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venerdì 28 settembre 2018

Jobs act: la Corte costituzionale boccia i criteri sui licenziamenti



Per i licenziamenti illegittimi sarà a discrezione del giudice. È questo l’effetto immediato della sentenza della Consulta che ha ritenuto irragionevole che la misura dell'indennità sia calcolata automaticamente in base alla sola durata del rapporto.

La Consulta ha esaminato il decreto legislativo 23/2015 sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti- il Jobs Act, appunto - e ha bocciato alcune disposizioni contenute nell'articolo 3, comma 1: in particolare, la norma che determina in modo rigido l'indennità che spetta al lavoratore licenziato in modo ingiustificato. Norma che non è stata modificata dal successivo decreto legge n.87/2018 (il cosiddetto Decreto dignità). In sostanza il Jobs Act prevede per il lavoratore licenziato in modo ingiusto, salvo alcuni casi, un'indennità e dunque un risarcimento di due mesi di stipendio per ogni anno di anzianità, entro un limite minimo di 4 mesi di stipendio e massimo di 24 mesi. Se per esempio fosse stato giudicato illegittimo un licenziamento di un lavoratore a tutele crescenti con 4 anni di servizio, questi avrebbe ricevuto un risarcimento di 8 mesi di stipendio. Il Decreto Dignità, approvato ad agosto, ha modificato solo una parte dell'articolo 3: è stato rialzato il limite minimo e massimo dei risarcimenti rispettivamente a 6 e a 36 mesi. L'impianto generale, però, non è stato cambiato: dunque l'indennità resta legata all'anzianità di servizio.

Secondo la Corte, la previsione di una indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore è “contraria ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro” sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione. Tutte le altre questioni sollevate relative ai licenziamenti, invece, sono state dichiarate inammissibili o infondate. La sentenza sarà depositata nelle prossime settimane.

Le nuove tutele crescenti, in vigore dal 7 marzo 2015, hanno marginalizzato la reintegrazione, sostituendola nei licenziamenti economici e in parte disciplinari, con indennizzi monetari crescenti in base all'anzianità di servizio del lavoratore. Oggi, a seguito delle modifiche operate dal decreto Conte di metà luglio, gli indennizzi oscillano da 6 (minimo) a 36 (massimo) mensilità. La scelta del Legislatore del 2015 era quella di fornire certezza sui costi di separazione, sia per le aziende sia per gli stessi lavoratori.

Per la Consulta, con il dispositivo pubblicato, non è in discussione il meccanismo di ristoro economico al posto della tutela reale. Cioè, le tutele crescenti continuano a esistere. A violare la costituzione è piuttosto la previsione di una indennità crescente in ragione della sola anzianità aziendale. Questa previsione, secondo i giudici di legittimità, contrasterebbe con i principi di ragionevolezza e uguaglianza, e, anche, con il diritto e la tutela del lavoro.

Cosa cambierà in pratica? Secondo esperti e giuslavoristi ci sarà il rischio di una ripresa del contenzione nei tribunali del lavoro.

«L’impianto del Jobs act è confermato – spiega il giuslavorista Giampiero Falasca – ma annulla il criterio di quantificazione del risarcimento escludendo che possa legarsi solo all'anzianità lavorativa. Il giudice quindi potrà decidere caso per caso». Fatto salvo comunque il limite minimo di 6 mesi e il massimo di 36 mesi, due soglie ritoccate al rialzo la decreto dignità di questa estate. Prima infatti la forchetta era tra 4 e 24 mensilità.

Sulla stessa lunghezza d’onda Pietro Ichino che ha twittato: «L’effetto pratico sarà un aumento dell’alea del giudizio, quindi del contenzioso giudiziale (i grandi beneficati sono gli avvocati). Ma è probabile che i giudici finiscano col non discostarsi molto dal criterio stabilito dalla legge».

Ovvero cambia l’indennità di risarcimento sui licenziamenti illegittimi per motivi disciplinari ed economici nelle aziende con più di 15 dipendenti. Il giudice non dovrà più stabilirla in base agli anni di servizio, come dice la legge, ma, fermi restando i limiti minimi e massimi dell’indennità (6-36 mesi di stipendio), deciderà il risarcimento al lavoratore valutando la gravità del singolo caso. Per esempio, un dipendente licenziato in modo pretestuoso e che abbia carichi familiari gravosi (figli disabili, genitori anziani, ecc.) potrebbe vedersi riconosciuto un indennizzo pari a 36 mesi di stipendio anche se assunto da poco, contro i 6 mesi cui avrebbe diritto secondo le norme finora vigenti.





giovedì 17 agosto 2017

Guida alla conciliazione dopo il licenziamento





Proponiamo una guida alle tre procedure di conciliazione previste in caso di licenziamento del lavoratore dipendente alla luce della legge vigente.

In caso di licenziamento di un lavoratore è necessario ricorrere alla procedura di conciliazione introdotta dal Jobs Act (Decreto Legislativo n. 23/2015): questo meccanismo è previsto in caso di contenzioso sul lavoro. Alla luce delle diverse normative in vigore, la conciliazione può dunque essere facoltativa, preventiva (nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo) e a “tutele crescenti”.

Vediamole nel dettaglio.

Conciliazione facoltativa
Dal 24 novembre 2010 il tentativo di conciliazione dinanzi alla Commissione della Direzione Provinciale del Lavoro è tornato facoltativo, non più necessariamente propedeutico al ricorso al tribunale (Dlgls 183/2010). Così, in caso di controversia individuale, le parti possono rivolgersi o meno al giudice se la vertenza ha come oggetto:

impugnazione del licenziamento;

pretesa retributiva;

costituzione del rapporto di lavoro;

violazione del dovere di fedeltà;

risarcimento danni;

violazione del patto di non concorrenza;

violazione di obblighi di sicurezza e igiene sul lavoro;

illegittime modalità di attuazione del diritto di sciopero.

La conciliazione facoltativa prevede che il proponente (lavoratore o datore di lavoro) presenti domanda, presso la Segreteria delle Commissioni provinciali, indicando:

generalità delle parti;

luogo della conciliazione;

luogo delle comunicazioni;

esposizione dei fatti;

ragioni che li sostengono.

I funzionari della DTL devono verificare i dati essenziali: se insufficienti vanno integrati, se omessi la procedura non va avanti. Se i dati sono corretti, entro 20 giorni dalla richiesta o dalla ricezione dell’istanza al convenuto, la controparte può depositare le proprie memorie con le contro-difese ed eventuali domande in via riconvenzionale. Nei successivi 10 giorni, i funzionari della DPL devono convocare le parti dinanzi alla commissione o sottocommissione di conciliazione e poi, entro 30 giorni dalla convocazione, deve svolgersi il tentativo di conciliazione.

Nel caso in cui venga espletato, se la conciliazione viene raggiunta anche parzialmente, viene redatto un verbale sottoscritto dalle parti e il giudice del lavoro, su istanza di parte, rende esecutivo il decreto. Se non si raggiunge l’accordo conciliativo, la commissione deve sottoporre alle parti una proposta conciliativa da inserire obbligatoriamente a verbale, con indicazione delle posizioni delle singole parti.

Conciliazione preventiva
La Riforma Fornero (Legge 92/2012) ha modificato l’articolo 7 della legge 604/1966: prima di procedere al licenziamento, il datore di lavoro che abbia i requisiti dimensionali (più di 15 dipendenti nella singola unità produttiva o nell’ambito comunale o più di 60 nell’ambito nazionale) deve esperire una procedura di conciliazione volta all’esame congiunto dei motivi posti a base del recesso e finalizzata al raggiungimento di un eventuale accordo tra le parti (condizione di procedibilità ai fini dell’intimazione del licenziamento: in caso di violazione della suddetta procedura, il licenziamento è illegittimo).

Il datore di lavoro invia alla DTL una comunicazione in cui dichiara l’intenzione di procedere al licenziamento, indicando motivi e misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore. La comunicazione viene trasmessa per conoscenza anche al lavoratore e in seguito la DTL convoca le parti entro 7 giorni dalla ricezione della richiesta. In caso di mancata convocazione entro 7 giorni, il datore di lavoro può procedere al licenziamento. Diversamente, l’incontro si svolge dinanzi alla Commissione di Conciliazione e la procedura deve concludersi entro 20 giorni dalla trasmissione della convocazione, fatta salva l’ipotesi in cui le parti, di comune avviso, ritengano di proseguire la discussione finalizzata al raggiungimento di un accordo.

Se il tentativo di conciliazione ha esito negativo, viene redatto un verbale e il datore di lavoro può comunicare il licenziamento al lavoratore. Il Giudice, nell’ipotesi in cui dovesse ritenere illegittimo il licenziamento, procederà a determinate l’indennità risarcitoria.

Se la conciliazione ha esito positivo e prevede la risoluzione consensuale del rapporto, il lavoratore (in deroga alla disciplina ordinaria) avrà diritto alla nuova disoccupazione NASPI (sostitutiva dell’indennità di disoccupazione).


Conciliazione a tutele crescenti
Introdotta dal Jobs Act, si applica ai contenziosi sorti esclusivamente per lavoratori:

assunti a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015;

trasformati da lavoro a termine a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015;

qualificati da un rapporto di apprendistato dal 7 marzo 2015.

Qualora il datore di lavoro abbia intimato il licenziamento nei confronti di un lavoratore assunto a tutele crescenti, può offrirgli entro 60 giorni, al fine di evitare di andare in giudizio, un importo pari a 1 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 18 mensilità. L’importo non costituisce reddito imponibile ai fini fiscali, né è assoggettato a contribuzione previdenziale. Se il lavoratore accetta, il rapporto si estingue e si rinuncia ad eventuale impugnazione anche qualora il lavoratore l’abbia già proposto. Se il datore di lavoro utilizza questa offerta quale che sia l’esito, è tenuto ad effettuare una comunicazione obbligatoria tramite procedura “UNILAV – Conciliazione“ sul portale Cliclavoro, nella sezione “adempimenti”.







giovedì 6 aprile 2017

Contratto a tutele crescenti e licenziamento




 Tra le principali novità normative realizzate dalla riforma del lavoro Jobs Act, che  ha introdotto il nuovo contratto di lavoro a tempo indeterminato detto "a tutele crescenti"

Il D.LGS 23/2015 di fatto limita l'applicazione dell'art. 18  dello Statuto dei lavoratori. Si esclude infatti  per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l'impugnazione del licenziamento”.

Il regime di tutela nel caso di licenziamento illegittimo:
a) si applica ai lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto;

b) vale anche nei casi di conversione, successiva all'entrata in vigore del decreto, del contratto a tempo determinato o dell’ apprendistato in contratto a tempo indeterminato;

c) nel caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore del decreto, integri il requisito occupazionale di cui all’articolo 18, ottavo e nono comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (il riferimento è al superamento della soglia dei 15 dipendenti).

Nei confronti del datore di lavoro imprenditore o non imprenditore trova applicazione quanto segue:

a) reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto. A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto se il lavoratore non riprende servizio entro 30 giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l'indennità di 15 mensilità

b) risarcimento del danno così calcolato: indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR (dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione) dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso minimo 5 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali

c) in luogo della reintegrazione, fermo restando il diritto al risarcimento del danno, il lavoratore ha facoltà di chiedere al datore di lavoro:
- un'indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale;
entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dall'invito del datore di lavoro di riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione.

E’ prevista una indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità.

La misura è dimezzata nelle piccole imprese e non può superare le sei mensilità.

Esclusa l'applicazione dell'art. 7, l. n. 604/66, che introduce una procedura di conciliazione davanti alla Commissione provinciale di conciliazione presso la Dtl, che il datore di lavoro, avente i requisiti dimensionali previsti dalla legge n. 300/70, deve obbligatoriamente esperire prima di intimare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (si tratta di una condizione di procedibilità).

Annullamento del licenziamento e condanna del datore di lavoro:
a) alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro;

b) al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro; massimo 12 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR;

c) al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, senza applicazione di sanzioni per omissione contributiva.
Il lavoratore può optare per le 15 mensilità.

E’ prevista una indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari a 1 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 12 mensilità, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle tutele previste per i casi di licenziamento per i quali sia ancora prevista la reintegrazione.
L'importo è dimezzato nelle piccole imprese entro massimo 6 mensilità.

In caso di revoca del licenziamento, purché effettuata entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell'impugnazione del medesimo, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti dal decreto in esame.

Al fine di evitare il giudizio e ferma restando la possibilità per le parti di addivenire a ogni altra modalità di conciliazione prevista dalla legge, il datore di lavoro può offrire al lavoratore licenziato, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, in una delle sedi protette (articolo 2113, comma 4, c.c. e articolo 76 del D.Lgs. n. 276/2003), un importo - che non costituisce reddito imponibile ai fini dell’IRPEF e non assoggettato a contribuzione previdenziale- di ammontare pari a 1 mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio; importo minimo 2 e massimo 18 mensilità, mediante consegna al lavoratore di un assegno circolare.

L’accettazione dell’assegno in tale sede da parte del lavoratore comporta l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia alla impugnazione del licenziamento anche qualora il lavoratore l’abbia già proposta. Le eventuali ulteriori somme pattuite nella stessa sede conciliativa a chiusura di ogni altra pendenza derivante dal rapporto di lavoro sono soggette al regime fiscale ordinario.

Attenzione: la comunicazione obbligatoria telematica di cessazione del rapporto è integrata da una ulteriore comunicazione, da effettuarsi da parte del datore di lavoro entro 65 giorni dalla cessazione del rapporto, nella quale deve essere indicata l’avvenuta ovvero la non avvenuta conciliazione; ove omessa si applica la medesima sanzione prevista per l’omissione della comunicazione COB. Il modello di trasmissione della comunicazione obbligatoria è conseguentemente riformulato.

Il decreto contiene, infine, alcune regole di "computo" la cui applicazione viene richiamata anche in tabella.

L'art. 7 specifica che l’anzianità di servizio del lavoratore che passa alle dipendenze dell’impresa subentrante nell’appalto si computa tenendosi conto di tutto il periodo durante il quale il lavoratore è stato impiegato nell’attività appaltata.

L'art. 8 dispone che per le frazioni di anno d’anzianità di servizio, le indennità e gli importi previsti nei seguenti casi
- licenziamento per giustificato motivo oggettivo/soggettivo o giusta causa privo degli estremi (art. 3, comma 1)
- licenziamento affetto da vizi formali/procedurali (art. 4)
- importo offerto in sede di conciliazione (art. 6)
sono riproporzionati e le frazioni di mese uguali o superiori a quindici giorni si computano come mese intero.

Ove il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali dei 15/60 dipendenti :
- non si applica la norma sul licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale;
l'ammontare di indennità/importi previsti è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità.

In caso di licenziamento collettivo ai sensi ex legge n. 223/91 intimato senza l’osservanza della forma scritta, si applica il regime sanzionatorio della reintegrazione; in caso di violazione delle procedure o dei criteri di scelta si applica il regime indennitario.

Ai licenziamenti oggetto del decreto non si applica il rito Fornero (commi da 48 a 68 dell’articolo 1 della legge n. 92 del 2012) identificabile  in una disciplina processuale speciale per le controversie derivanti dai licenziamenti di cui all'articolo 18 della legge n. 300 del 1970.

La legge Fornero, infatti, definisce un rito speciale per le controversie relative all’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi previste dal  citato art. 18, nonché alle questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro.

Le uniche fattispecie che possono portare alla reintegra del lavoratore riguardano:

il licenziamento discriminatorio (determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato, dalla partecipazione ad attività sindacali o ad uno sciopero, nonché discriminazione razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali);

il licenziamento intimato durante i periodi di tutela (primo anno di matrimonio, durante la maternità e fino al compimento di un anno di età del bambino, per fruizione dei congedi parentali);

il licenziamento per motivo illecito ( ex art. 1345 c.c.);

il licenziamento intimato in forma orale.

la misura del risarcimento non potrà essere inferiore ad un minimo di 5 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR.




sabato 28 gennaio 2017

Assegno di ricollocazione rivolto ai disoccupati, come funziona?



A partire da novembre scorso verrà attuata la seconda parte del Jobs Act rivolta a tutti coloro che sono in stato di disoccupazione. Se, infatti, in un primo momento con il Jobs Act a favore dei disoccupati era stata introdotta la Naspi, l’assegno di disoccupazione di cui può beneficiare chi ha perso il lavoro, ora da novembre verrà aggiunta un’ulteriore tutela: l’assegno di ricollocazione.

L’assegno di ricollocamento 2017 per 4 mesi, spetta a:

chi ha già fruito della NASPI;

ma risulta ancora disoccupati da almeno 4 mesi dopo finita l’indennità di disoccupazione;
sottoscrive un nuovo patto di servizio personalizzato.

Partiranno 10-20 mila disoccupati estratti a sorte che incassano la Naspi per almeno 4 mesi.

Assegno di ricollocazione: di cosa si tratta? Quando parte? Chi lo può riscuotere?

Sono tante le domande che si riferiscono all'assegno di ricollocazione. Che comincerà ad essere assegnato a 10-20 mila disoccupati. Si tratta di un progetto “pilota” che servirà a mettere a regime il modello per tutti i senza lavoro d’Italia. Difficile crederci, certo, dopo un’incredibile rassegna di esperienze fallite negli ultimi decenni. Ma l’assegno di ricollocazione si candida a essere la prima vera esperienza di politiche attive del lavoro nel nostro Paese. Tradotto: non si aiuteranno più i disoccupati dando loro semplicemente un assegno (dal primo gennaio 2017 la mobilità non esisterà più). Ma si cercherà di prenderli per mano uno per uno per fornire loro consigli e strumenti utili a ritrovare un lavoro.

L’assegno di ricollocazione non sarà uguale per tutti. L’ammontare dipenderà da quanto è difficile collocare quel preciso disoccupato. L’assegno più basso sarà attorno ai mille euro (la cifra esatta non è ancora stata definita) e sarà assegnato ai profili più facili da ricollocare come per esempio un giovane ingegnere trentenne che cerchi occupazione in provincia di Milano. L’assegno più elevato arriverà a 5.000 euro e riguarderà invece i disoccupati che hanno meno carte da giocare sul mercato del lavoro, potrebbe essere il caso di un operaio cinquantenne in una provincia del Sud ad alto tasso di disoccupazione. Va chiarito subito che il disoccupato non vedrà né banconote né assegni ma riceverà una sorta di buono simbolico da spendere per ottenere un servizio.

Il servizio in questione potrà essere garantito o dai centri per l’impiego o da agenzie per il lavoro private. Toccherà allo stesso disoccupato scegliere a chi si vuole rivolgere. E qui la questione si complica. Perché in certi territori (la Lombardia per esempio) si è imposta negli ultimi anni l’idea che a fornire questi servizi debbano essere i privati. In altre regioni (l’Emilia Romagna, per esempio) i centri per l’impiego hanno ancora un ruolo centrale.

Gli interlocutori sono diversi ma quello che dovranno fornire è sempre la stessa cosa: la presa in carico da parte di un tutor, un colloquio per capire i punti di forza e di debolezza del candidato, un aiuto nello stilare un curriculum, un aiuto nel cercare e fissare colloqui di lavoro. Non rientra nelle competenze del fornitore di servizi il fatto di mettere a disposizione corsi di formazione ma potrà indicare quali lezioni potrebbero essere utili e chi potrebbe fornire un certo tipo di formazione. Tornando ai centri per l’impiego, dovunque toccherà a loro la presa in carico «burocratica» del disoccupato. I centri più strutturati, poi, potranno anche fornire ai disoccupati il servizio di orientamento vero e proprio. Per quanto riguarda le agenzie per il lavoro private, potranno incassare il bonus pieno dell’assegno di ricollocazione soltanto se il disoccupato viene assunto, e a tempo indeterminato. Il bonus di dimezzerà nel caso l’assunzione sia a termine e così via declassando. Nel caso il lavoratore non venisse assunto all'agenzia sarà riconosciuta una quota dei costi sostenuti per i colloqui.

L’assegno di ricollocazione spetta ai disoccupati che hanno almeno quattro mesi di Naspi. La Naspi è stata istituita il primo maggio dell’anno scorso quindi sono già numerosi i disoccupati che l’hanno già ricevuta per almeno quattro mesi. Si parla di poco meno di centomila disoccupati al mese che entrano in Naspi. E’ all’interno di questa platea che l’Anpal, la nuova agenzia per le politiche attive del lavoro, estrarrà a sorte un campione di oltre 10 mila disoccupati rappresentativo di coloro che hanno diritto all’assegno di ricollocazione. L’obiettivo è testare l’assegno ed eventualmente modificare il modello prima di metterlo a regime. Prima di partire con la sperimentazione sarà però necessario dare il via al nuovo portale dell’Anpal (in sostituzione dell’attuale cliccalavoro) a cui tutti i disoccupati saranno chiamati a iscriversi. Questo passaggio dovrebbe avvenire già nel mese di novembre. Dopo di ché sarà inviata per posta una lettera ai 10 mila disoccupati selezionati per la sperimentazione tra coloro che hanno ricevuto almeno quattro mesi di Naspi. Nella missiva sarà presente un codice e una password. Con questi elementi il disoccupato accederà a una parte riservata del sito dove potrà vedere a quanto ammonta il suo assegno e potrà anche decidere dove spenderlo (agenzia privata o collocamento). Prima di iniziare l’attività di orientamento vera e propria, però, sarà indispensabile formalizzare la presa in carico al centro per l’impiego.

Per l’operatività a regime dell’assegno di ricollocazione bisognerà aspettare il 2017. Anche per quanto riguarda la sperimentazione, chi riceverà la lettera dell’Anpal non sarà tenuto a rispondere e a «incassare» l’assegno. Chi si mette in gioco avrà più possibilità di trovare un lavoro. Ma allo stesso tempo se non si presenterà ai colloqui si vedrà decurtata la Naspi. A comunicare all’Inps i mancati adempimento del disoccupato sarà direttamente il centro per l’impiego. Fin d’ora si può immaginare che non tutti i disoccupati si renderanno disponibili. Di certo chi incassa la Naspi e nello stesso tempo lavora in nero potrebbe non averne convenienza.


martedì 20 dicembre 2016

Call center: le novità per il 2017



Per call center si intende l'insieme dei dispositivi, dei sistemi informatici e delle risorse umane in grado di gestire le chiamate telefoniche da e verso un'azienda. L'attività di un call center può essere svolta da operatori specializzati e/o risponditori automatici interattivi. Nei call center è definito inbound quell'operatore che lavora in ricezione telefonate: è il cliente a chiamare il call center, da un telefono fisso o mobile, e il lavoratore si limita a rispondere alle domande o a fornire l'assistenza richiesta. Nei call center si definisce invece outbound quell'operatore che lavora sulle telefonate in uscita. È dunque il call center, attraverso questo operatore, che contatta i clienti chiamandoli al telefono (soprattutto a quello di casa) per proporre offerte, prodotti o fare sondaggi e inchieste di mercato.

A partire dal 1° aprile 2017 cambiano le regole per i call center localizzati al di fuori dell’UE., ovvero i call center dovranno obbligatoriamente informare l’utente sul luogo in cui si trova l’operatore che parla al telefono e, nel caso in cui il cliente lo richieda, saranno obbligati a trasferire immediatamente, senza attaccare, la chiamata ad un operatore localizzato all’interno dell’Unione. I call center inadempienti saranno puniti con una sanzione pari a 50 mila euro per ogni giornata di violazione.

Legge di Bilancio 2017 modifica la disciplina dei call center ampliando l’ambito applicativo della normativa, introducendo nuovi obblighi per gli operatori ed innalzando le sanzioni previste per le violazioni. In primo luogo viene esteso l’ambito di applicazione della normativa del 2012 , al fine di ricomprendervi tutti i call center, indipendentemente dal numero di dipendenti occupati (attualmente la disciplina dell’articolo 24-bis è limitata ai call center con più di 20 dipendenti).

La delocalizzazione dell’attività di call center in paesi che non siano membri dell’Unione europea deve essere comunicata 30 giorni (anziché 120 giorni) prima del trasferimento, oltre che al Ministero del lavoro e al Garante per la protezione dei dati personali, anche all’Ispettorato nazionale del lavoro e al Ministero dello sviluppo economico. Si prevede una sanzione amministrativa pari a 150.000 euro per ciascuna comunicazione omessa o tardiva, mentre per gli operatori che hanno già delocalizzato viene confermata la precedente misura della sanzione, pari a 10.000 euro per ciascun giorno di violazione.

Inoltre si estende a qualsiasi beneficio, anche fiscale o previdenziale, il divieto di erogazione ad operatori economici che delocalizzano - successivamente all'entrata in vigore della legge - le attività di call center in paesi che non siano membri dell’Unione europea.

Viene previsto l’obbligo di informare preliminarmente, in caso di chiamata da o verso un call center, sul Paese in cui l’operatore è fisicamente collocato; inoltre, a decorrere dal novantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della legge, deve essere altresì garantita, nell’ambito della medesima chiamata, la possibilità di ricevere il servizio da un operatore collocato nel territorio nazionale o dell’Unione europea; la violazione di tali norme comporta una sanzione amministrativa pari a 50.000 euro per ogni giorno di violazione.

Il soggetto che affida il servizio di call center all’esterno è considerato titolare del trattamento dei dati personali ed è responsabile in solido con il soggetto gestore del servizio di call center.
Per le amministrazioni che procedono agli affidamenti dei servizi di call center l’offerta migliore viene definita al netto delle spese del personale (determinate ai sensi dell’articolo 23, comma 16, del decreto legislativo n.50/2016).

Si introduce, infine, l’obbligo di iscrizione al Registro degli operatori di comunicazione per tutti gli operatori che svolgono attività di call center (la cui inosservanza è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria di 50.000 euro).

Tra i vari effetti prodotti dall’entrata in vigore del Jobs Act, c’è stata l’abolizione dei contratti a progetto a partire dal 1° gennaio scorso. Tale abolizione però non è stata risolta in via definitiva per tutti i settori, infatti, è sopravvissuta con 4 eccezione, ossia, 4 deroghe individuate ed approvate dalla nuova riforma del lavoro.

Le 4 deroghe al contratto a progetto 2017 che consentono alle aziende e datori di lavoro di assumere ancora collaboratori con contratti parasubordinati sotto forma di prestazione continuativa e coordinata prevalentemente personale sono indicate dal comma 2 dell'articolo 2 decreto legge 81 Jobs Act:

Collaborazioni stabilite da accordi collettivi nazionali stipulati dalle sigle sindacali più rappresentative a livello nazionale, che ne prevedono il trattamento economico e normativo, in base alle particolati esigenze produttive ed economiche del settore.

Cosa significa in pratica ?
Che le grandi e piccole aziende di call center outbound, possono continuare ad applicare questa tipologia contrattuale, qualora sia stato stipulato un Accordo Collettivo Nazionale. La stipula di tale accordo, rende quindi possibile alle aziende, di evitare la tagliola della presunzione di lavoro subordinato, e quindi quello di stipulare ancora il contratto di co.co.co.

Collaborazioni rese nell’esercizio di professioni intellettuali che richiedono l’iscrizione in appositi albi professionali;

Attività eseguite dai componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni;

Collaborazioni prestate a scopi istituzionali a favore delle ASD, associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti ufficialmente dal CONI. A tale proposito, il Ministero del Lavoro Interpello n. 6 del 27 gennaio 2016 estende la deroga anche al CONI e alle Federazioni Sportive Nazionali.

Vanno inoltre aggiunte al suddetto elenco delle collaborazione esenti dal vincolo presuntivo dell'articolo 2 comma 1 DLgs 81/2015, anche alle:

Collaborazioni dei produttori diretti;

Collaborazioni degli intermediari assicurativi;

Collaborazioni che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata,

prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato.



mercoledì 14 dicembre 2016

Lavoro: referendum sul Jobs Act



La Consulta esaminerà l'ammissibilità del referendum l'11 gennaio. Il referendum sono stati proposti dalla Cgil, che ha raccolto oltre 3 milioni di firme a sostegno l'ammissibilità delle richieste relative a tre referendum abrogativi tutte concernenti disposizioni in materia di lavoro, comprese misure presenti nel Jobs Act. Le richieste sono già state dichiarate conformi a legge dall'Ufficio centrale per il referendum presso la Cassazione, con ordinanza depositata il 9 dicembre 2016.

I referendum sono stati proposti dalla Cgil, che ha raccolto oltre 3 milioni di firme a sostegno. L'obiettivo è quello di cancellare le norme del Jobs Act che hanno modificato l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e quindi la possibilità di licenziamento; di abrogare le disposizioni che limitano la responsabilità in solido di appaltatore e appaltante, in caso di violazioni nei confronti del lavoratore; e di eliminare i cosiddetti voucher, ossia i buoni lavoro per il pagamento delle prestazioni accessorie.

L’Ufficio centrale per il referendum della Cassazione ha già dato il via libera. Ora spetta alla Corte Costituzionale pronunciarsi e nessuno dubita sull’ok della Consulta. Da quel momento il governo dovrà fissare una data per il referendum tra il 15 aprile e il 15 giugno. Tranne se in quel lasso di tempo non venissero indette elezioni anticipate: in quel caso la consultazione referendaria verrebbe rinviata di un anno. Ma il governo Gentiloni non ha una scadenza e non è prevedibile cosa accadrà nei prossimi mesi, allora a Palazzo Chigi è scattato l’allarme rosso. Le richieste di referendum, già vagliate dall'Ufficio centrale della Cassazione, riguardano le disposizioni in materia di licenziamenti illegittimi e quelle inerenti il lavoro accessorio contenute nel Jobs Act, nonchè la norma, contenuta nel decreto per l'attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, riguardanti la responsabilità solidale in materia di appalti.

La bocciatura del Jobs Act, che decretò la storica abolizione dell’articolo 18, sconfesserebbe il triennio renziano a palazzo Chigi, azzopperebbe le possibilità di «rivincita» dell’ex premier e comprometterebbe la corsa del Pd e dei suoi alleati alle successive elezioni, spianando la strada delle forze antisistema verso la vittoria. Certo, la Consulta deve ancora pronunciarsi. Certo, il governo proverà a correggere parti della legge per tentare di far saltare il referendum. Certo, stavolta la consultazione per essere valida avrebbe bisogno di superare il quorum.
Ma a parte l’incognita della Corte, a parte l’impossibilità per l’esecutivo di reintrodurre l’articolo 18, a parte il nodo dell’affluenza alle urne, nella maggioranza si scorge il rischio.

Primo quesito (reintroduzione della reintegra in caso di licenziamento senza giusta causa e sua estensione alle imprese sopra i 5 addetti – “articolo 18”) 

«Volete voi l'abrogazione del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, recante "Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183" nella sua interezza e dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, recante "Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento" comma 1, limitatamente alle parole "previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell'art. 1345 del codice civile"; - comma 4, limitatamente alle parole: "per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili," e alle parole ", nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell'indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto"; - comma 5 nella sua interezza; - comma 6, limitatamente alla parola "quinto" e alle parole ", ma con attribuzione al lavoratore di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi" e alle parole ", quinto o settimo"; - comma 7, limitatamente alle parole "che il licenziamento è stato intimato in violazione dell'art. 2110, secondo comma, del codice civile. Può altresì applicare la predetta disciplina nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento" e alle parole "; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma. In tale ultimo caso il giudice, ai fini della determinazione dell'indennità tra il minimo e il massimo previsti, tiene conto, oltre ai criteri di cui al quinto comma, delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell'ambito della procedura di cui all'art. 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni. Qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele previste dal presente articolo"; - comma 8, limitatamente alle parole "in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento", alle parole "quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che nell'ambito dello stesso comune occupa più di quindici dipendenti e all'impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di" e alle parole ",anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti".».

Secondo quesito (eliminazione dei voucher) «Volete voi l'abrogazione degli articoli 48, 49 e 50 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, recante "Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell'art. 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183"?».

Terzo quesito (responsabilità e controllo sugli appalti) «Volete voi l'abrogazione dell'art. 29 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, recante "Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30", comma 2, limitatamente alle parole "Salvo diversa disposizione dei contratti collettivi nazionali sottoscritti da associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative del settore che possono individuare metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli appalti," e alle parole "Il committente imprenditore o datore di lavoro è convenuto in giudizio per il pagamento unitamente all'appaltatore e con gli eventuali ulteriori subappaltatori. Il committente imprenditore o datore di lavoro può eccepire, nella prima difesa, il beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell'appaltatore medesimo e degli eventuali subappaltatori. In tal caso il giudice accerta la responsabilità solidale di tutti gli obbligati, ma l'azione esecutiva può essere intentata nei confronti del committente imprenditore o datore di lavoro solo dopo l'infruttuosa escussione del patrimonio dell'appaltatore e degli eventuali subappaltatori”?»


venerdì 28 ottobre 2016

Riforma del lavoro autonomo le novità


Tra le principali misure contenute nel Jobs Act lavoro autonomo citiamo le novità sul fronte dell’equiparazione fra professionisti e imprese, congedo parentale per lavoratori autonomi iscritti alla Gestione Separata, sportelli dedicati nei centri per l’impiego, misure per la conciliazione vita – lavoro.

Il Ddl prevede l’applicazione della tutela dei tempi di pagamento anche alle transazioni commerciali che avvengono tra lavoratori autonomi e Pubblica Amministrazione, con il divieto di prolungare i tempi di pagamento oltre i 60 giorni dalla fattura, pena la corresponsione degli interessi moratori sull'importo dovuto, decorrenti dal giorno successivo alla scadenza del termine per il pagamento.

Viene fatto divieto al committente di modificare unilateralmente le condizioni del contratto, rendendo nulla qualsiasi clausola che vada in tal senso. In caso di contratto avente ad oggetto una prestazione continuativa, il committente non può inoltre recedere da esso senza congruo preavviso. In violazione di tale norma il lavoratore autonomo ha diritto ad un risarcimento del danno.

Viene esteso anche ai lavoratori autonomi l’abuso di dipendenza economica, ovvero l’abuso legato alla possibilità di un’impresa di determinare, nei rapporti commerciali con un lavoratore autonomo, un eccessivo squilibrio di diritti e obblighi.

Viene introdotto nei centri per l’impiego uno sportello dedicato al lavoro autonomo e si stabilisce che centri per l’impiego e agenzie per il lavoro devono dotarsi di uno sportello per il lavoro autonomo per assicurare l’accesso alle informazioni sul mercato anche con riferimento a commesse e appalti pubblici, nonché alle opportunità di credito e alle agevolazioni pubbliche (art. 6).

Si statuisce altresì l'accesso alle informazioni relative all’accesso agli appalti pubblici e la promozione, da parte delle pubbliche amministrazioni, della partecipazione dei lavoratori autonomi agli appalti pubblici (art. 7).

Si ampia la fruizione della indennità di maternità (per i due mesi che precedono il parto e per i tre mesi successivi) a prescindere dall’effettiva astensione dal lavoro (art. 8).

Vengono poi previste modifiche alla deducibilità delle spese relative a prestazioni alberghiere e di somministrazione di alimenti e bevande, spese di formazione e per la certificazione delle competenze, ricerca e sostegno dell’autoimprenditorialità e oneri sostenuti per assicurazioni contro il mancato pagamento delle prestazioni di lavoro autonomo.

Maternità/paternità
Viene previsto per gli iscritti alla Gestione Separata il diritto ad un trattamento economico per congedo parentale, esteso a sei mesi dai precedenti tre, il diritto alla maternità retribuito (introdotto un principio di sussidiarietà per cui la lavoratrice autonoma in maternità può essere sostituita da familiari).

Rapporti di  lavoro autonomo sono quelli definiti dall'articolo 2222 del codice civile e riguarda i contratti con cui il lavoratore si obbliga a compiere, verso un corrispettivo, un'opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente. Sono esplicitamente esclusi gli imprenditori, ivi compresi i piccoli imprenditori.

Vengono previste tutele per le transazioni commerciali tra lavoratori autonomi ed imprese, tra lavoratori autonomi e amministrazioni pubbliche relativamente ai ritardi nei pagamenti e alla relativa maturazione di interessi.  Sono fatte salve eventuali disposizioni più favorevoli.

Sono abusive e prive di effetto le clausole che attribuiscano al committente la facoltà di modificare unilateralmente le condizioni del contratto o, nel caso di contratto avente ad oggetto una prestazione continuativa, di recedere da esso senza congruo preavviso, nonché le  clausole mediante le quali le parti concordino termini di pagamento superiori a sessanta giorni dalla data del ricevimento, da parte del committente, della fattura o della richiesta di pagamento. Si considera abusivo il rifiuto del committente di stipulare il contratto in forma scritta.

Prevede che i diritti di utilizzazione economica relativi ad apporti originali ed a invenzioni realizzati nell’esecuzione del contratto spettino al lavoratore autonomo, fatta salva l'ipotesi in cui l’attività inventiva sia prevista come oggetto del contratto e a tale scopo compensata. Si ricorda che, per i lavoratori dipendenti, i diritti di utilizzazione economica spettano al datore di lavoro, sempre che gli apporti originali e le invenzioni siano state fatte nell'esecuzione del contratto di lavoro.

 Viene conferita delega al Governo per l’adozione entro 12 mesi dall’entrata in vigore della legge, di adottare uno e più decreti legislativi in materia di rimessione di atti pubblici alle professioni ordinistiche per:

l’assolvimento di compiti e funzioni finalizzati alla deflazione del contenzioso giudiziario
semplificazioni in materia di certificazione dell’adeguatezza dei fabbricati alle norme di sicurezza ed energetiche, anche attraverso l’istituzione del fascicolo del fabbricato

viene conferita delega al Governo in materia di sicurezza e protezione sociale dei professionisti iscritti agli ordini, per rafforzare le prestazioni sociali nei confronti di chi ha subito una riduzione del reddito per ragioni non dipendenti dalla propria volontà o per gravi patologie. A questo fine gli enti di previdenza potranno richiedere agli iscritti un apposito contributo finalizzato a tale scopo.

Vengono introdotte disposizioni fiscali e sociali concernenti:

la deducibilità delle spese relative a prestazioni alberghiere e di somministrazione di alimenti e bevande sostenute dall'esercente arte o professione per l'esecuzione di un incarico e addebitate analiticamente in capo al committente.  In particolare viene previsto che tutte le spese relative all'esecuzione di un  incarico conferito e sostenute direttamente dal committente non  costituiscono compensi in natura per il professionista. La modifica si applica già dal 2016.

Gli iscritti alla gestione separata non titolari di pensione e non iscritti ad altre forme previdenziali obbligatorie hanno diritto ad un trattamento economico per congedo parentale per un periodo massimo pari a sei mesi entro i primi tre anni di vita del bambino. La norma di applica dal 1 gennaio 2017.

Le gravi malattie oncologiche o che comunque comportano una inabilità lavorativa temporanea del 100 per cento sono equiparati alla degenza ospedaliera.

Viene modificata la normativa sulla deducibilità delle spese:

di formazione per le quali viene prevista l’integrale deduzione entro il limite di 10mila euro;

per le spese sostenute per la certificazione delle competenze, ricerca e sostegno dell'autoimprenditorialità, entro il limite di 5mila euro annui;

per gli oneri sostenuti per la garanzia contro il mancato pagamento delle prestazioni di lavoro autonomo, fornita da forme assicurative o di solidarietà.

I centri per l'impiego ed i soggetti accreditati a svolgere funzioni e compiti in materia di politiche attive per il lavoro devono dotarsi in  ogni sede aperta al pubblico, di uno sportello dedicato al lavoro autonomo, per raccogliere le domande e le offerte di lavoro autonomo, consentendo l'accesso alle relative informazioni ai professionisti ed alle imprese che ne facciano richiesta.

Viene conferita Delega al Governo per la semplificazione della normativa di salute e sicurezza degli studi professionali , attraverso l’emanazione di uno o più decreti legislativi

prevede che le amministrazioni pubbliche  promuovano, in qualità di stazioni appaltanti, la partecipazione dei lavoratori autonomi agli appalti pubblici, favorendo il loro accesso alle informazioni relative alle gare pubbliche

Tutela la gravidanza e la malattia dei lavoratori autonomi che prestino la loro attività in via continuativa per il committente. Detti lavoratori avranno diritto alla conservazione del rapporto di lavoro - con sospensione del medesimo e senza diritto al corrispettivo -, per un periodo non superiore a centocinquanta giorni per anno solare, in caso di gravidanza, malattia o infortunio, fatto salvo il venir meno dell’interesse del committente.

Viene modificata la nozione dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa posta, ai fini dell'inclusione dei medesimi nell'ambito del rito speciale per le controversie in materia di lavoro, dal codice di procedura civile.

Lavoro agile o smart working è una prestazione di lavoro subordinato prestata, parzialmente, all'interno dei locali aziendali e dietro i soli vincoli di orario massimo desunti dalla legge e dalla contrattazione collettiva.

I principi cardine del lavoro agile sono semplici: vengono meno i vincoli legati a luogo e orario lavorativo; il dipendente organizza il lavoro in piena autonomia e flessibilità; acquista maggior importanza la responsabilità personale dei risultati ottenuti.

L'obiettivo, quindi, è quello di costruire anche per i lavoratori autonomi un sistema di diritti e di welfare moderno capace di sostenere il loro presente e di tutelare il loro futuro.

 .


martedì 18 ottobre 2016

Buoni lavoro (Voucher): le nuove modalità di comunicazione



Sono arrivati i primi chiarimenti sugli obblighi di comunicazione previsti per imprenditori e professionisti che ricorrono a prestazioni di lavoro accessorio (i cd. voucher) dopo le modifiche al Jobs Act introdotte dal recente D. Lgs. n. 185/2016.

Con la Circolare n. 1 del 17 ottobre 2016 l'Ispettorato Nazionale del Lavoro ha fornito indicazioni operative su come effettuare la comunicazione comunicazione obbligatoria prevista dal nuovo art. 49, comma 3, del D.Lgs. n. 81/2015.

La norma stabilisce che "i committenti imprenditori non agricoli o professionisti che ricorrono a prestazioni di lavoro accessorio sono tenuti, almeno 60 minuti prima dell'inizio della prestazione, a comunicare alla sede territoriale competente dell'Ispettorato nazionale del lavoro, mediante sms o posta elettronica, i dati anagrafici o il codice fiscale del lavoratore, indicando, altresì, il luogo, il giorno e l'ora di inizio e di fine della prestazione. I committenti imprenditori agricoli sono tenuti a comunicare, nello stesso termine e con le stesse modalità di cui al primo periodo, i dati anagrafici o il codice fiscale del lavoratore, il luogo e la durata della prestazione con riferimento ad un arco temporale non superiore a tre giorni".

La comunicazione dovrà avvenire con queste modalità:

1) imprenditori non agricoli e professionisti: almeno 60 minuti prima dell'inizio della prestazione per ogni singolo lavoratore, e dovrà indicare i seguenti dati:
dati anagrafici o codice fiscale del lavoratore;
luogo della prestazione;
giorno di inizio della prestazione;
ora di inizio e di fine della prestazione.

2) imprenditori agricoli: almeno 60 minuti prima dell'inizio della prestazione, dovrà indicare:
dati anagrafici o codice fiscale del lavoratore;
luogo della prestazione;
durata della prestazione con riferimento ad un arco temporale non superiore a 3 giorni.

Le comunicazioni devono essere inviate via e-mail alle Direzioni del Lavoro competenti per territorio, agli indirizzi di posta elettronica indicati in allegato alla Circolare.

Le e-mail, prive di allegati, devono i dati del committente (codice fiscale e ragione sociale) e quelli della prestazione di lavoro accessorio.

Analoghe comunicazioni sono previste in caso di modifiche o integrazioni alle informazioni già trasmesse (entro 60 minuti prima delle attività cui si riferiscono).

La violazione degli obblighi di comunicazione è punita con sanzione amministrativa da euro 400 ad euro 2.400 in relazione a ciascun lavoratore per cui è stata omessa la comunicazione, senza la possibilità di avvalersi della procedura di diffida di cui all'art. 13 del D. Lgs. n. 124/2004.


Fino a quando l'INPS o  Ministero non darà indicazioni precise al riguardo la strada più cauta  si ritiene possa essere quella di utilizzare le forme  di comunicazione preventiva previste per il lavoro intermittente: inviare un SMS al numero 3399942256 oppure una mail  a intermittenti@pec.lavoro.gov.it.

COSA SONO I VOUCHER E COME SI USANO?

Ricordiamo innanzitutto che le  prestazioni di lavoro accessorio sono le attività lavorative di natura occasionale che  possono essere retribuite con i cosiddetti VOUCHER LAVORO  per un totale massimo di 7.000 euro (netti per il lavoratore)  nel corso di un anno solare (annualmente rivalutati), con riferimento a tutti i datori di lavoro.

Ma attenzione: il limite  di  retribuzione tramite voucher che OGNI LAVORATORE  può ricevere da un impresa commerciale o da professionista, è di 2mila euro netti.

Il limite di compensi  per i soggetti percettori di indennità di mobilità o cassa integrazione nel 2016 è invece pari a 3mila euro.

Con il DL 81/2015 il limite totale è stato  innalzato a 7mila euro (mentre in precedenza ammontava a 5mila euro totali).Inoltre  il decreto ha ampliato le possibilità e le prestazioni possono ora essere rese in tutti i settori, da parte di qualsiasi committente, con qualsiasi lavoratore (salvo alcuni limiti nel settore agricolo).

Ciascun  'buono lavoro' (voucher), che viene emesso telematicamente  dall'INPS,   ha un  valore netto in favore del lavoratore  di 7,50 euro e corrisponde al compenso minimo di un’ora di prestazione, al costo di 10 euro per il datore di lavoro (salvo che per il settore agricolo, dove si fa riferimento al contratto specifico). Con tali buoni lavoro vengono quindi  garantiti :
il compenso per il lavoratore,
la copertura previdenziale  INPS (pensione) e
quella assicurativa presso l'INAIL.

Il voucher per il lavoro accessorio non dà invece diritto alle prestazioni a sostegno del reddito dell'INPS(disoccupazione, maternità, malattia, assegni familiari ecc.).

ACQUISTO CON F24

La circolare INPS N. 68/ 016 ha infatti precisato che ad evitare irregolari compensazioni con crediti del contribuente ,chi acquista voucher dall'Inps dal 2 maggio 2016, dovrà versare i contributi di spettanza dell'Inps indicando lacausale “LACC - Lavoro occasionale accessorio” nel modello F24 "Elementi identificativi" (F24 ELIDE), anziché nel modello F24 ordinario. L’avvicendamento  è stato disposto dall'Agenzia delle Entrate con la Risoluzione n. 20/E del 6 aprile 2016. Nello specifico, Nella sezione "CONTRIBUENTE", devono essere indicati, nei campi "codice fiscale" e "dati anagrafici", il codice fiscale ed i dati anagrafici del soggetto che effettua il versamento.

Nella sezione "ERARIO ED ALTRO", devono essere, invece, indicati:
nel campo "tipo", la lettera "I";
nel campo "elementi identificativi", nessun valore;
nel campo "codice", la causale contributo LACC;
nel campo "anno di riferimento", l'anno in cui si effettua il pagamento, nel formato "AAAA".


giovedì 29 settembre 2016

Jobs Act: obbligo assunzione categorie protette



La legge obbliga i datori di lavoro ad assumere una determinata quota di lavoratori iscritti alle categorie protette. Con questa legge lo Stato italiano ha voluto promuovere l'inserimento nel mondo lavorativo delle persone disabili e delle altre persone a cui la legge riconosce una condizione di svantaggio.

A partire dal 1° gennaio 2017, per effetto del Jobs Act che ha di fatto modificato la Legge 68/99 al fine di favorire l'inserimento di persone con disabilità fisica o psichica che rischiano di essere escluse dal mondo del lavoro, è stato disposto per le aziende l'obbligo di assumere una certa quota di lavoratori disabili.

Chiamata nominativa

Un’altra novità riguarda la c.d. chiamata nominativa, ovvero il datore di lavoro che individua ed assume autonomamente la persona disabile non può ricorrere all’assunzione diretta, dovendo accedere sempre dalle apposite liste di collocamento mirato. Anche le aziende che hanno alle proprie dipendenze un numero di lavoratori compreso tra 36 e 50 potranno procedere alle nuove assunzioni mediante chiamata nominativa.

Datori di lavoro esonerati

Sono esonerati dall'obbligo di assumere un lavoratore disabile le aziende con addetti impegnati in lavorazioni che comportino un’esposizione al rischio con tasso di premio INAIL pari o superiore al 60 per mille.

Incentivi

Semplificato invece il procedimento per il riconoscimento degli incentivi previsti per i datori di lavoro che assumono persone con disabilità che consistono nell’erogazione del 70% o del 35% della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali, a seconda del grado di riduzione della capacità lavorativa, per un periodo di 36 mesi se l’assunzione è a tempo indeterminato, 60 mesi, in caso di assunzioni di persone con disabilità intellettiva e psichica (sia a tempo indeterminato, sia determinato ma superiore a 12 mesi). L’incentivo, viene corrisposto al datore di lavoro unicamente mediante conguaglio nelle denunce UNIEMENS ed è riconosciuto dall’INPS sulla base delle effettive disponibilità di risorse e secondo l’ordine di presentazione delle domande.

Nello specifico, tutte le aziende che occupano più di 14 dipendenti, sono obbligate a riservare una quota destinata agli invalidi civili con percentuale di invalidità dal 46 al 100%, invalidi del lavoro con percentuale di invalidità superiore al 33%, gli invalidi per servizio, invalidi di guerra e civili di guerra con minorazioni dalla prima all’ottava categoria, i non vedenti e i sordomuti; categorie protette: profughi italiani, orfani e vedove/i di deceduti per causa di lavoro, di guerra o di servizio ed equiparati (sono equiparati alle vedove/i e agli orfani i coniugi e i figli di grandi invalidi del lavoro dichiarati incollocabili, dei grandi invalidi per servizio o di guerra con pensione di prima categoria), vittime del dovere, del terrorismo e della criminalità organizzata.

Nel dettaglio i datori di lavoro che impiegano un numero di dipendenti:

dai 15 ai 35, sono obbligati ad assumere un disabile. L'obbligo si applica solo in caso di nuove assunzioni fino al 31 dicembre 2016;

dai 36 ai 50, devono assumere 2 disabili;

oltre i 50, devono riservare il 7% dei posti a favore dei disabili più l’1% a favore dei familiari degli invalidi e dei profughi rimpatriati.

Nella quota disabili rientrano anche i dipendenti che hanno una ridotta capacità lavorativa pari al 60%.

I datori di lavoro presentano la richiesta di assunzione entro sessanta giorni dal momento in cui sono obbligati all’assunzione. I lavoratori già disabili prima della costituzione del rapporto di lavoro, anche se non assunti tramite il collocamento obbligatorio, sono computati nella quota di riserva ma devono avere una riduzione della capacità lavorativa superiore al 60 per cento oppure superiore al 45 per cento nel caso di disabilità intellettiva e psichica.

La determinazione del numero dei soggetti disabili da assumere è data dal computo, tra i dipendenti, di tutti i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato.

Con l’entrata in vigore delle norme decreto legislativo correttivo del Jobs Act, con riferimento al collocamento obbligatorio, in caso di mancata assunzione di disabili quelle che rischiano le aziende sono delle sanzioni molto salate.

In particolare, il datore di lavoro che non abbia coperto, per cause imputabili all’azienda, le quote di assunzione obbligatorie sarà soggetto ad una sanzione amministrativa pari a cinque volte la misura del contributo esonerativo, equivalente ad euro 153,20 per ogni giorno lavorativo di mancata copertura della quota d’obbligo e per ciascun disabile non assunto.

Il datore di lavoro è tenuto al versamento di tale sanzione amministrativa trascorsi sessanta giorni dalla data in cui insorge l’obbligo di assumere soggetti appartenenti alle categorie protette.

In caso di violazione relativa alla mancata copertura della quota d’obbligo, si applica inoltre una procedura di diffida che prevede la presentazione di una richiesta di assunzione o la stipula di un contratto di lavoro con persona avviata dagli uffici competenti. Ottemperando alla diffida il datore di lavoro potrà sanare la propria posizione mediante versamento di una sanzione pari ad euro 38,30.

Le aziende per calcolare il numero di disabili da assumere obbligatoriamente devono fare il computo tra i dipendenti, di tutti i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato.

Nel suddetto calcolo non vanno ricompresi: i lavoratori a tempo determinato con durata inferiore a 6 mesi, i disabili, i soci di cooperative di produzione e lavoro, dirigenti, lavoratori con contratto di inserimento e con somministrazione presso l'utilizzatore, fatta eccezione di quanto disposto dall'articolo 34, comma 3 del Decreto Legislativo n.81/2015, lavoratori che svolgono l'attività all'estero, lavoratori socialmente utili, a domicilio, aderenti al programma di emersione, apprendisti, con contratto formazione-lavoro e di reinserimento. Possono invece essere calcolati nella quota di riserva, invece, i lavoratori già disabili prima dell'assunzione ed assunti anche senza collocamento obbligatorio, ma solo se la loro riduzione della capacità lavorativa, è superiore al 60%, oppure, superiore al 45% in caso di disabilità intellettiva e psichica.





venerdì 23 settembre 2016

Dati INPS sulle assunzioni e costi delle pensioni



Il Jobs Act non funziona, a confermalo arrivano adesso i dati dell'Inps che certifica il calo del 33 per cento delle assunzioni.

Ecco i dati per le assunzioni stabili. Nei primi sette mesi del 2016 sono stati stipulati 972.946 contratti a tempo indeterminato (comprese se le trasformazioni di contratti a termine e di apprendistato) a fronte di 896.622 cessazioni di contratti stabili con un saldo positivo per 76.324 unità. Il dato diffuso dall'Inps è peggiore dell'83,5% rispetto a quello dello stesso periodo del 2015 (quando l'incentivo per i contratti stabili era più alto) ma anche del dato riferito al 2014 quando non c'erano sgravi (il saldo sui rapporti a tempo indeterminato era positivo per 129.163 unità).

Nei primi sette mesi del 2016 sono stati venduti 84,3 milioni di voucher (buoni per il lavoro accessorio dal valore nominale di 10 euro) con un aumento del 36,2% sullo stesso periodo del 2015. Lo si legge nell'Osservatorio sul precariato dell'Inps. Nei primi sette mesi del 2015 si era registrata una crescita del 73% sullo stesso periodo del 2014.

Nel periodo gennaio-luglio 2016 le assunzioni nel settore privato sono risultate 3.428.000, con una riduzione di 382.000 unità rispetto al corrispondente periodo del 2015 (-10,0%); nel complesso delle assunzioni sono comprese anche le assunzioni stagionali, pari a 408.000.

L'INPS parla del calo dei contratti a tempo indeterminato, -379000, ovvero -33,7 per cento rispetto ai primi sette mesi del 2015. L’istituto nell’Osservatorio sul precariato spiega che "va considerato in relazione al forte incremento delle assunzioni a tempo indeterminato registrato nel 2015, anno in cui dette assunzioni potevano beneficiare dell’abbattimento integrale dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro per un periodo di tre anni. Analoghe considerazioni possono essere sviluppate per la contrazione del flusso di trasformazioni a tempo indeterminato (-36,2%)".

Insomma l'effetto Jobs Act sembra che sia già finito.

Mentre per le pensioni il rimborso dell’Ape inserita per i casi di crisi o ristrutturazioni aziendali sarà a carico dei datori di lavoro. Ma le forme e la portata di questo finanziamento-deve essere ancora definito in sede di accordi sindacali e non per legge. Verosimilmente per rimborsare l’Ape in versione aziendale si utilizzerà lo 0,30% finora pagato dalle imprese per l’indennità di mobilità e che vale in complesso 600 milioni l’anno (questo ammortizzatore dal 2017 non ci sarà più.

Si sta parlando anche dell’utilizzo di una quota (un altro terzo) per costituire un fondo al quale le aziende potrebbero attingere per pagare appunto l’anticipo pensionistico in caso di un suo utilizzo per avviare alla pensione i lavoratori in esubero che rientrino negli stessi requisiti anagrafici e contributivi previsti per l’Ape volontaria o sociale (almeno 20 anni di versamenti e 63 anni di età dal 2017).

Sempre in questa ipotesi uno 0,10% (circa 200 milioni) verrebbe infine lasciato alle imprese come forma di riduzione del cuneo fiscale contributivo. Ma si parla anche di un’ulteriore alternativa: l’azienda anziché finanziare direttamente il rimborso potrebbe girare la sua quota sul capitale che il lavoratore ha cumulato nel suo fondo pensione complementare, rafforzando in questo modo la parte a cui lo stesso lavoratore può far ricorso per coprire l’anticipo con la rendita integrativa anticipata temporanea (Rita).

Ape social, ovvero l’anticipo a costo zero (perché abbattuto da una detrazione fiscale totale) per i soggetti più meritevoli: disoccupati con ammortizzatore sociale scaduto o con carichi familiari o, ancora, operai edili, macchinisti, forse maestre d’asilo e infermieri da sala operatoria che rientrino nelle fasce d’età e contribuzione previste per il biennio di sperimentazione. La dote per finanziare questo canale di anticipo bancario assicurato resta tra i 5 e i 600 milioni, ed è ancora da definire se chi avrà una pensione lorda superiore ai 1.500 euro dovrà o meno concorrere a parte del rimborso, mentre nulla cambia per l’Ape volontaria, riservata a chi sceglie l’anticipo fino a 3 anni e 7 mesi da

Quindi caccia aperta alle coperture per le pensioni. Mentre i sindacati stanno facendo pressione su due fronti. Sull'Ape sociale (quella gratuita riservata ad alcune categorie come i disoccupati) vorrebbero spostare il limite oltre il quale si comincia a pagare l'anticipo, sopra gli attuali 1.500 euro lordi. L'obiettivo è arrivare a 1.200 euro netti, quindi più o meno 1.650 lordi. Poi c'è la questione dei lavoratori precoci. Il governo prevede che per chi ha iniziato a lavorare presto, l'anticipo possa scattare con 42 anni e 10 mesi di contributi versati. I sindacati chiedono 41 anni e mezzo.

Come è sempre successo, quando si sono cambiate le regole della previdenza le tante incoerenze del nostro sistema sono venute fuori. Pensionati con trattamenti bassi e a rischio povertà, lavoratori con una relativa anzianità rimasti senza contratto e senza ammortizzatore sociale pure a rischio povertà, aziende (e pubbliche amministrazioni) non più in grado di effettuare rinnovi generazionali del personale, un mercato del lavoro costantemente squilibrato.

Stando a numeri forniti dal sottosegretario Tommaso Nannicini, chi ha una pensione mensile di mille euro e lascia il lavoro con un anno di anticipo dovrà rinunciare a 50 euro al mese per i successivi 20 anni: totale 12mila euro. Mentre un anticipo di tre anni verrebbe a costare 200 euro al mese, che spalmati su 20 anni fa 48mila euro. Che significa una decurtazione del 18%. Il tutto escludendo i costi dell’assicurazione che, secondo stime che circolano da giorni, porterebbe al 25% il costo totale della trattenuta.

Dal punto di vista tecnico, l’Ape , acronimo di anticipo pensionistico, che dovrebbe debuttare nel 2017, ruota intorno a un finanziamento che sarà erogato dalle banche a vantaggio del neo-pensionato e che servirà a pagare gli assegni nel periodo che precede il raggiungimento del requisito anagrafico standard per la pensione di vecchiaia. Successivamente tale somma verrà rimborsata dal pensionato in un arco temporale di vent’anni.

Il finanziamento sarà erogato dalle banche, ma per semplificare le procedure, è previsto un intervento dell’Inps che dovrebbe fare da “interlocutore” tra lavoratore e istituto di credito. L’intervento, e i costi, a carico dello Stato, saranno determinati dagli aiuti sotto forma di detrazioni, riconosciuti alle persone più in difficoltà, quali i disoccupati di lungo corso. Chi vorrà anticipare la pensione e avrà redditi medio-alti, invece, dovrebbe vedere l’operazione interamente a suo carico. Alcuni dettagli dell’operazione, però, non sono ancora stati definiti in attesa degli ulteriori incontri con i sindacati che si svolgeranno in settembre.





lunedì 19 settembre 2016

Alternanza scuola-lavoro: come iscriversi al Registro nazionale



Il sistema duale in apprendistato, uno degli strumenti attuativi del Jobs Act pensato per promuovere la formazione dei giovani finalizzata al loro ingresso nel mondo del lavoro. Per sistema duale si intende la formazione alternata per il 50% a scuola e il restante 50% nell'ambiente di lavoro,  con l’obiettivo di rafforzare l’offerta educativa per i giovani, affinché raggiungano un maggior livello di qualificazione.

L'alternanza scuola-lavoro è prevista durante il secondo ciclo di istruzione che:

inserisce organicamente percorsi obbligatori nel secondo biennio e nell'ultimo anno della scuola secondaria di secondo grado a partire dall'anno scolastico 2015/2016, indicando la durata complessiva di almeno 400 ore per gli istituiti tecnici e professionali e di almeno 200 ore per i licei;

istituisce il Registro nazionale per l'alternanza scuola-lavoro, a cui si devono iscrivere le imprese, i professionisti, gli enti pubblici e privati disponibili ad accogliere studenti.

L'alternanza scuola-lavoro diventa così una strategia educativa dove il contesto lavorativo è chiamato ad assumere un ruolo complementare all'aula e al laboratorio scolastico nel percorso di istruzione degli studenti in modo da contribuire alla realizzazione di un collegamento organico tra istituzioni scolastiche e formative e il mondo del lavoro.

I datori di lavoro che vogliono ospitare presso le proprie strutture giovani studenti per percorsi formativi on the job devono iscriversi al Registro Nazionale per l'alternanza scuola-lavoro con modalità on-line attraverso la sezione “Profilo e compilando le informazioni richieste. Il Registro consente agli studenti della scuola di secondo grado (istituti tecnici, professionali e licei) di ricercare le imprese che offrono percorsi di alternanza scuola-lavoro ed apprendistato, con specifico riferimento sia all'attività economica prevalente, indicata con il codice Ateco, sia alla figura professionale che il datore di lavoro è disposto a formare.

La riforma scolastica prevede che ogni anno almeno 200 ore per i licei e 400 ore per gli istituti tecnici debbano essere svolte in un contesto lavorativo.

Il Registro è costituito delle seguenti componenti:

c) un’area aperta e consultabile gratuitamente in cui sono visibili le imprese e gli Enti pubblici e privati disponibili a svolgere i percorsi di alternanza. Per ciascuna impresa o Ente il Registro riporta il numero massimo degli studenti ammissibili nonché i periodi dell’anno in cui è possibile svolgere l’attività di alternanza;

d)  una sezione speciale del Registro delle imprese di cui all’art. 2188 del codice civile a cui devono iscriversi le imprese per l’alternanza scuola-lavoro; tale sezione consente la condivisione, nel rispetto della normativa sulla tutela dei dati personali, delle informazioni relative all'anagrafica, all'attività svolta, ai soci e agli altri collaboratori, al fatturato, al patrimonio netto, al sito internet e ai rapporti con gli altri operatori della filiera delle imprese che attivano i percorsi di alternanza.

I datori di lavoro disponibili ad accogliere studenti per lo svolgimento dello stage o per la stipula di un contratto di apprendistato di primo livello devono iscriversi al Registro Nazionale per l'alternanza scuola-lavoro tramite il portale www.scuolalavoro.registroimprese.it .

Quadro normativo

Il registro è stato istituito dalla legge 13 luglio 2015, n.107 (c. d. “La buona suola”) che, all'articolo 1, commi da 33 a 43 interviene sulle previgenti disposizioni e, oltre ad istituire detto registro, inserisce a regime percorsi obbligatori nel secondo biennio e nell'ultimo anno della scuola secondaria di secondo grado a partire dall'anno scolastico 2015/2016, indicando la durata complessiva di almeno 400 ore per gli istituiti tecnici e professionali e di almeno 200 ore per i licei e autorizza la spesa di 100 milioni di euro annui a decorrere dall'anno 2016.

Il nuovo apprendistato si basa su un modello innovativo che passa innanzitutto attraverso la ristrutturazione dell’apprendistato e delle sue caratteristiche (requisiti di accesso e modalità di regolazione della formazione): si punta così ad agire direttamente sul fronte delle imprese tramite la definizione di una nuova unione di vincoli e benefici, in grado di bilanciare meglio l’onere formativo che esse assumono.

L’altro versante è quello della riorganizzazione dei percorsi formativi nell'ambito del Sistema regionale di Istruzione e formazione professionale (IeFP) e il potenziamento delle reti di servizi interne alle strutture formative, l progetto prevede la qualificazione dei servizi di placement dei centri di formazione professionale e la sperimentazione nel biennio 2015-2017 del contratto di apprendistato per il conseguimento della qualifica di istruzione e formazione professionale (IeFP) o del diploma professionale nei centri di formazione professionale.






venerdì 2 settembre 2016

Lettera di dimissioni volontarie come scriverla



La lettera dimissioni volontarie con preavviso, senza preavviso o con esonero di preavviso, è un modello che il lavoratore può utilizzare per recedere e quindi cessare l’attività lavorativa prevista dal contratto di lavoro. Si possono presentare le dimissioni in qualunque momento, quando il lavoratore ne senta l’esigenza. Non si devono spiegare i motivi per cui si decide di lasciare il proprio posto di lavoro e nessuno può obbligarvi a specificarli.

L’unico obbligo del lavoratore è comunicare ufficialmente all'azienda la propria decisione di rassegnare le dimissioni con un preavviso variabile in base all'anzianità aziendale e all'inquadramento contrattuale. Questa è l’unica clausola che dovrete rispettare, ma anche in questo caso non devono essere spiegati i motivi che vi spingono a presentare le dimissioni volontarie.

A partire dal 12 marzo 2016 le dimissioni volontarie e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro dovranno essere effettuate in modalità esclusivamente telematiche, tramite una semplice procedura online accessibile dal sito Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

La compilazione del modello è semplice: bisogna inserire generalità di lavoratore e datore di lavoro, data inizio rapporto, contratto applicato, tipo di comunicazione (dimissioni, risoluzione, revoca) e relativa data di decorrenza. Va inviato alla casella PEC (Posta elettronica certificata) del datore di lavoro, attraverso le specifiche tecniche indicate nel decreto. Il lavoratore ha 7 giorni per revocare le dimissioni dal momento dell’invio, con le stesse modalità.

La lettera dimissione volontarie è uno strumento che serve a comunicare per iscritto, la volontà del lavoratore a volersi dimettere dal proprio posto di lavoro e recedere per sempre dal contratto di lavoro ,la facoltà del lavoratore dipendente di dimettersi attesta l’inequivocabile volontà scritta del dipendente a terminare il rapporto lavorativo in essere con l’azienda.

La lettera di dimissioni volontarie, va scritta su carta semplice seguendo le linee guida de una lettera fac simile, oppure, utilizzando i modelli standard in base alla tipologia delle dimissioni:
lettera dimissioni con preavviso;
lettera dimissioni senza preavviso;
lettera dimissioni per giusta causa;
lettera dimissioni per gravidanza.

Una volta consegnata la lettera di dimissioni in duplice copia, al lavoratore viene rilasciata la copia controfirmata per ricevuta, che attesta la consegna della lettera di dimissioni, la presa visione della lettera e l’accettazione delle dimissioni presentate.

Adesso in base a quanto previsto dal Jobs Act secondo i quali le dimissioni possono essere inoltrate solo per via telematica, pena la nullità della risoluzione del contratto di lavoro. In base a tale novità il lavoratore che vuole dimettersi deve inviare la comunicazione di dimissioni autonomamente, oppure, rivolgersi ad intermediari abilitati, come patronati, sindacati o enti bilaterali.

La lettera dimissioni con preavviso concordato, è utilizzata dal lavoratore che intende cessare il rapporto di lavoro in base all’articolo 2118 del Codice che prevede la possibilità sia del datore di lavoro che del lavoratore stesso di risolvere il rapporto di lavoro.

La lettera di dimissioni con preavviso è una comunicazione scritta che il lavoratore deve consegnare al datore di lavoro entro un preciso termine di preavviso.

I termini di preavviso, devono essere obbligatoriamente osservati dal lavoratore in quanto la loro inosservanza consentono al datore di lavoro di applicare una penale mediante la decurtazione dall’ultima busta paga, degli importi pari alle giornate oggetto di mancato preavviso.

Per scrivere una lettera dimissioni il lavoratore deve indicare nella lettera i seguenti dati:

i dati del lavoratore;

i dati aziendali;

la data di assunzione;

la data di decorrenza delle dimissioni, va indicata esattamente la data dalla quale avverranno le dimissioni e la data di ultima presenza in azienda

firma del dipendente lavoratore che intende dimettersi

firma del datore di lavoro che prende visione e accetta la lettera di dimissioni con preavviso.

Dopo che avrete dato la lettera al datore di lavoro bisogna recarsi e in uno degli enti accreditati e presentare le dimissioni mediante la modalità telematica e recarsi presso Caf e patronati, comune, centro per l’impiego ecc e richiedere la compilazione online del modulo relativo alla dimissione volontarie, dopodiché l’intermediario rilascia copia cartacea del documento, avente codice univoco e data certa di rilascio, opportunamente timbrato. Il lavoratore con la copia cartacea firmata deve consegnare il modello lettera dimissioni volontarie entro 15 gg dalla data di rilascio, che rappresenta il periodo di validità massima del documento, al datore di lavoro.

In alternativa a questa modalità si potranno presentare le proprie dimissioni accedendo al portale del Ministero del Lavoro e inviando il modulo che si troverà tra i vari allegati. Questa operazione può essere svolta solo da coloro che hanno il Pin INPS Dispositivo.

Il lavoratore avrà comunque 7 giorni di tempo per ripensarci e revocare la domanda inoltrata.




domenica 5 giugno 2016

Lavoratore illegittimamente sospeso: omessa indicazione dei criteri di rotazione




L’ordinamento giuridico consente al datore di lavoro (che si trovi in particolari situazioni di crisi o abbia la necessità di procedere a ristrutturazioni o riorganizzazioni) di sospendere in tutto o in parte i propri dipendenti dal lavoro. Tuttavia, al contempo, questo potere viene disciplinato e limitato dalla legge. Pertanto, la sospensione in CIG disposta al di fuori di questi limiti è illegittima, e il lavoratore può ricorrere al Giudice del lavoro al fine di ottenere la riammissione al lavoro, nonché il risarcimento del danno (che, normalmente, consisterà nella differenza tra la retribuzione che egli avrebbe percepito se non fosse stato sospeso e l’indennità di CIG percepita durante la sospensione).

La CIGO ha la funzione di sostegno del reddito dei lavoratori per sospensioni dal lavoro e riduzioni dell’orario di lavoro dovute ad eventi transitori non imputabili né al datore di lavoro né ai lavoratori, ovvero a situazioni temporanee di mercato.

L’ammontare del trattamento economico è pari all’80% della retribuzione spettante ai lavoratori per le ore non lavorate; dopo il primo semestre di erogazione non può superare un tetto massimo incrementato annualmente in base all’indice ISTAT.

La legge impone una procedura di informazione e consultazione sindacale con le RSA, di solito preventiva. Solo nei casi di sospensione o riduzione indifferibile del lavoro, l’imprenditore deve comunicare alle RSA o, in mancanza di queste, agli organismi provinciali dei sindacati di categoria più rappresentativi, la durata prevedibile della sospensione o contrazione del lavoro ed il numero dei lavoratori interessati; se la sospensione o contrazione superi le 16 ore settimanali, su richiesta dell’imprenditore o degli organismi rappresentativi dei lavoratori si procede ad un esame congiunto sulla ripresa del normale lavoro e sui criteri di distribuzione degli orari di lavoro.

Per la CIGO, a differenza della CIGS, il datore di lavoro anticipa il trattamento una volta adottato il provvedimento di concessione, conguagliando i contributi dovuti. Se dall’omessa o tardiva domanda deriva la perdita totale o parziale della CIGO, l’imprenditore è tenuto a corrispondere ai lavoratori una somma pari all’importo dell’integrazione non percepita.

La durata massima della CIGO è di tre mesi continuativi, ma in casi eccezionali può essere prorogata per tre mesi fino a un massimo complessivo di un anno.

La fissazione dei criteri di rotazione, da osservare in caso di sospensione del personale per fruizione della CIGO, era oggetto di indirizzi giurisprudenziali ora si ritiene che, per omessa specificazione dei criteri di rotazione, rende illegittimo il decreto di concessione del trattamento di CIGS. Conseguentemente, al lavoratore sospeso spetta il diritto soggettivo di chiedere al giudice ordinario la condanna, previa disapplicazione in via puramente incidentale, del provvedimento amministrativo di concessione della CIGS e quella del datore di lavoro al pagamento dell’integrale obbligazione retributiva.

Il D.lgs. n. 148/15, di attuazione della L. n. 183/14 (c.d. Jobs Act), riordinando la disciplina degli ammortizzatori sociali, ha omesso, per il trattamento di CIGO, il riferimento all’osservanza dei criteri di rotazione. Questi, invece, costituiscono oggetto di specifica disposizione nel caso di procedimento volto a conseguire la CIGS. Sicché, anche all’esito della riforma, si registra quella diversa formulazione letterale delle norme che disciplinano il procedimento di concessione della CIGO e della CIGS. Per avere efficacia è stabilito che la comunicazione alle organizzazione sindacali deve avere ad oggetto “[…] le cause di sospensione o di riduzione dell’orario di lavoro, l’entità e la durata prevedibile, il numero dei lavoratori interessati”. Il comma 4 dispone poi che “nei casi di eventi oggettivamente non evitabili che rendano non differibile la sospensione o la riduzione dell’attività produttiva”, il contenuto della comunicazione deve comprendere “la durata prevedibile della sospensione o riduzione e il numero dei lavoratori interessati”.

E’ doveroso ricordare che il potere di sospendere i propri dipendenti in CIG incontra innanzi tutto limiti di tipo formale. Infatti, la legge prescrive l’obbligo, per il datore di lavoro, di attivare preventivamente una procedura di informazione e (a richiesta) di consultazione con il sindacato.

L’obbligo di informare e, eventualmente, di trattare con il sindacato ha lo scopo di garantire che la sospensione dei lavoratori sia trasparente e corretta, con la conseguenza che eventuali violazioni della procedura sindacale rilevino, oltre che sul piano formale, anche su quello sostanziale.

Con riferimento ai vizi procedurali il lavoratore (ma anche il sindacato) potrebbe per esempio lamentare l’omissione della procedura, oppure il fatto che non siano state rese tutte le informazioni previste dalla legge, o che le stesse siano state fornite in maniera generica o falsa, o ancora che il datore di lavoro non ha dato seguito alla richiesta del sindacato di trattare.

Vi sono però altri limiti che il datore di lavoro deve rispettare e che, in caso contrario, legittimano il ricorso al giudice da parte del lavoratore. Innanzi tutto, si deve ricordare che il datore di lavoro può ricorrere alla CIG solo in presenza di situazioni di crisi o di ristrutturazione – riorganizzazione previste dalla legge. Sotto questo profilo, dunque, il lavoratore potrebbe per esempio contestare che la causa della sospensione, dichiarata dal suo datore di lavoro, non rientra tra quelle previste dalla legge, oppure che quella situazione non corrisponde al vero. Infine, il datore di lavoro deve scegliere il personale da sospendere in CIG utilizzando criteri oggettivi e coerenti con la causa della sospensione: il lavoratore potrebbe quindi lamentare di essere stato scelto sulla scorta di criteri che non corrispondono a tali caratteristiche.

domenica 8 maggio 2016

Stop al sussidio Naspi se si rifiuta il lavoro


Potrà ottenere il buono (voucher) per il ricollocamento solo chi ha fruito della Naspi e risulta disoccupato da oltre 4 mesi. Il beneficiario potrà rivolgersi anche a soggetti privati accreditati.

L'Anpal, l'agenzia per il lavoro prevista dal Jobs Act per favorire l'occupazione, sarà ''operativa a giugno''. Ad assicurarlo è il presidente dell'Agenzia, Maurizio Del Conte che spiega come opererà: dall'assegno di ricollocazione ai controlli sui sussidi.

"L'Anpal può controllare in tempo reale se la persona che non si presenta al corso di formazione (o non accetta un lavoro) prende la Naspi – ha spiegato Del Conte. Avvertiremo in questo caso l'Inps che dovrebbe togliere almeno una parte dell'aiuto".

 "Al momento per l'operatività piena dell'Anpal - afferma il presidente, Maurizio Del Conte - manca il decreto di trasferimento delle risorse e delle dotazioni organiche, ancora alla Corte dei Conti. Mi auguro che per giugno sia operativa". L'Anpal dovrebbe gestire il personale dell'Isfol e di Italia Lavoro (ne avrà le quote). I centri per l'impiego invece sono in capo alle Regioni e fino a che non si vota sul referendum costituzionale e non è possibile nessun cambiamento. Prima di allora l'Anpal non potrà fare azioni sul territorio.

"Possiamo verificare - dice Del Conte - i livelli essenziali ovvero che i servizi che vengono resi ai disoccupati rispettino gli standard. Abbiamo il potere di monitoraggio e valutazione. La nostra missione più importante comunque è quella sull'assegno di ricollocazione, una vera e propria presa in carico del disoccupato. Il nostro obiettivo è fare sì che le persone si rivolgano ai centri per l'impiego perché sono utili.

Deve esserci un sistema che accolga il disoccupato e lo accompagni. Una delle prime cose da fare è mettere in funzione un sistema informativo per far incontrare domanda e offerta". Si punta per il trattamento di disoccupazione "a un sistema di condizionalità rafforzato. Adesso chi eroga il sussidio di disoccupazione e chi dovrebbe ricollocare il lavoratore (i centri per l'impiego) fino ad ora non si sono sostanzialmente parlati mentre in Germania ad esempio sono i centri per l'impiego che fanno sia l'una che l'altra cosa (politiche attive e passive del lavoro). Il problema - spiega Del Conte - "si potrà risolvere quando saranno a disposizione in tempo reale i dati Inps sui percettori della Naspi (la nuova indennità di disoccupazione). L'Anpal può controllare in tempo reale se la persona che non si presenta al corso di formazione (o non accetta un lavoro) prende la Naspi. Avvertiremo in questo caso l'Inps che dovrebbe togliere almeno una parte del sussidio.

L'assegno di ricollocazione consiste in una somma di denaro, graduata in funzione del profilo personale del disoccupato, proponibile presso i centri per l'impiego o presso i servizi accreditati. In sostanza, il centro per l'impiego definirà il livello di occupabilità del disoccupato: minori sono le possibilità di impiego, più elevato sarà l'importo del voucher o la dote a disposizione del lavoratore (in media sui 1.500 euro, aumentabile anche a 3-4mila nei casi più complicati).

A questo punto, il disoccupato sceglierà, tra le strutture private e pubbliche accreditate dalla regione, l'agenzia per il lavoro dalla quale farsi assistere nella ricerca di una nuova occupazione: è prevista l'assegnazione al lavoratore anche di un tutor o job advisor, che lo seguirà nel percorso verso un nuovo impiego e un eventuale percorso di riqualificazione professionale. Ma l'agenzia sarà remunerata (dallo Stato o dalla regione con la dote attribuita al lavoratore) solo a occupazione trovata.

Il voucher, in altri termini, sarà pagabile solo a seguito dell'effettivo ricollocamento del lavoratore, cioè solo a risultato ottenuto e non per l'attività comunque svolta genericamente a sostegno del soggetto. Da segnalare, comunque, che l'assegno di ricollocazione sarà rilasciato nei limiti delle disponibilità assegnate a tale finalità per la regione o per la provincia autonoma di residenza.

L'assegno, il cui importo non costituirà reddito imponibile, se richiesto (la misura è infatti facoltativa) dovrà essere "speso" dal disoccupato entro due mesi dalla data di rilascio dell'assegno a pena di decadenza dallo stato di disoccupazione e dalla prestazione a sostegno del reddito. L'assegno avrà una durata di sei mesi, prorogabile per altri sei nel caso non sia stato consumato l'intero ammontare dell'assegno.
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