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sabato 28 marzo 2020

Smart working con l'emergenza sanitaria



Lo Smart Working intende cambiare il vecchio modello del lavoro, spostando il lavoratore da una postazione fissa raggiunta dopo aver timbrato il cartellino ad una tipologia di lavoro più flessibile, più adatta al nuovo modo di intendere il lavoro. E non si tratta soltanto di voler conciliare i tempi di vita e lavoro Lo Smart Working gira intorno al concetto di produttività: lasciando il dipendente libero di organizzarsi spazi, tempi e luoghi di lavoro si rende più responsabile del proprio operato e si possono fissare degli obiettivi di produttività da raggiungere in totale autonomia.

Conciliare, innovare e competere. Sono questi i tre diversi obiettivi, apparentemente antitetici, dello smart working che si configura come un nuovo approccio all'organizzazione aziendale, in cui le esigenze individuali del lavoratore si contemperano, in maniera complementare, con quelle dell’impresa.

Lo smart working implica un nuovo modello di organizzazione del lavoro, in cui sono fondamentali questi tre elementi:
Risorse umane. È necessaria una nuova ottica da parte del personale che deve essere pronto a rivedere il proprio ruolo in un’ottica di flessibilità e disponibile a creare maggiori sinergie con il management.

Tecnologia.  Le modalità di lavoro sono “agili” e tecnologicamente avanzate e l’accesso ai dati aziendali deve essere possibile da remoto, consentendo forme di lavoro più efficienti e altamente personalizzate.

Monitoraggio costante. È indispensabile un’analisi dei risultati del lavoro per valutare l’efficienza del personale a seguito dell’introduzione del nuovo modello organizzativo del lavoro.

Adesso con l'emergenza sanitaria in atto, il lavoro è diventato flessibile, con lavoratori che svolgono la propria attività a distanza e dipendenti che eseguono parte delle proprie mansioni da casa, anziché stando in ufficio. Negli ultimi anni, si è parlato molto dei vantaggi dello smart working, tra cui miglior produttività, maggior impegno e benessere dei collaboratori. Tuttavia, non tutti i manager si trovano d’accordo con questa visione, anzi alcuni ritengono il lavoro agile addirittura un 'rischio' per il business.

L’ex Ceo di Yahoo, Marissa Mayer, ad esempio, una volta approdata in azienda, dichiarò che lavorare da remoto può rappresentare sicuramente un vantaggio per il singolo, ma non sempre è altrettanto positivo per l’azienda. Le migliori intuizioni, infatti, derivano dall’incontro con altre persone, da meeting e brainstorming con i propri dipendenti ciò è possibile solo essendo tutti presenti in azienda. Il vero lavoro in squadra, hanno dichiarato alcuni rappresentanti del colosso della tecnologia Ibm, si basa sulla collaborazione di persone che lavorano fianco a fianco quotidianamente e si scambiano idee dal vivo. Ciò significa, quindi, che è necessario fare un passo indietro rispetto alle ultime tendenze in materia di smart working? Il lavoro agile può rappresentare realmente uno svantaggio per le imprese? Come è possibile, infine, conciliare la crescente richiesta di maggiore flessibilità da parte dei dipendenti con le esigenze del management? A questi quesiti hanno cercato di dare risposta gli esperti di Hays, società leader nel recruitment specializzato.

“Lo smart working, se attivato correttamente, può rappresentare una risorsa preziosa - affermano gli esperti Hays - per le aziende, indispensabile per conciliare le diverse necessità dei professionisti e per garantire un alto grado flessibilità aziendale, essenziale per avere successo in un ambiente dinamico e in rapido cambiamento come quello odierno. È necessario lavorare in primis sulla cultura aziendale, favorendo un ambiente collaborativo e positivo. Datore di lavoro e dipendenti devono avere un obiettivo comune e devono condividere le modalità con cui raggiungerlo. In questo modo, sarà possibile lavorare in squadra e ottenere ottimi risultati pur non essendo fisicamente nello stesso luogo”.

Per funzionare al meglio lo smart working deve essere quanto più strutturato possibile, ma non in termini di controllo delle persone, bensì in termini di organizzazione. Spesso, infatti, il lavoro agile viene concesso solo ad alcune risorse con particolari esigenze di flessibilità o viene riservato a quadri e manager o, addirittura, è appannaggio unicamente dei consulenti freelance. Dovrebbe, invece, essere frutto di una politica aziendale vera e propria che incoraggia i dipendenti a usufruirne in modo consapevole. Più le risorse saranno libere di utilizzare lo smart working, più saranno in grado di organizzarsi con il proprio team per portare a termine il lavoro anche virtualmente.

Inoltre, il tempo speso dai collaboratori nello stesso ufficio non dovrebbe essere valutato in termini quantitativi, ma qualitativi. Un team di lavoro dovrebbe incontrarsi perché ha realmente necessità di farlo e non perché è 'obbligato' a condividere lo spazio di lavoro quotidianamente. Alcune attività meramente operative, ad esempio, non necessitano della presenza dei colleghi e dovrebbero poter essere svolte dove e quando il professionista desidera. In questo modo, il tempo dedicato alle riunioni di team e allo stare con i colleghi diventa tempo di 'qualità' perché riservato alla parte più importante del lavoro, ovvero alla sfera creativa, all’innovazione e, soprattutto, alla strategia.

Per fare ciò, chiaramente, è necessario uno sforzo maggiore da parte di manager e dirigenti, sottolineano gli esperti, che devono mettere in chiaro fin da subito gli obiettivi da raggiungere e condividere i valori aziendali con tutti i collaboratori. La cultura organizzativa è l’elemento chiave da cui partire se si vuole implementare con successo il lavoro agile. Un ambiente lavorativo rigido e fortemente gerarchico è sicuramente meno affine al concetto di autonomia e pertanto più esposto alle eventuali insidie dello smart working. Una cultura aziendale basata sulla reciproca fiducia, invece, è fondamentale per concedere a tutti la flessibilità di cui hanno bisogno, mantenendo alta la produttività e ottenendo ottimi risultati di business.

La legge sullo Smart Working prevede che datore di lavoro e dipendente sottoscrivano un accordo individuale, sia a tempo determinato che indeterminato, per disciplinare la nuova tipologia di lavoro.

Questo accordo deve definire:

le forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro;

gli strumenti tecnologici utilizzati dal lavoratore;

i tempi di riposo;

l’esercizio del potere di controllo del datore, nei limiti della disciplina dei controlli a distanza;

le condotte legate al lavoro esterno all’ufficio che danno luogo a sanzioni disciplinari.

Il pilastro portante dello Smart Working deve essere un rapporto di fiducia tra il datore di lavoro e il dipendente che, sentendosi più libero di organizzare luoghi e tempi di lavoro, può garantire maggior produttività all’azienda. In questo modo a guadagnarci sono tutti: i dipendenti guadagnano tempo, flessibilità ed energie per esempio sprecate per andare e tornare dal luogo di lavoro; il datore di lavoro ci guadagna in termini di spese per la gestione dell’ufficio che perde di centralità, e in produttività dei dipendenti.



venerdì 16 giugno 2017

Professionisti del digitale, ecco le figure più richieste



Se la trasformazione digitale è sicuramente uno dei tormentoni del momento fra chi si occupa quotidianamente di nuove tecnologie, altrettanto importante il tema delle professioni legate al digitale.

Quali sono le professioni digitali più richieste oggi dal mercato del lavoro? Nella lista delle posizioni ricercate c’è, lo user experience director che gestisce l’esperienza-utente all'interno di spazi complessi (virtuali e fisici). Anche il director of analycs e data analyst è molto richiesto. Si tratta di esperti nella lettura e analisi dei dato. Così come pure lo chief technology officer, che seleziona le tecnologie da applicare a prodotto e servizi offerti dall’impresa. In ascesa sono anche lo sviluppatore mobile, che si occupa di applicazioni per smartphone e tablet, il big data architect, che gestisce l’analisi dell’architettura del sistema dei date il web analyst, che interpreta i dati e fornisce analisi dettagliate sulle attività sul web. Sempre più ricercato anche il digital copywriter, che gestisce contenuti pubblicitari su piattaforme digitali (si web, piattaforme e-commerce, ecc.), il community manager, addetto alla gestione di una comunità virtuale con i compi di progettarne la struttura e di coordinarne le attività, e il digital Pr, che si occupa delle pubbliche relazioni attraverso i canali online. Le aziende cercano anche digital adverser, per la gestione di campagne pubblicitarie sul web, e-reputaon manager per gestire la reputazione online e Seo e Sem specialist, esperti di tecniche che aiutano le aziende a ottimizzare il posizionamento sui motori di ricerca.

Grazie alla crescente importanza dei big data, le figure più ricercate dalle aziende italiane si evidenziano data scientist, data architect e insight analyst. Una grande opportunità dal punto di vista occupazionale che, secondo i consulenti di Hays, una delle società leader nel recruiting specializzato, nei prossimi mesi si concretizzerà in un incremento della richiesta di professionisti capaci di analizzare e gestire grandi quantità di dati.

“Sono sempre di più - spiegano gli esperti di Hays Italia - le aziende in Italia che investono in tecnologie avanzate e personale qualificato per sfruttare al massimo il potenziale dei big data. Le professioni digitali saranno sempre più valorizzate e ricercate dalle imprese e, già nel 2017, la domanda di talenti digitali aumenterà notevolmente, crescendo esponenzialmente entro il 2020”. Infatti, la Commissione Europea calcola che entro il 2020 ci saranno 900.000 posti di lavoro non occupa per mancanza di competenze digitali, più del triplo rispetto ai 275mila nel 2012. E in Italia, secondo un recente studio di Modis, il 22% delle posizioni aperte in questo ambito non trova candida all’altezza.

Per coloro che desiderano intraprendere la carriera in ambito digital, gli esperti di Hays hanno stilato una classifica delle 10 figure professionali sui cui si concentreranno le attenzioni dei recruiter nel 2017.

Data Scientist negli Stati Uniti è già considerato il lavoro numero uno e ci sono varie scuole di pensiero su quale sia la vera definizione. Sicuramente è un professionista con un background accademico molto forte (master o dottorato di ricerca) in discipline quali Statistica, Matematica, Fisica o Economia e profonde conoscenze di Data Mining e Machine Learning. Un bravo data scientist è in grado di identificare e risolvere problemi altamente complessi legati al business, utilizzando tool di analisi avanzati tra cui programmi di statistica come Python, R o Spark. Quest’analisi gioca infatti un ruolo centrale nel processo decisionale fornendo alle aziende gli strumenti necessari per affrontare con successo sfide sempre più complesse.

Un'altra figura richiesta è il data architect, che è capace di dare vita a soluzioni di successo per affrontare al meglio lo scenario dei big data. C'è poi l'insight analyst che utilizza strumenti di analisi statistica per ricavare, da grandi quantità di dati, informazioni a supporto delle strategie di acquisizione e fidelizzazione dei clienti. Dal punto di vista tecnico, gli insight analyst hanno competenze su uno o più strumenti di analisi statistica come sql, sas e spss. Tuttavia, molte aziende sono sempre più interessate al contributo che i linguaggi di programmazione Phyton e R possono fornire in tema di profondità dell’analisi.

Altra figura richiesta è il data engineer, che possiede le competenze per raccogliere, archiviare e lavorare i dati di un’azienda per facilitarne l’analisi. Inizialmente questo prevedeva l’utilizzo di database relazionali per gestire dati archiviabili sotto forma di tabelle, ma, con l’avvento dei big data, le strutture tradizionali per la gestione dei dati non sono più sufficienti. Per questo la figura del big data engineer è chiamata a realizzare e amministrare strutture in grado di gestire quantità di dati ampie e complesse attraverso database NoSQL come MongoDB. Molte aziende utilizzano il framework Hadoop insieme a strumenti avanzati come Hive, Pig e Spark, ma le infrastrutture per la gestione dei Big Data sono davvero numerose.

Lo sviluppatore software ha buone possibilità sul mercato. Non nasce propriamente come professione digital, ma il boom dei big data ha portato a un considerevole aumento delle aziende che realizzano applicazioni web-based. Ormai, infatti, è prassi combinare i tradizionali tool per lo sviluppo di software come Javascript, C# e PHP con framework basati sul linguaggio Python come Django, Pyramid o Flask.

Con il boom delle dashboard e degli strumenti di visualizzazione dei dati, sono sempre più richiesti sviluppatori che abbiano competenze anche nell’utilizzo di piattaforme di analisi dati come Tableau, Qlikview/QlikSense, SiSense and Looker. Stanno ottenendo inoltre grande riconoscimento professionisti con esperienza nell’uso di tool quali d3.js per la creazione di visualizzazioni interattive e di browser web.

Lo sviluppatore Business Intelligence, nella sua forma più semplice, costruisce strutture di dati complesse, partendo dal data storage e arrivando a produrre report e dashboard. Un tempo prerogativa delle divisioni finance e commerciale, la business intelligence costituisce oggi un comparto a sé con sviluppatori che hanno come obiettivo principale proprio la realizzazione di dashboard pronte all’uso per facilitare il compito dei manager che, in questo modo, possono ottenere informazioni chiave sulle performance aziendali al fine di rivederle e migliorarle.

Nel mondo dei Big Data, per poter procedere con l’analisi, la priorità è sicuramente l’organizzazione del flusso di dati. La business intelligence e la data science non possono prescindere dall’avere a disposizione strutture di dati ben organizzate e pronte all’uso ottenute anche attraverso l’impiego di tool di gestione come SQL Server, Oracle e database SAP. Un professionista esperto nella gestione di dati e processi ETL (Estrazione, Trasformazione e Caricamento) rappresenta un must per molte aziende.

Programmi fedeltà, strumenti di web analytics, Internet of things hanno portato a un consistente flusso di dati sui comportamenti dei consumatori online che le aziende utilizzano sempre di più a sostegno delle loro strategie di crescita. Le divisioni marketing, in particolare, sono chiamate ad elaborare campagne sempre più mirate che tengano conto di questi dati. I campaign analysts sfruttano le loro competenze nell’utilizzo di Excel e di strumenti per l’analisi di dati come SQL per fornire una fotografia dettagliata dei consumatori, permettendo così alle campagne di digital marketing di raggiungere il corretto target audience.

Se a ciò si aggiunge poi l’utilizzo di software per la gestione delle campagne come Adobe Campaigns, le aziende possono assicurarsi che le loro strategie marketing colpiscano nel segno andando a soddisfare i bisogni reali del mercato di riferimento. Per tutte le società che mirano a ottenere il massimo rendimento dal potenziale dei big data, nominare un chief data officer è fondamentale. Il numero di questi professionisti è passato da soli 400 nel 2014 a oltre 1.000 nel 2015 e si stima che per il 2019 il 90% delle grandi aziende avrà un chief data officer.

Il ruolo del cdo Lavoro è variegato e complesso e comprende un ventaglio di competenze tra cui data infrastructure, data governance, data security, business intelligence, analisi degli insight e analisi avanzata. Questa figura professionale non solo deve essere tecnicamente competente, ma deve anche essere in grado di capire e guidare gli obiettivi aziendali e i processi di cambiamento a livello manageriale per allinearsi al business plan della compagnia.


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