Il Jobs Act da pochi giorni è ufficialmente in vigore. La nuova legge, nelle intenzioni, dovrebbe incentivare le assunzioni a tempo indeterminato, perché prevede per l’imprenditore l’esonero contributivo e il taglio dell’Irap per i primi tre anni. A ben vedere però pare che sia stata istituita la figura del lavoratore «precario per sempre» vista la facilità con cui potrà essere licenziato per ragioni disciplinari o economiche e la cancellazione della possibilità di «reintegra», il cui campo di applicazione si riduce moltissimo anche nel primo caso quando resta possibile solo se in giudizio viene dimostrata l’insussistenza del contestato (per esempio l’azienda accusa di arrivare sempre in ritardo ma il cartellino dimostra che non è così).
A fronte di un licenziamento, un lavoratore a cui si applica il contratto a tutele crescenti potrà rientrare in azienda, per decisione del giudice, solo in tre casi: il recesso è nullo, è discriminatorio, oppure è stato intimato per una contestazione disciplinare basata su un fatto materiale inesistente.
Il reintegro nel posto di lavoro da parte del giudice resta possibile, come già avviene adesso, per i licenziamenti discriminatori, cioè quelli decisi dal datore di lavoro sulla base di convinzioni politiche o religiose oppure per l’orientamento sessuale. Mentre il suo campo di applicazione si riduce di parecchio per i cosiddetti licenziamenti disciplinari, cioè quelli adottati sulla base del comportamento del dipendente. Qui la strada del reintegro resta possibile solo in un caso: quando in giudizio viene direttamente dimostrata l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore. L’azienda accusa di arrivare sempre in ritardo, ad esempio, ma le strisciate del cartellino del lavoratore dimostrano che non è così. L’onere della prova è a carico del dipendente. In tutti gli altri casi, invece, c’è solo l’indennizzo economico. L’accertamento del giudice non può riguardare l’eventuale sproporzione della sanzione del licenziamento rispetto al fatto contestato. Anche se dovesse considerare la punizione «esagerata», il magistrato non potrebbe disporre il rientro in azienda del lavoratore. In caso di reintegro, il dipendente deve riprendere servizio entro 30 giorni. Se rinuncia ,può chiedere di «convertire» il reintegro in un’indennità pari a 15 mensilità.
Un licenziamento viene considerato discriminatorio se determinato da motivi di natura politica, razziale o di lingua oppure se basato sul sesso od orientamenti sessuali, convinzioni personali, handicap. È nullo, per esempio, se fatto a voce (anche per le procedure collettive) o in violazione delle norme a tutela della maternità.
Nell'ipotesi in cui si accerti il carattere nullo o discriminatorio del recesso, il giudice stabilisce la reintegrazione del dipendente, che ha anche diritto a un risarcimento commisurato alle retribuzioni perse tra il licenziamento e il rientro in azienda, con un minimo di cinque mensilità, nonché al versamento da parte del datore di lavoro dei relativi contributi previdenziali e assistenziali.
In alternativa, il dipendente può scegliere di non ritornare al suo posto di lavoro e di incassare un'indennità aggiuntiva pari a 15 mensilità dell'ultima retribuzione. Tale decisione deve essere presa entro 30 giorni dall'invito a ritornare al lavoro o dalla comunicazione del deposito della pronuncia del giudice. Queste regole valgono indipendentemente dalle dimensioni dell'azienda.
Non così accade, invece, a fronte di un licenziamento disciplinare di cui si accerti l'insussistenza materiale del fatto contestato, onere che ricade sul dipendente. Infatti, il comma 1 dell'articolo 9 del Dlgs 23/15 stabilisce che per le imprese più piccole (quelle fino a 15 addetti nello stesso comune o fino a 60 in più località) non c'è comunque la reintegrazione e il dipendente deve accontentarsi della compensazione economica. Invece se il giudice stabilisce l'insussistenza del fatto in riferimento a un licenziamento intimato da una realtà di maggiori dimensioni, scatta la reintegrazione e il pagamento, a carico del datore di lavoro, di un'indennità commisurata alla retribuzione di riferimento per il periodo in cui è rimasto senza impiego (ma comunque non superiore a 12 mensilità), tolto quanto eventualmente percepito a fronte di altre attività svolte nel frattempo o quanto avrebbe potuto guadagnare accettando un'offerta di lavoro congrua in base a quanto stabilito dal decreto legislativo 181/00 (le stesse condizioni che possono far perdere lo status di disoccupato). Anche in questo caso il lavoratore, in alternativa alla reintegra, può chiedere un'indennità ulteriore pari a 15 mensilità.
Anche per i vecchi contratti, la possibilità di demansionare i dipendenti e ridurre gli stipendi unilateralmente da parte del datore di lavoro per «modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore», formula che vuol dire tutto e niente e che è un presupposto tutto nelle mani dell’azienda. E grazie a un decreto del 2011 il lavoratore, in deroga alla legge, potrà perdere anche più di un livello di inquadramento. Il demansionamento potrebbe avvenire anche in senso orizzontale, magari inserendo il lavoratore in un settore in via di dismissione. E se il decreto facilita il declassamento del lavoratore, al tempo stesso ne rallenta il passaggio a un livello più alto, cosa che prima diventava definitiva dopo tre mesi di lavoro in quell'attività, adesso dopo sei.
Con il Jobs Act il lavoratore può essere convinto o indotto ad accettare livelli inferiori di tutela, sul piano delle mansioni ma anche della retribuzione, perché l’azienda può metterlo di fronte a un bivio, soprattutto nel caso dei neo assunti:o accetta le sue condizioni o sarà licenziato con un indennizzo di poche mensilità. Si aprono così le porte a possibili casi di mobbing legalizzato.
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