A seguito della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale dei D.Lgs. n. 22/2015 e 23/2015, entrati in vigore il 7 marzo scorso, cambiano le regole per le aziende che intendono assumere personale con contratto a tempo indeterminato. Per i neo assunti, infatti, si applica il rinomato “contratto a tutele crescenti” che prevede importanti modifiche in caso di licenziamento illegittimo. In pratica, sono previste tutele crescenti per il lavoratore in funzione dell’anzianità di servizio. Le nuove regole, tuttavia, non si applicano soltanto ai neo assunti, ma anche ai lavoratori che vengono stabilizzati e a tutti i lavoratori, anche se assunti prima del 7 marzo 2015, nel caso in cu il datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute dopo l’entrata in vigore del decreto, superi la soglia dei 15 dipendenti.
A continuazione del licenziamento, il datore di lavoro può offrire al dipendente un importo esentasse equivalente a una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del Tfr per ogni anno di servizio (con un minimo di due mensilità e un massimo di 18). Se la soluzione conciliativa dà esito negativo, uno degli scenari che può prefigurarsi è quello del ricorso al giudice del lavoro.
A tale proposito, non potrà essere più utilizzato il rito Fornero, in quanto il decreto pubblicato ieri in Gazzetta Ufficiale prevede espressamente che le disposizioni dell'articolo 1, commi da 48 a 68, della legge 92/12 non si applichino ai licenziamenti intimati all'esito del contratto di lavoro a tutele crescenti.
La relazione illustrativa al decreto legislativo chiarisce che la ragione alla base della decisione di eliminare il rito Fornero per i nuovi contratti di lavoro a tutele crescenti risiede nel fatto che il nuovo apparato sanzionatorio è totalmente svincolato dal precedente regime di tutela previsto dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che costituisce, invece, la norma di riferimento sulla quale era stato ritagliato il rito abbreviato per le controversie in materia di impugnazione dei licenziamenti.
La legge 92/12 aveva introdotto il rito abbreviato con il preciso scopo di agevolare e rendere più rapida la conclusione delle controversie sui licenziamenti regolati dall'articolo 18 in una funzione, tra l'altro, di tutela delle imprese rispetto al danno economico e ai disagi organizzativi che potevano prodursi a causa della durata eccessivamente lunga del processo del lavoro ordinario.
Il rito Fornero ha determinato, peraltro, sin dalla sua prima applicazione enormi disagi sia per gli avvocati, sia per i magistrati chiamati ad utilizzare il nuovo strumento processuale, in quanto si erano palesate letture di segno opposto rispetto ad una serie composita di questioni procedurali. Non si contano le decisioni rese dai Tribunali su aspetti decisivi del nuovo procedimento, quali la natura obbligatoria o facoltativa del rito e la necessità che il giudice dell'opposizione fosse, o meno, diverso da quello che aveva trattato la fase sommaria.
Tutte queste questioni hanno finito per appesantire, invece che semplificare, il ruolo dei magistrati impegnati sul fronte delle cause di lavoro, tanto che in svariati Tribunali si è ritenuto di dover emettere dei veri e propri “prontuari” con le linee guida sull'applicazione del nuovo processo.
Con l'articolo di chiusura del decreto legislativo, il Governo ha deciso di cancellare il rito abbreviato per i nuovi contratti di lavoro a tutele crescenti, ai quali tornerà, dunque, ad applicarsi l'ordinario processo del lavoro anche per le controversie relative all'impugnazione dei licenziamenti.
Il meccanismo previsto dall’ex ministro del Lavoro verrà sostituito da un’offerta di conciliazione (art. 6 del D.Lgs. n. 23/2015). In pratica, il datore di lavoro ha la possibilità di offrire al lavoratore, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, un importo esente da imposizione fiscale e contributiva pari a una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 18 mensilità. L’esito della conciliazione dovrà essere comunicato dal datore di lavoro entro 65 giorni dalla cessazione del rapporto. Qualora il datore di lavoro omette tale comunicazione, dovrà scontare una sanzione che va dai 100 ai 500 euro per lavoratore (50 - 250 euro per le agenzie del lavoro).
I licenziamenti disciplinari tra Jobs act e riforma Fornero. Basta un poco di fatto materiale.
La categoria del “fatto materiale” è tornata, del tutto inaspettatamente, in auge a proposito dell’individuazione della tutela ex art. 18 l. 300/1970 a fronte di un licenziamento disciplinare illegittimo.
La categoria del fatto materiale era stata elaborata all’indomani della riforma c.d. Fornero (legge n. 92/2012) che nell’art.18 conserva la tutela reintegratoria (sia pure nella specie c.d. attenuata) subordinandola all’“insussistenza del fatto contestato” dal datore come giusta causa o giustificato motivo soggettivo.
Era stato allora proposto da più autori di restringere la formula legale alla sola ipotesi di mancanza del fatto materiale contestato; intendendosi, sotto evidente influenza penalistica, la sola mancanza degli elementi materiali dell’illecito disciplinare. E confinando conseguentemente nella categoria residuale delle “altre ipotesi” tutela delle indennità (così genericamente individuate nel 5° comma dell’art.18) tutti gli altri casi in cui fosse invece insussistente l’antigiuridicità, l’imputabilità, la volontarietà della condotta, l’elemento soggettivo ed infine il difetto di proporzionalità. Anche se la mancanza di quest’ultimo requisito può ancora riportare alla reintegra per altra via, quante volte si venga a configurare la seconda ipotesi in presenza della quale l’art.18, 4° comma, riformato dalla legge 92, prevede l’operatività della tutela forte per essere il fatto riconducibile ad una condotta disciplinare “punita con una sanzione conservativa”nei contratti collettivi e codici disciplinari.
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