
- licenziamento affetto da vizi formali/procedurali (art. 4)
- importo offerto in sede di conciliazione (art. 6)
sono riproporzionati e le frazioni di mese uguali o superiori a quindici giorni si computano come mese intero.

Ove il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali dei 15/60 dipendenti :
- non si applica la norma sul licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale;
l'ammontare di indennità/importi previsti è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità.

In caso di licenziamento collettivo ai sensi ex legge n. 223/91 intimato senza l’osservanza della forma scritta, si applica il regime sanzionatorio della reintegrazione; in caso di violazione delle procedure o dei criteri di scelta si applica il regime indennitario.

Ai licenziamenti oggetto del decreto non si applica il rito Fornero (commi da 48 a 68 dell’articolo 1 della legge n. 92 del 2012) identificabile  in una disciplina processuale speciale per le controversie derivanti dai licenziamenti di cui all'articolo 18 della legge n. 300 del 1970.

La legge Fornero, infatti, definisce un rito speciale per le controversie relative all’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi previste dal  citato art. 18, nonché alle questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro.

Le uniche fattispecie che possono portare alla reintegra del lavoratore riguardano:

il licenziamento discriminatorio (determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato, dalla partecipazione ad attività sindacali o ad uno sciopero, nonché discriminazione razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali);

il licenziamento intimato durante i periodi di tutela (primo anno di matrimonio, durante la maternità e fino al compimento di un anno di età del bambino, per fruizione dei congedi parentali);

il licenziamento per motivo illecito ( ex art. 1345 c.c.);

il licenziamento intimato in forma orale.

la misura del risarcimento non potrà essere inferiore ad un minimo di 5 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR.




domenica 5 febbraio 2017

Pubblica amministrazione, quando si rischia il licenziamento



Il “decalogo” dovrebbe fare chiarezza sulla questione, mettendo in fila le condizioni che determinano l'espulsione del dipendente: dalla falsa attestazione della presenza in servizio allo scarso rendimento. E la sanzione massima si attiverebbe anche, nei casi più gravi, per il responsabile gerarchico del dipendente assenteista che chiuda un occhio (o tutti e due) davanti agli illeciti. La casistica elencata nel “decalogo” si occuperà anche delle gravi e reiterate violazioni del Codice di comportamento. Per esempio, l'accettare regali costosi o l'abuso dell'auto di rappresentanza.


Ecco quando scatta il licenziamento disciplinare per gli statali. L'elenco precisa le situazioni 'a rischio', esplicitandole, tra cui le gravi e reiterate violazioni del codice di comportamento (accettare regali costosi, abusare dell'auto di rappresentanza). Nel decreto, previsto per metà febbraio, dovrebbe anche essere stabilito che in caso di procedura ordinaria entro tre mesi, non più quattro, l'azione deve essere conclusa. Resta fermo il licenziamento sprint, di 30 giorni, per il furbetto del cartellino, che dovrebbe essere esteso a tutte le forme illecite che portano a licenziamento accertate in flagranza. E la sanzione massima si attiverebbe anche, nei casi più gravi, per il responsabile che davanti agli illeciti «si volta dall’altra parte».

Il caso più classico di «bollino rosso» da assenteismo è quello del venerdì e del lunedì che permette a  chi lavora nella Pubblica amministrazione di allungare il week-end. Problema che si acuisce se il week-end lungo arriva in settimane più «a rischio» a causa della presenza della possibilità di «ponti».

Vi sono altre date sensibili, periodi «caldi» in cui un’amministrazione pubblica deve essere al 100% e non può permettersi intoppi a causa di assenze «anomale». Tra queste date quelle in cui è in programma un grande evento, per esempio un G7. Quest’anno è in calendario un G7 in Italia, il 26 e il 27 maggio a Taormina, preceduto dal G7 finanziario a Bari, dall’11 al 13 maggio.

Altre date a rischio sono quelle in cui scattano le iscrizioni alle scuole. Quest’anno il periodo valido per presentare le domande di iscrizione online alle scuole va dal 16 gennaio al 6 febbraio 2017. Ma chi per motivi validi non riuscirà a presentare domanda entro tale scadenza dovrà fare l’iscrizione in formato cartaceo. E anche per le scuole dell’infanzia si deve presentare domanda cartacea.

Tra i periodi monitorati dal ministero per evitare assenza di massa in grado di creare disservizi c’è anche quello del pagamento del modello  730 all’Agenzia delle Entrate, a luglio. Quest’anno la Dichiarazione dei Redditi 2017 va fatta entro il 23 luglio per il 730 precompilato inviato direttamente dai contribuenti e per i Caf, commercialisti e intermediari che entro il 7 luglio.

I provvedimenti disciplinari, inoltre, dovranno avere anche tempi più veloci. La procedura ordinaria, infatti, dovrà terminare entro 3 mesi e non più quattro mentre viene confermato il licenziamento sprint, di 30 giorni, per il “furbetto” del cartellino.

A parte il licenziamento, viene anche rivista tutta l’azione disciplinare. Con tutta probabilità si preciserà che per le infrazioni di minore gravità, per cui è previsto il solo richiamo verbale, le regole saranno stabilite dai contratti. I tecnici del ministero della Pubblica amministrazione stanno lavorando a una semplificazione dell’iter e si dovrebbe anche aprire a una gestione unificata per le sanzioni più gravi, per cui più amministrazioni possono fare capo a uno stesso ufficio. Anche qui ci sono dei chiarimenti, delle puntualizzazioni sul ruolo dell’ufficio per il procedimento disciplinare. Inoltre i vizi formali, i cavilli giuridici, non potranno fermare l’azione. Anche in questo caso, viene estesa una clausola anticipata con il decreto anti-furbetti. Quindi la violazione dei termini interni fissati per la procedura non potrà impedire di andare avanti, né potrà annullare la validità della sanzione inflitta, fatto salvo il diritto alla difesa. Inoltre se il giudice accerta una sproporzione con la sanzione disciplinare, il procedimento si ripete.



sabato 21 gennaio 2017

Licenziamento per il dirigente di imprese commerciali



Le nuove norme si applicheranno dal 1° settembre 2016:

Salva l’ipotesi di licenziamento per giusta causa, in caso di recesso, comunicato a far data dall’1/9/2016, da parte del datore di lavoro dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, superato il periodo di prova, è dovuto al dirigente un preavviso, in relazione all’anzianità di servizio globalmente prestato nell’azienda, in qualsiasi qualifica, pari a:
– 6 mesi: fino a quattro anni di servizio;
– 8 mesi: da quattro fino a dieci anni di servizio;
– 10 mesi: da dieci fino a quindici anni di servizio;
– 12 mesi: oltre i quindici anni di servizio.

Per giustificato motivo, al dirigente deve essere concessa una aspettativa fino a 6 mesi, con facoltà del datore di lavoro di non corrispondere, in tutto o in parte, la retribuzione. In caso di malattia, il dirigente ha diritto alla conservazione del posto e alla retribuzione, per 12 mesi ; successivamente, può essere chiesta l'aspettativa di cui si è detto. In caso di infortunio per causa di servizio, il posto di lavoro deve essere conservato fino all'accertata guarigione, e la retribuzione deve essere corrisposta per non più di 30 mesi. Inoltre, il datore di lavoro deve stipulare una polizza contro gli infortuni e deve contribuire, insieme al lavoratore, a forme di previdenza e assistenza sanitaria integrative.

Il licenziamento e le dimissioni devono essere comunicate per iscritto. Mancando una giusta causa, chi recede deve rispettare i termini di preavviso (da 2 a 4 mesi, a seconda dell'anzianità, in caso di dimissioni ; da 6 a 12 mesi in caso di licenziamento). Il licenziamento deve essere contestualmente motivato: in caso contrario, al dirigente spetta l'indennità supplementare (da un minimo corrispondente all'indennità sostitutiva del preavviso dovuto in caso di licenziamento ad un massimo pari ad una somma corrispondente a 18 mesi di preavviso). Come a tutti i dirigenti, anche a quelli che lavorano presso un’impresa commerciale, è ora esplicitamente applicabile la tutela che prevede il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, nonché l’integrale risarcimento del danno) prevista dal nuovo art. 18 S.L., qualora si tratti di un licenziamento discriminatorio.

Dimettendosi per giusta causa, il dirigente ha diritto all'indennità sostitutiva del preavviso che gli sarebbe dovuta in caso di licenziamento, nonché ad un'indennità supplementare pari a 1/3 del preavviso. Sono previste alcune ipotesi esemplificative di dimissioni per giusta causa : la mancata accettazione del trasferimento da un'unità produttiva ad un'altra ; la mancata accettazione del trasferimento di proprietà dell'azienda ; la dequalificazione; le dimissioni dovute a maternità o a matrimonio. Solo nel primo tra i casi citati spetta, oltre all'indennità sostitutiva del preavviso, anche l'indennità supplementare. Inoltre, il dirigente ha l'onere di richiamare espressamente la causa delle dimissioni e di rassegnarle entro un termine perentoriamente stabilito.

In linea generale, il dirigente d'azienda non è tutelato dalla legislazione che limita il potere di licenziamento: il datore di lavoro che intenda licenziare un dirigente può omettere di addurre alcuna motivazione, nel qual caso il dirigente potrà rivendicare esclusivamente l'indennità sostitutiva del preavviso. Se invece il datore di lavoro adducesse una giusta causa di licenziamento, il dirigente licenziato perderebbe anche il diritto a tale indennità. In ogni caso, il licenziamento deve avvenire per iscritto: in questo senso dispone la L. 108/90 che ha modificato, anche sul punto, la previgente legislazione sui licenziamenti.

Tuttavia, la lacuna legislativa è, di regola, colmata dalla contrattazione collettiva, che impone al datore di lavoro l'obbligo di giustificare il licenziamento del dirigente. Tuttavia, la conseguenza del licenziamento ingiustificato non è la reintegrazione nel posto di lavoro, come avviene per gli altri lavoratori delle imprese medio - grandi, ma solo la corresponsione di una somma di denaro (cosiddetta indennità supplementare). Questa è l'ipotesi prevista per esempio dal contratto dei dirigenti industriali e dei dirigenti commerciali, che quantificano l'indennità tra un minimo e un massimo (per i dirigenti industriali, il minimo è pari al preavviso maggiorato di due mensilità, mentre il massimo corrisponde a ventidue mensilità di preavviso).

Nel caso in cui il dirigente intenda contestare il licenziamento, deve senz'altro ricorrere al tribunale del lavoro nel caso di licenziamento per pretesa giusta causa: in altre parole, il tribunale è sicuramente competente in ordine all'eventuale diritto all'indennità sostitutiva del preavviso. Invece, con riguardo al diritto all'indennità supplementare, sono stati sollevati dubbi circa la competenza del tribunale, poiché i contratti collettivi sopra citati riservano ad un apposito collegio di conciliazione e arbitrato il compito di quantificare la somma di denaro dovuta per il caso di licenziamento ingiustificato. Conseguentemente, era stata affacciata l'ipotesi che il diritto alla indennità in questione potesse essere riconosciuta solo da tale collegio.

Fermo restando tale risarcimento, il lavoratore ha, comunque, la possibilità- entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza- di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro.



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