martedì 15 aprile 2014

Contratto di lavoro flessibile cosa cambia con il Decreto lavoro n. 34/2014




È inammissibile perché trova la sua ratio politica nella stessa retorica che ha accompagnato ogni riforma del mercato del lavoro che è stata introdotta nel nostro ordinamento negli ultimi quindici anni e secondo cui con l’aumento della cosiddetta “flessibilità” si avrebbe come effetto un aumento dell’occupazione.

Ma non vi è alcun nesso causale tra l’aumento della flessibilità e l’aumento dell’occupazione. Se si osservano i dati sull’occupazione dal 2004 ad oggi vediamo che, al netto della crisi, la progressiva riduzione dei diritti dei lavoratori  ha avuto come unica conseguenza la perdita di potere contrattuale con un’incidenza sul  reddito dei lavoratori a dir poco drammatica.

Dopo la Riforma del Lavoro del Governo Monti (elaborata dal Ministro Fornero) e le successive modifiche e integrazioni operate dal Governo Letta (Ministro Giovannini), il nuovo Esecutivo Renzi ha delineato un nuovo programma di riforme che interessano Mercato del Lavoro e Welfare, incentrato sul Jobs Act: testi, proposte di Sindacati e Confindustria, implicazioni per i dipendenti sulle modifiche all'Articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Decreto Lavoro del governo Renzi (Decreto Legge Poletti 34/2014) ha modificato i contratti a termine, ridimensionando alcune novità della Riforma Lavoro 2012: l’obiettivo è rendere più flessibili le assunzioni a tempo determinato e quindi più vantaggiose per i datori di lavoro, incentivando una formula di occupazione più stabile rispetto ai contratti atipici, troppo spesso sinonimo di precarietà e più rispondente alle mansioni svolte rispetto a tante collaborazioni e consulenze a Partita IVA che mascherano un rapporto di lavoro subordinato. Le modifiche del Decreto, mirano a ridurre per l’azienda il rischio di contenziosi pur salvaguardando per il lavoratore le diverse tutele.

Per il giuslavorista Pietro Ichino, su questa nuova disciplina – che nei fatti produce una liberalizzazione dei contratti a termine – potrebbe sollevarsi un dubbio di compatibilità con le regole poste dalla Direttiva UE 99/70/CE visto che riduce drasticamente i limiti alla reiterazione di contratti. Inoltre, accentua la differenza reale tra assunti a termine e a tempo indeterminato.

Un limite superabile con l’inserimento nel DL della norma sull’indeterminato a protezioni crescenti, disponendo anche una «modesta indennità di cessazione proporzionata all’anzianità, sostitutiva del filtro giudiziale, identica per tempo indeterminato e determinato acausale. Solo in questo modo si otterrà di sdrammatizzare l’alternativa fra le due forme di contratto».

Un altro giuslavorista, Michele Tiraboschi, teme per il DL l’inefficacia nel lungo termine: «la liberalizzazione può produrre nel breve periodo maggiore occupazione, ma nel tempo questa  deregolamentazione del contratto a termine indica mancanza di visione d’insieme su politiche e impianto sistematico del diritto del lavoro che, anche per il contratto di apprendistato, «sembra ora scardinato». In più, secondo Tiraboschi, invece di diminuirli la nuova norma potrebbe causare un aumento dei contenziosi: «liberalizzazione del termine non intacca il principio legislativo della centralità del lavoro subordinato a tempo indeterminato, con ciò aprendo la strada a interpretazioni restrittive dei giudici, specie sulle proroghe che non sono adeguatamente regolate».

Per Giuliano Cazzola (Università Ecampus), «la riforma del contratto a termine ridurrà il contenzioso. Prima il “causalone” sottoponeva le imprese alla roulette russa dei tribunali».Positivo anche il potenziamento della «centralità al momento dell’assunzione, sia rispetto al contratto a tempo indeterminato, sia nei confronti delle forme atipiche, il cui utilizzo è adesso a rischio di sanzione dopo le modifiche a “giro di vite” introdotte dalla legge n. 92 del 2012». Cazzola ritiene infine «meno interessante il ricorso ad un eventuale contratto unico a tempo indeterminato e a tutela crescente, perché ben pochi datori di lavoro ne faranno uso potendo avvalersi per un triennio di un contratto a termine liberalizzato e molto meno complicato, all’atto della risoluzione».

Garantire il salario minimo con una legge che preveda il carcere per i datori di lavoro che non la rispettano, un contratto nazionale che agisca solo qualora sul territorio non si siano raggiunti accordi di secondo livello così da aiutare la produttività e una “rivoluzione delle relazioni sindacali” che punti proprio sugli accordi di secondo livello.

Il D.L. n. 34/2014 è contrario alla normativa comunitaria (Direttiva 1999/70) in materia di contratti a tempo determinato.

Tale disciplina prevede che ciascuno degli Stati membri debba rispettare rigorosi principi di limitazione della temporaneità dei contratti e ribadisce la regola per cui il rapporto di lavoro è a tempo indeterminato, vietando inoltre agli ordinamenti nazionali di porre riforme peggiorative in materia (“clausola di non regresso”).

La nuova disciplina prevede la possibilità di stipulare contratti a tempo determinato a-causali (ovvero senza giustificazione) della durata complessiva di 36 mesi, all’interno dei quali è altresì possibile effettuare fino a 8 proroghe per ciascun contratto (con l’aberrante effetto di poter stipulare fino a 288 proroghe in 36 mesi senza motivazione alcuna – qui trovate un breve video che ne illustra le rovinose conseguenze).

Allo stesso modo è illegittima la riforma nella parte in cui viene modificato il contratto di apprendistato: eliminando ogni obbligo da parte dell’azienda di effettuare l’attività di formazione ai lavoratori apprendisti viene meno la causa stessa del contratto.

È evidente che nessuno assumerà più lavoratori con contratti a tempo indeterminato, così come evidente che i lavoratori assunti con questi nuovi tipi di contratti si guarderanno bene dall’avanzare richieste e rivendicare diritti sapendo che in qualsiasi momento potrebbero essere lasciati a casa.

Non è tollerabile perché in questo modo il diritto al lavoro perde definitivamente ogni valore e con esso buona parte dei principi costituzionali che reggono il nostro ordinamento, dal momento in cui ogni accesso al lavoro avviene attraverso forme contrattuali che si fondano sul ricatto e lo sfruttamento della forza lavoro rispetto ai quali i lavoratori non avranno più alcuno strumento di difesa.


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