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sabato 29 ottobre 2016

Società a cui si può applicare la procedura fallimentare



In primo luogo è essenziale chiedersi quali sono le società che possono fallire, e la risposta la troviamo nell'art. 1 della legge fallimentare, che parla dei presupposti del fallimento.

Di certo non possono fallire le società agricole, e nemmeno gli enti pubblici, possono invece fallire le società commerciali, ma solo quelle che superano uno dei parametri indicati dall'art. 1 legge fallimentare così come modificato dal d.lgs. n. 169\2007.

Anche altri soggetti collettivi, che non sono società, possono fallire; ricordiamo i consorzi, le associazioni e fondazioni che abbiano come scopo l'esercizio di un'attività commerciale.

Gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l'insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l'anno successivo.

Il passaggio dell'anno rende quindi impossibile chiedere il fallimento della società, e ciò si comprende dal secondo comma dell'art. 10 che permette di chiedere ancora il fallimento dopo l'anno, ma solo per gli imprenditori individuali e per le società cancellate d'ufficio dal registro delle imprese che abbiano, nonostante la cancellazione, continuato l'attività.

In merito alla istanza di fallimento la legge stabilisce chi sono i soggetti che possono chiedere, nel caso di società, il concordato fallimentare:

per le società di capitali e cooperative la richiesta di fallimento è di competenza degli spetta agli amministratori, anche se sembra opportuno che questi convochino l'assemblea straordinaria prima di decidere in proposito;

per le società di persone la questione è più complessa, perché il fallimento della società di persone comporta il fallimento dei soci illimitatamente responsabili; si va quindi dalle tesi che ritengono che sia sufficiente la maggioranza assoluta del capitale, a chi ritiene, invece, necessaria l'unanimità.

Per le S.P.A. si attribuisce il potere di esercitare le azioni di responsabilità al curatore; sappiamo, però, che la S.P.A. può assumere diverse forme di amministrazione e controllo, secondo il sistema dualistico e monistico.

In merito alla s.r.l. la legge fa riferimento alla azione di responsabilità che può essere proposta da ciascun socio, mentre non vi è alcun riferimento alla azione di responsabilità che nella s.r.l. potrebbe essere proposta dai creditori sociali.

Non tutte le società possono fallire.

La normativa fallimentare ha infatti chiarito che non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento sia gli enti pubblici che gli imprenditori che dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti:

aver avuto nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza d fallimento un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro 300.000;

aver realizzato, negli ultimi tre esercizi, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo superiore ad euro 200.000;

avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro 500.000.

Gli imprenditori che dimostrino di rientrare contemporaneamente in tutti e tre i parametri indicati non possono, quindi, essere dichiarati falliti.

Conseguentemente potranno fallire solo gli imprenditori che avranno superato almeno uno di questi parametri.

La nuova legge fallimentare ha introdotto un espresso limite relativo alla richiesta di fallimento dell’imprenditore secondo la legge “non si fa luogo alla dichiarazione di fallimento se l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell’istruttoria prefallimentare è complessivamente inferiore ad € 30.000”.

Tale norma determina un restringimento dell’area di fallibilità dell’imprenditore e pone a carico dei lavoratori importanti limitazioni per l’effettivo recupero dei diritti retributivi e contributivi dall’area del fallimento. Spesso, infatti, i crediti che i lavoratori vantano nei confronti del proprio datore di lavoro sono nettamente inferiori ad € 30.000 e questo nuovo limite determina l’obbligo per il singolo lavoratore di intraprendere diverse azioni rispetto dalla richiesta di fallimento, ossia azioni ordinarie di recupero crediti che sono molto più lunghe ed onerose.

Quando un datore di lavoro fallisce, frequentemente i suoi dipendenti si trovano ad essere creditori di una o più retribuzioni non corrisposte nonché, in caso di risoluzione del rapporto, delle spettanze di fine rapporto. In questa ipotesi, il primo passo che il lavoratore creditore deve compiere per salvaguardare i propri diritti è la presentazione al giudice fallimentare di un ricorso per l’ammissione al passivo ai sensi dell’art. 93 Legge Fallimentare. Con tale atto, il lavoratore rivendica tutti i crediti vantati nei confronti del fallito e il giudice fallimentare decide sulla sussistenza e sull’ammontare degli stessi (l’insieme delle domande di ammissione al passivo andrà a formare lo stato passivo del fallimento).

Il lavoratore può chiedere al Fondo di garanzia dell'Inps il pagamento delle ultime tre retribuzioni, che non siano state corrisposte dal datore di lavoro, sempre che le retribuzioni in questione rientrino nei dodici mesi precedenti la sentenza dichiarativa di fallimento del datore di lavoro. Pertanto si deve ritenere che l'intervento del Fondo di garanzia dell'Inps, per il pagamento dei crediti di lavoro inerenti gli ultimi tre mesi del rapporto, debba operare in tutti i casi in cui tali crediti siano sorti nei dodici mesi antecedenti l'apertura della procedura per la dichiarazione di fallimento, e non nei dodici mesi antecedenti la sentenza che abbia dichiarato il fallimento del datore di lavoro.  link manuale

Ovviamente, non tutti i crediti godono di uguale tutela, in particolare sono distinguibili essenzialmente due categorie di crediti: quelli muniti di privilegio e quelli non muniti di privilegio (chirografari). I crediti nascenti dal rapporto di lavoro appartengono alla prima categoria e, dunque, sono privilegiati rispetto ad altri. Durante la procedura fallimentare, accanto allo stato passivo, si andrà a formare (se possibile) uno stato attivo del fallimento (dato, essenzialmente, dalla vendita dei beni mobili e immobili di proprietà dell’impresa dichiarata fallita). Al termine delle operazioni succintamente spiegate il giudice fallimentare procede alla distribuzione delle somme ricavate dalla liquidazione dell’attivo.

In buona sostanza, il ricavato del fallimento viene suddiviso fra i vari creditori con il seguente ordine:

1) pagamento delle spese, comprese quelle anticipate dall’erario, e dei debiti contratti per l’amministrazione del fallimento e per la continuazione dell’esercizio dell’impresa (se è stata autorizzata);

2) pagamento dei crediti ammessi con privilegio;

3) pagamento dei creditori chirografari in proporzione dell’ammontare dei loro crediti. E’ possibile, dunque, che il lavoratore venga interamente soddisfatto dei suoi crediti; tuttavia, spesso accade che egli lo sia solo parzialmente. In quest’ultimo caso, il lavoratore potrà presentare domanda, nei limiti già indicati, al Fondo di Garanzia istituito presso Inps.



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