mercoledì 29 giugno 2016

Indebito Inps : richiesta di restituzione delle somme percepite


Accade spesso ai pensionati e a chi spetta assegni di disoccupazione o di invalidità e altro vedersi recapitare dall’Inps comunicazioni relative alla restituzione di somme erogate ma ritenuti successivamente, per vari motivi, non dovuti. Nella maggior parte dei casi, le pretese dell’Istituto previdenziale si fondano su motivi reddituali, cosicché può succedere che, a distanza di molti anni e successivamente all'erogazione dell’indennità, l’Inps verifica che il reddito è maggiore di quello indicato dalla legge e chiede la ripetizione di quanto corrisposto.

I pagamenti erogati ma non dovuti riguardano:

prestazioni prive dei necessari requisiti;

prestazioni incumulabili o incompatibili con altre prestazioni;

prestazioni non dovute per limiti reddituali;

prestazioni incumulabili con redditi da lavoro;

prestazione erogate dopo il decesso del pensionato;

altro.

Le cause dei pagamenti indebiti possono essere attribuiti ad un errore dell’INPS o ad un comportamento omissivo, il fenomeno è indice di una qualità del servizio e di meccanismi di controllo non certo impeccabili. Inoltre la mancata riscossione e le continue sanatorie assumono una connotazione pedagogica negativa, in un contesto sociale caratterizzato da un basso senso civico, e penalizzano quei pensionati che tengono sempre comportamenti corretti e responsabili o che si vedono recuperare prontamente il proprio debito.

In materia di previdenza ed assistenza obbligatoria, la ripetizione dell’indebito è ammessa nei soli casi di non addebitabilità al percepiente dell’erogazione non dovuta, per come disposto dall’art. 52 L. 88/89.

La norma citata così dispone: “Le pensioni a carico dell’ assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti, delle gestioni obbligatorie sostitutive o, comunque, integrative della medesima, della gestione speciale minatori, delle gestioni speciali per i commercianti, gli artigiani, i coltivatori diretti, mezzadri e coloni, nonché la pensione sociale, di cui all’articolo 26 della legge 30 aprile 1969, n. 153, possono essere in ogni momento rettificate dagli enti o fondi erogatori, in caso di errore di qualsiasi natura commesso in sede di attribuzione, erogazione o riliquidazione della prestazione.

La legge prevede che la sanatoria dove prevista opera in relazione alle somme corrisposte in base a formale, definitivo provvedimento del quale sia data espressa comunicazione all’interessato e che risulti viziato da errore di qualsiasi natura imputabile all’ente erogatore, salvo che l’indebita percezione sia dovuta a dolo dell’interessato. L’omessa od incompleta segnalazione da parte del pensionato di fatti incidenti sul diritto o sulla misura della pensione goduta, che non siano già conosciuti dall’ente competente, consente la ripetibilità delle somme indebitamente percepite.

E’ bene ricordare che l’Inps procede annualmente alla verifica delle situazioni reddituali dei pensionati incidenti sulla misura o sul diritto alle prestazioni pensionistiche e provvede, entro l’anno successivo, al recupero di quanto eventualmente pagato in eccedenza.

Dunque la norma esaminata, subordina la irripetibilità a due condizioni essenziali:
1) che il pagamento sia avvenuto sulla base di un provvedimento definitivo;
2) la mancanza di dolo dell’interessato;

La legge, inoltre stabilisce il termine di decadenza di un anno per intraprendere l’azione di recupero. Il termine decorre dall'effettiva conoscenza o dalla concreta possibilità di conoscenza degli elementi necessari alle operazioni di recupero.

Quindi nei casi in cui l’indebito consegua alla omessa o incompleta segnalazione, da parte dell’interessato, di fatti incidenti sul diritto o sulla misura della pensione, che non siano già a conoscenza dell’Istituto, L’INPS procede al recupero delle somme indebitamente percepite, senza alcuna limitazione temporale, in quanto la omissione viene in sostanza equiparata dal legislatore al dolo, il che ne consente in ogni caso la recuperabilità.

Ed infatti, i termini di prescrizione decennali del credito decorrono, qualora l’indebito sia da ricollegare a situazioni che devono essere comunicate dal pensionato, dalla data della comunicazione stessa.

Vengono ricompresi nel comportamento doloso – oltre ai casi di attività illecita dell’interessato, come tali rilevanti anche in sede penale con conseguente obbligo di denuncia all'Autorità giudiziaria – anche l’indicazione di dati incompleti o l’omissione di denuncia di circostanze incidenti sul diritto o sulla misura della prestazione, purché l’omissione non riguardi atti o fatti già noti all'Istituto.

Il dolo va escluso nei casi in cui l’indebita erogazione sia dovuta ad errore dell’Istituto.

Gli indebiti pensionistici vengono recuperati attraverso una delle seguenti modalità:

compensazione con crediti, relativi a quote di prestazioni pensionistiche o assistenziali, vantati nei confronti dell’Istituto;

recupero mediante trattenute sulle prestazioni pensionistiche;

pagamento, anche rateale, mediante rimesse in denaro.

Non possono essere oggetto di compensazione i crediti dovuti all'interessato a titolo di assegni al nucleo familiare, pensione o assegno sociale e i trattamenti di invalidità civile se non per somme erogate per titolo di prestazione identico a quello per il quale deve essere operata la compensazione.

Il recupero delle somme indebitamente erogate può essere operato indistintamente su tutte le prestazioni pensionistiche di cui il debitore è titolare al momento della notifica dell’indebito.

Devono, comunque, essere rispettati i seguenti limiti:

l’ammontare delle trattenute sulle prestazioni pensionistiche deve essere limitato ad un quinto dell’importo della prestazione medesima;

il recupero sulle prestazioni pensionistiche deve far salvo in ogni caso l’importo corrispondente al trattamento minimo;

le somme da recuperare non possono essere gravate da interessi salvo che l’indebita percezione sia dovuta a dolo dell’interessato;

nel caso in cui il debitore sia titolare di più trattamenti pensionistici la trattenuta di un quinto deve essere operata su ciascun trattamento, fermo restando il limite del trattamento minimo, che deve essere salvaguardato sul totale delle prestazioni.

Cosa deve fare il cittadino quando riceve una richiesta di rimborso?

Occorre innanzi tutto rivolgersi ad un avvocato previdenzialista di modo che possa valutare la possibilità o meno di contestare una richiesta di indebito. A questo punto vanno considerati alcuni punti importanti da tenere in considerazione.

Innanzi tutto occorre chiarire che le richieste di indebito sono soggette a prescrizione decennale, ossia l’Inps ha 10 anni di tempo per poter richiedere al cittadino la restituzione di somme indebitamente percepite. Fa eccezione al regime di prescrizione decennale solo la richiesta contributiva per cui l’Inps ha cinque anni di tempo per poter richiedere il pagamento di contributi non versati.

Altro punto da valutare sono le richieste di restituzione per indebiti reddituali. La normativa attuale prevede che l’Inps paghi le prestazioni per l’anno in corso e l’anno seguente provveda a richiedere i dati reddituali e sulla base di tali dati comunicati, l’Inps procede ad un conguaglio. Sovente però capita che l’Inps, dopo tale comunicazione, provvede a chiedere somme erogate. Dunque, per evitare che tali richieste di restituzione pervengano dopo un numero di anni spropositati l’art. 13 della legge 412 del 1991 ha previsto che l’Inps, salvo il dolo del percipiente, ha un anno di tempo dalla comunicazione dei dati reddituali per poter richiedere indietro le somme indebitamente percepite.

Concludendo, in presenza delle condizioni sopra evidenziate nessuna azione di recupero può essere operata dall'Istituto vigendo il principio generale di non ripetibilità delle somme in mancanza di dolo dell’assicurato, e, anche quando dovesse accertarsi la legittimità dell’azione di recupero dell’INPS, si può eccepire eventualmente l’intervenuta prescrizione del diritto al recupero delle somme, operando in tali casi la prescrizione decennale.



martedì 28 giugno 2016

Lavoro agile e smart working 2016: le differenze



Lo smart working (lavoro agile) è una prestazione di lavoro subordinato prestata, parzialmente, all’interno dei locali aziendali e dietro i soli vincoli di orario massimo desunti dalla legge e dalla contrattazione collettiva.

Ovvero, il telelavoro, il papà dello smart working, è andato in soffitta, e si apre una nuova era. Almeno dal punto di vista delle tutele, perché - come riportano i dati dell'Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano - quasi il 50% delle grandi aziende sta già sperimentando questo tipo di prestazione.

Sono diversi gli aspetti innovativi dello smart working rispetto al telelavoro, di cui non si applicano né le norme né i contratti collettivi. Nel lavoro agile il lavoratore ha la possibilità di utilizzare strumenti tecnologici propri ovvero assegnatigli dal datore di lavoro. E’ quest’ultimo, in tal caso, il soggetto responsabile dei rispettivi sicurezza e funzionamento.

Nel telelavoro, di norma, è il datore di lavoro il responsabile della fornitura, dell’installazione e della manutenzione degli strumenti necessari, a meno che il telelavoratore non utilizzi strumenti propri.
Qualora il telelavoro venga svolto regolarmente, il datore di lavoro è responsabile della compensazione o copertura dei costi che derivano direttamente dal lavoro. Il datore di lavoro, infine, deve fornire al telelavoratore i supporti tecnici richiesti per compiere la prestazione lavorativa.

Punto comune tra telelavoro e smart working è la volontarietà del datore di lavoro e del dipendente. Il telelavoro può costituire l’esito di un “successivo impegno assunto volontariamente”; lo smart working è sempre subordinato alla conclusione di un accordo scritto tra le parti, che regola le modalità con cui svolgere il servizio prestato al di fuori dei locali aziendali, anche con attinenza alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro ed agli strumenti adoperati dal lavoratore.

L’accordo può essere a tempo determinato o indeterminato; se indeterminato il recesso può verificarsi dietro un preavviso che non  deve essere inferiore a 30 giorni. In presenza di un giustificato motivo, invece, se l’accordo è a tempo determinato, le parti possono recedere prima della scadenza del termine, mentre possono farlo senza preavviso se l’accordo è a tempo indeterminato.

l 18 febbraio 2016 è stato presentato la legge denominata “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l'articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato” , che dal 25 maggio 2016 è all'esame delle Commissioni parlamentari Il capo II è appunto interamente dedicato al c.d. lavoro agile, che come noto è uno strumento e non una tipologia contrattuale . Finora infatti la nostra normativa non aveva regolamentato lo smart working, mentre  il telelavoro è regolamentato per legge solo nelle pubbliche amministrazioni. Ma da qualche anno sia il telelavoro sia lo smart working si sono diffusi nel settore privato in diverse grandi aziende sulla base di accordi collettivi, a cui in parte si rifà il testo in esame. La modalità di svolgimento della prestazione svolta dal lavoratore agile si differenzia da quella del telelavoro che si caratterizza perché l’attività lavorativa   “viene regolarmente svolta al di fuori dei locali” dell’azienda. Ci si chiede  inoltre se l’espressione “lavoro agile” può essere considerata una traduzione efficace dell’inglese “smart working”, molto utilizzata di recente. Lo “smart working” ed il “lavoro agile”  non paiono comunque essere “perfetti equivalenti”. Il loro utilizzo si presta a sottolineare aspetti diversi di un modello di lavoro del futuro. Nel caso di “lavoro agile” si sottolinea un’indipendenza attiva, ma parziale, legata ai tempi di vita e di lavoro, nel caso di “smart working” si esprime invece un lavoro più caratterizzato dalle competenze della persona.

Conciliare, innovare e competere. Sono questi i tre diversi obiettivi, apparentemente antitetici, dello smart working che si configura come un nuovo approccio all'organizzazione aziendale, in cui le esigenze individuali del lavoratore si contemperano, in maniera complementare, con quelle dell’impresa.

Lo smart working implica un nuovo modello di organizzazione del lavoro, in cui sono fondamentali questi tre elementi:

Risorse umane. È necessaria una nuova ottica da parte del personale che deve essere pronto a rivedere il proprio ruolo in un’ottica di flessibilità e disponibile a creare maggiori sinergie con il management.

Tecnologia.  Le modalità di lavoro sono “agili” e tecnologicamente avanzate e l’accesso ai dati aziendali deve essere possibile da remoto, consentendo forme di lavoro più efficienti e altamente personalizzate.

Monitoraggio costante. È indispensabile un’analisi dei risultati del lavoro per valutare l’efficienza del personale a seguito dell’introduzione del nuovo modello organizzativo del lavoro.
Quali sono le opportunità e le possibili criticità? Per il lavoratore un maggiore controllo nel bilanciare il rapporto lavoro-famiglia e i ritmi lavorativi con quelli giornalieri, implica un aumento della propria soddisfazione lavorativa con ripercussioni positive anche in termini di produttività e contenimento dei tassi di assenteismo. Dall’altro lato, gli aspetti negativi riguardano un minor coinvolgimento nelle dinamiche di apprendimento del know-how attraverso l’osservazione dei colleghi e l’isolamento e la mancata integrazione rispetto alla “squadra” di lavoro.

Si tratta di aspetti che possono essere valutati e risolti in sede di definizione dell’organizzazione del telelavoro, specificando le modalità di coordinamento tra unità operativa e lavoratore. In particolare, la valutazione delle performance del telelavoratore è ancor più indispensabile in questo modello organizzativo. A tal fine risulta utile l’individuazione di indicatori o parametri obiettivi quali: numero email inviate, numero telefonate svolte, numero di clienti e la loro soddisfazione ecc.

E’ fondamentale per un positivo esito dello smart working il confronto costruttivo delle parti sociali sulle modalità organizzative e la comunicazione tra i soggetti coinvolti così come indicato nelle disposizioni comunitarie.


domenica 26 giugno 2016

NASPI 2016 estesa per i lavoratori stagionali


Niente Naspi dimezzata per i lavoratori stagionali, penalizzati dall'entrata in vigore dei nuovi ammortizzatori sociali del Jobs Act: a chiedere al Governo di intervenire sono tre risoluzioni discusse in commissione Lavoro alla Camera, presentate da diversi schieramenti politici. Il punto è il seguente: con la vecchia “Aspi”, l’assicurazione per l’impiego introdotta dalla Riforma Lavoro 2012, gli stagionali che lavoravano fino a sei mesi l’anno ne percepivano altrettanti di sussidio.

La NASPI, invece, funziona come per i dipendenti a tempo indeterminato, prevedendo un numero di mensilità pari alla metà delle settimane lavorate nell’ultimo quadriennio. Ma non si possono conteggiare eventuali periodi lavorativi che abbiano già dato luogo a precedenti trattamenti. Risultato: un lavoratore stagionale che lavora sei mesi nel 2016 prende tre mesi di NASPI anche se ha precedenti periodi di lavoro negli anni scorsi e ha utilizzato l’ASpI di cui aveva diritto.

La norma contestata è quella relativa all’articolo 5 del Dlgs 22/2015 (il decreto legislativo del Jobs Act che introduce i nuovi ammortizzatori sociali),  il quale prevede le regole sopra esposte per il calcolo della NASPI. Il successivo Dlgs 148/2015 prevede una fase transitoria per i lavoratori stagionali del turismo e degli stabilimenti termali, limitatamente alle cessazioni dal lavoro intervenute tra il 1° maggio e il 31 dicembre 2015, che abbiano dato luogo a eventuali prestazioni di disoccupazione ordinaria con requisiti ridotti e mini-ASpI 2012 fruite negli ultimi quattro anni. Quindi, in questi casi si possono conteggiare anche i periodi che hanno già dato luogo a prestazioni di sostegno al reddito.

Nell’ambito del dibattito sulle tre mozioni che chiedono di aumentare la NASPI per ilavoratori stagionali, la Commissione Lavoro ha ascoltato i sindacati confederali, i quali hanno sottolineato come le regole sulla NASPI penalizzano quasi 300mila stagionali del settore turismo e termale che rischiano di trovarsi un sussidio dimezzato.

«La stagionalità della domanda turistica è un male cronico del nostro sistema», la Naspi comporta che a pagare lo scotto di un deficit strutturale siano i soli lavoratori e le imprese che della professionalità di questi lavoratori si avvalgono», con il rischio di far fallire «interi sistemi turistici locali (soprattutto al Sud)».

Ricordiamo infatti che gli stagionali, a seguito dell'entrata in vigore del decreto Jobs Act per il riordino delle norme sugli ammortizzatori sociali, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183, ha previsto nuovi requisiti e condizioni per la concessione della cassa integrazione ordinaria e straordinaria, i fondi di solidarietà, l'indennità di disoccupazione Naspi per 24 mesi anche dopo il 2016, l'assegno di ricollocazione ASDI per i disoccupati che non trovano ancora lavoro dopo 6 mesi dal termine dell'indennità, e per i lavoratori stagionali NASPI solo una salvaguardia per l'anno precedente e solo per il settore del turismo.

Perché i lavoratori stagionali sono stati penalizzati dalla NASPI? L'introduzione a partire dal 1° maggio della nuova NASPi ha fatto nascere non pochi malumori tra i lavoratori stagionali per non parlare delle associazioni di categoria al quanto perplesse dal fatto che il nuovo metodo di calcolo utilizzato per determinare la durata dell'indennità e dai requisiti di accesso resi ancor più astringenti, abbiano fortemente penalizzato i lavoratori, specialmente quelli del settore turismo dal momento che questa tipologia contrattuale è quella maggiormente utilizzata per il lavoro estivo ed invernale.

Infatti, in base a quanto sancito dal decreto legislativo 22/2015, il diritto alla NASpI è per i disoccupati che nei 4 anni precedenti alla data di cessazione del rapporto di lavoro, possono vantare almeno 13 settimane di contributi versati e almeno 30 giorni di lavoro effettivo nei 12 mesi precedenti lo stato di disoccupazione.

Per cui se con la mini-aspi gli stagionali potevano contare su 6 mesi di disoccupazione a fronte di 6 mesi di lavoro, oggi, con la NASPi tale periodo è ridotto a 3 mesi, perché sulla base dell'articolo 5 della legge, l'indennità spetta per un numero di settimane pari alla metà delle settimane di contributi versati negli utlimi 4 anni.

Per la Naspi stagionali, il decreto attuativo in materia di riordino ammortizzatori sociali, ha previsto una salvaguardia per il solo anno 2015, per i cd. lavoratori stagionali ma esclusivamente del settore turismo.

Cosa prevedeva la nuova salvaguardia per gli stagionali? Prevedeva che per i soli eventi di licenziamento involontario verificati dal 1° gennaio 2015 al 31 dicembre 2015, i lavoratori stagionali del settore turismo potevano, ai fini di calcolo NASPI e durata dell'indennità, non computare i periodi di mini aspi o di disoccupazione con requisiti ridotti, percepiti negli ultimi 4 anni.


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