martedì 28 giugno 2016

Lavoro agile e smart working 2016: le differenze



Lo smart working (lavoro agile) è una prestazione di lavoro subordinato prestata, parzialmente, all’interno dei locali aziendali e dietro i soli vincoli di orario massimo desunti dalla legge e dalla contrattazione collettiva.

Ovvero, il telelavoro, il papà dello smart working, è andato in soffitta, e si apre una nuova era. Almeno dal punto di vista delle tutele, perché - come riportano i dati dell'Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano - quasi il 50% delle grandi aziende sta già sperimentando questo tipo di prestazione.

Sono diversi gli aspetti innovativi dello smart working rispetto al telelavoro, di cui non si applicano né le norme né i contratti collettivi. Nel lavoro agile il lavoratore ha la possibilità di utilizzare strumenti tecnologici propri ovvero assegnatigli dal datore di lavoro. E’ quest’ultimo, in tal caso, il soggetto responsabile dei rispettivi sicurezza e funzionamento.

Nel telelavoro, di norma, è il datore di lavoro il responsabile della fornitura, dell’installazione e della manutenzione degli strumenti necessari, a meno che il telelavoratore non utilizzi strumenti propri.
Qualora il telelavoro venga svolto regolarmente, il datore di lavoro è responsabile della compensazione o copertura dei costi che derivano direttamente dal lavoro. Il datore di lavoro, infine, deve fornire al telelavoratore i supporti tecnici richiesti per compiere la prestazione lavorativa.

Punto comune tra telelavoro e smart working è la volontarietà del datore di lavoro e del dipendente. Il telelavoro può costituire l’esito di un “successivo impegno assunto volontariamente”; lo smart working è sempre subordinato alla conclusione di un accordo scritto tra le parti, che regola le modalità con cui svolgere il servizio prestato al di fuori dei locali aziendali, anche con attinenza alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro ed agli strumenti adoperati dal lavoratore.

L’accordo può essere a tempo determinato o indeterminato; se indeterminato il recesso può verificarsi dietro un preavviso che non  deve essere inferiore a 30 giorni. In presenza di un giustificato motivo, invece, se l’accordo è a tempo determinato, le parti possono recedere prima della scadenza del termine, mentre possono farlo senza preavviso se l’accordo è a tempo indeterminato.

l 18 febbraio 2016 è stato presentato la legge denominata “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l'articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato” , che dal 25 maggio 2016 è all'esame delle Commissioni parlamentari Il capo II è appunto interamente dedicato al c.d. lavoro agile, che come noto è uno strumento e non una tipologia contrattuale . Finora infatti la nostra normativa non aveva regolamentato lo smart working, mentre  il telelavoro è regolamentato per legge solo nelle pubbliche amministrazioni. Ma da qualche anno sia il telelavoro sia lo smart working si sono diffusi nel settore privato in diverse grandi aziende sulla base di accordi collettivi, a cui in parte si rifà il testo in esame. La modalità di svolgimento della prestazione svolta dal lavoratore agile si differenzia da quella del telelavoro che si caratterizza perché l’attività lavorativa   “viene regolarmente svolta al di fuori dei locali” dell’azienda. Ci si chiede  inoltre se l’espressione “lavoro agile” può essere considerata una traduzione efficace dell’inglese “smart working”, molto utilizzata di recente. Lo “smart working” ed il “lavoro agile”  non paiono comunque essere “perfetti equivalenti”. Il loro utilizzo si presta a sottolineare aspetti diversi di un modello di lavoro del futuro. Nel caso di “lavoro agile” si sottolinea un’indipendenza attiva, ma parziale, legata ai tempi di vita e di lavoro, nel caso di “smart working” si esprime invece un lavoro più caratterizzato dalle competenze della persona.

Conciliare, innovare e competere. Sono questi i tre diversi obiettivi, apparentemente antitetici, dello smart working che si configura come un nuovo approccio all'organizzazione aziendale, in cui le esigenze individuali del lavoratore si contemperano, in maniera complementare, con quelle dell’impresa.

Lo smart working implica un nuovo modello di organizzazione del lavoro, in cui sono fondamentali questi tre elementi:

Risorse umane. È necessaria una nuova ottica da parte del personale che deve essere pronto a rivedere il proprio ruolo in un’ottica di flessibilità e disponibile a creare maggiori sinergie con il management.

Tecnologia.  Le modalità di lavoro sono “agili” e tecnologicamente avanzate e l’accesso ai dati aziendali deve essere possibile da remoto, consentendo forme di lavoro più efficienti e altamente personalizzate.

Monitoraggio costante. È indispensabile un’analisi dei risultati del lavoro per valutare l’efficienza del personale a seguito dell’introduzione del nuovo modello organizzativo del lavoro.
Quali sono le opportunità e le possibili criticità? Per il lavoratore un maggiore controllo nel bilanciare il rapporto lavoro-famiglia e i ritmi lavorativi con quelli giornalieri, implica un aumento della propria soddisfazione lavorativa con ripercussioni positive anche in termini di produttività e contenimento dei tassi di assenteismo. Dall’altro lato, gli aspetti negativi riguardano un minor coinvolgimento nelle dinamiche di apprendimento del know-how attraverso l’osservazione dei colleghi e l’isolamento e la mancata integrazione rispetto alla “squadra” di lavoro.

Si tratta di aspetti che possono essere valutati e risolti in sede di definizione dell’organizzazione del telelavoro, specificando le modalità di coordinamento tra unità operativa e lavoratore. In particolare, la valutazione delle performance del telelavoratore è ancor più indispensabile in questo modello organizzativo. A tal fine risulta utile l’individuazione di indicatori o parametri obiettivi quali: numero email inviate, numero telefonate svolte, numero di clienti e la loro soddisfazione ecc.

E’ fondamentale per un positivo esito dello smart working il confronto costruttivo delle parti sociali sulle modalità organizzative e la comunicazione tra i soggetti coinvolti così come indicato nelle disposizioni comunitarie.


domenica 26 giugno 2016

NASPI 2016 estesa per i lavoratori stagionali


Niente Naspi dimezzata per i lavoratori stagionali, penalizzati dall'entrata in vigore dei nuovi ammortizzatori sociali del Jobs Act: a chiedere al Governo di intervenire sono tre risoluzioni discusse in commissione Lavoro alla Camera, presentate da diversi schieramenti politici. Il punto è il seguente: con la vecchia “Aspi”, l’assicurazione per l’impiego introdotta dalla Riforma Lavoro 2012, gli stagionali che lavoravano fino a sei mesi l’anno ne percepivano altrettanti di sussidio.

La NASPI, invece, funziona come per i dipendenti a tempo indeterminato, prevedendo un numero di mensilità pari alla metà delle settimane lavorate nell’ultimo quadriennio. Ma non si possono conteggiare eventuali periodi lavorativi che abbiano già dato luogo a precedenti trattamenti. Risultato: un lavoratore stagionale che lavora sei mesi nel 2016 prende tre mesi di NASPI anche se ha precedenti periodi di lavoro negli anni scorsi e ha utilizzato l’ASpI di cui aveva diritto.

La norma contestata è quella relativa all’articolo 5 del Dlgs 22/2015 (il decreto legislativo del Jobs Act che introduce i nuovi ammortizzatori sociali),  il quale prevede le regole sopra esposte per il calcolo della NASPI. Il successivo Dlgs 148/2015 prevede una fase transitoria per i lavoratori stagionali del turismo e degli stabilimenti termali, limitatamente alle cessazioni dal lavoro intervenute tra il 1° maggio e il 31 dicembre 2015, che abbiano dato luogo a eventuali prestazioni di disoccupazione ordinaria con requisiti ridotti e mini-ASpI 2012 fruite negli ultimi quattro anni. Quindi, in questi casi si possono conteggiare anche i periodi che hanno già dato luogo a prestazioni di sostegno al reddito.

Nell’ambito del dibattito sulle tre mozioni che chiedono di aumentare la NASPI per ilavoratori stagionali, la Commissione Lavoro ha ascoltato i sindacati confederali, i quali hanno sottolineato come le regole sulla NASPI penalizzano quasi 300mila stagionali del settore turismo e termale che rischiano di trovarsi un sussidio dimezzato.

«La stagionalità della domanda turistica è un male cronico del nostro sistema», la Naspi comporta che a pagare lo scotto di un deficit strutturale siano i soli lavoratori e le imprese che della professionalità di questi lavoratori si avvalgono», con il rischio di far fallire «interi sistemi turistici locali (soprattutto al Sud)».

Ricordiamo infatti che gli stagionali, a seguito dell'entrata in vigore del decreto Jobs Act per il riordino delle norme sugli ammortizzatori sociali, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183, ha previsto nuovi requisiti e condizioni per la concessione della cassa integrazione ordinaria e straordinaria, i fondi di solidarietà, l'indennità di disoccupazione Naspi per 24 mesi anche dopo il 2016, l'assegno di ricollocazione ASDI per i disoccupati che non trovano ancora lavoro dopo 6 mesi dal termine dell'indennità, e per i lavoratori stagionali NASPI solo una salvaguardia per l'anno precedente e solo per il settore del turismo.

Perché i lavoratori stagionali sono stati penalizzati dalla NASPI? L'introduzione a partire dal 1° maggio della nuova NASPi ha fatto nascere non pochi malumori tra i lavoratori stagionali per non parlare delle associazioni di categoria al quanto perplesse dal fatto che il nuovo metodo di calcolo utilizzato per determinare la durata dell'indennità e dai requisiti di accesso resi ancor più astringenti, abbiano fortemente penalizzato i lavoratori, specialmente quelli del settore turismo dal momento che questa tipologia contrattuale è quella maggiormente utilizzata per il lavoro estivo ed invernale.

Infatti, in base a quanto sancito dal decreto legislativo 22/2015, il diritto alla NASpI è per i disoccupati che nei 4 anni precedenti alla data di cessazione del rapporto di lavoro, possono vantare almeno 13 settimane di contributi versati e almeno 30 giorni di lavoro effettivo nei 12 mesi precedenti lo stato di disoccupazione.

Per cui se con la mini-aspi gli stagionali potevano contare su 6 mesi di disoccupazione a fronte di 6 mesi di lavoro, oggi, con la NASPi tale periodo è ridotto a 3 mesi, perché sulla base dell'articolo 5 della legge, l'indennità spetta per un numero di settimane pari alla metà delle settimane di contributi versati negli utlimi 4 anni.

Per la Naspi stagionali, il decreto attuativo in materia di riordino ammortizzatori sociali, ha previsto una salvaguardia per il solo anno 2015, per i cd. lavoratori stagionali ma esclusivamente del settore turismo.

Cosa prevedeva la nuova salvaguardia per gli stagionali? Prevedeva che per i soli eventi di licenziamento involontario verificati dal 1° gennaio 2015 al 31 dicembre 2015, i lavoratori stagionali del settore turismo potevano, ai fini di calcolo NASPI e durata dell'indennità, non computare i periodi di mini aspi o di disoccupazione con requisiti ridotti, percepiti negli ultimi 4 anni.


Lavoro: malati gravi diritto al part time




Ai lavoratori affetti da patologie oncologiche o da altre gravi patologie cronico-degenerative, per i quali residui una ridotta capacità lavorativa anche a causa degli effetti invalidanti di terapie salvavita, è riconosciuto il diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale.

Ai lavoratori affetti da malattie gravi, come le patologie oncologiche per i quali residui una ridotta capacità lavorativa o altre patologie cronico-degenerative, il datore di lavoro non può rifiutare il passaggio dal rapporto d lavoro a tempo pieno al part-time. Questo vale tanto nel privato quanto nel pubblico, come previsto dalla Legge Biagi (Dlgs 276/2003) e dal più recente Dlgs 81/2015 attuativo del Jobs Act.

La trasformazione da tempo pieno a tempo parziale può essere verticale, nel caso in cui la riduzione dell’orario di lavoro è prevista in relazione all’orario normale giornaliero, orizzontale, quando l’attività lavorativa viene svolta a tempo pieno ma limitatamente a periodi predeterminati nel corso della settimana, del mese o dell’anno.

Su richiesta del lavoratore il rapporto a tempo parziale deve essere trasformato nuovamente in rapporto a tempo pieno. Il ministero del Lavoro, con la circolare 40/05, ha precisato che la richiesta del lavoratore non può essere negata anche se possono essere fatte valere contrastanti esigenze aziendali e che le parti si dovranno accordare sul nuovo orario di lavoro e sulla sua collocazione temporale, che può essere di tipo orizzontale, verticale o misto ma che deve prioritariamente tenere in considerazione le specifiche esigenze del lavoratore.

Nel decreto attuativo del Jobs Act viene inoltre prevista la possibilità, per il lavoratore che necessita di cura connesse a malattie gravi, di richiedere, in alternativa al passaggio al part-time, la fruizione del congedo parentale.

L’obiettivo generale della norma è tutelare la salute dei lavoratori ma anche la loro professionalità e la partecipazione al lavoro come importante strumento di integrazione sociale e di permanenza nella vita attiva. Per questi motivi la richiesta del lavoratore affetto da invalidità rappresenta una potestà che non può essere negata sulla base di contrastanti esigenze aziendali.

Il datore di lavoro può però pattuire con il lavoratore la quantificazione della riduzione dell’orario di lavoro e la scelta il part-time orizzontale o verticale. Nello stabilire tali opzioni organizzative, tuttavia, dovrà essere data priorità alle esigenze individuali specifiche del
lavoratore e non a quelle dell’azienda.

Il rapporto di lavoro potrà poi essere successivamente convertito nuovamente in tempo pieno su richiesta del lavoratore, si tratta di un suo diritto soggettivo, in caso di miglioramenti nello stato di salute.

Non vi è, invece, alcun diritto di chiedere la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale se la malattia colpisce il coniuge, i figli o i genitori del lavoratore o della lavoratrice e questi abbiano necessità di assistenza continua. L’articolo 8, comma 4, del Dlgs 81/15 stabilisce, infatti, che il lavoratore dipendente ha semplicemente la priorità nella trasformazione del contratto, da tempo pieno a tempo parziale, in caso di patologie oncologiche o gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti riguardanti il coniuge, i figli o i genitori del lavoratore o della lavoratrice.

Tale priorità può essere fatta valere anche se il lavoratore o la lavoratrice assiste una persona convivente con totale e permanente inabilità lavorativa definita grave ai sensi dell’Legge 104/92 e che abbia, quindi, necessità di assistenza continua.

E' utile ricordare che l’Inps, con la circolare 136/03 ha considerato sufficiente un’unica certificazione del curante che attesti la necessità di trattamenti ricorrenti comportanti incapacità lavorativa e che li qualifichi l’uno ricaduta dell’altro. Gli interessati devono inviare la certificazione prima dell’inizio della terapia, fornendo anche l’indicazione dei giorni previsti per l’esecuzione. A tale certificazione dovranno far seguito, sempre a cura degli interessati, periodiche dichiarazioni della struttura sanitaria riportanti il calendario delle prestazioni effettivamente eseguite, le sole che danno titolo all’indennità.


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