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martedì 1 maggio 2018

Indennità di licenziamento e risarcimento del danno: i criteri di applicazione





Il licenziamento è illegittimo quando è intimato:

a) in assenza di giusta causa o giustificato motivo;

b) in mancanza della forma scritta;

c) per i motivi discriminatori, ossia quando il licenziamento sia dovuta:

dalla circostanza che il lavoratore aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale, abbia partecipato ad uno sciopero;

da ragioni di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua, di sesso, di età o basate sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali.

Se non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa esposti dal datore di lavoro, il giudice condanna l’azienda alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di una indennità al lavoratore che non può essere superiore alle dodici mensilità.

Tale indennità è di natura risarcitoria, in quanto, ai fini del calcolo, si deve prendere a riferimento l’ultima retribuzione globale di fatto, rapportandola  al danno subito per effetto del licenziamento illegittimo e della successiva mancata riassunzione. A ricordarlo la Corte costituzionale con la sentenza n. 86 del 23 aprile 2018, che ha ritenuto legittimo il comma 4 dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300/19709 che qualifica come “risarcitoria” l’indennità che accompagna la decisione di reintegra, a ben guardare, ha un ambito di applicazione molto ampio: in quali casi si applica?

Per chiarezza della norma è opportuno ricordare come la stessa affermi che “il giudice nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le cause punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito nel periodo di estromissione per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione”. Tale indennità, continua la norma, non può essere superiore alle dodici mensilità.

Nella sentenza si legge che “la concreta attuazione dell’ordine di reintegrazione non può prescindere dalla collaborazione del datore di lavoro poiché ha per oggetto un facere infungibile”. Tuttavia, l’inadempimento del datore di lavoro configura un “illecito istantaneo ad effetti permanenti”, da cui deriva un’obbligazione risarcitoria del danno da parte del datore nei confronti del dipendente non reintegrato. La norma denunciata, quindi, non è irragionevole ma “coerente al contesto della fattispecie disciplinata” perché – spiega la Corte – l’indennità è collegata a una “condotta contra ius del datore di lavoro e non a una prestazione di attività lavorativa da parte del dipendente”. Di qui la natura risarcitoria (e non retributiva) dell’indennità, e l’obbligo del lavoratore di restituirla qualora l’ordine di reintegrazione venga riformato.

Il lavoratore può impugnare il licenziamento illegittimo mediante qualsiasi atto scritto, anche extra giudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore.

L'impugnazione deve avvenire entro 60 giorni dalla sua comunicazione, se non viene impugnato entro tale termine il lavoratore non potrà più contestare tale atto.
La tutela riconosciuta al lavoratore e l'entità del risarcimento del danno, a seguito di licenziamento illegittimo, varia a seconda delle dimensioni dell'unità produttiva in cui era impiegato il lavoratore.

Nelle unità produttive con meno di 15 dipendenti, viene applicata la "tutela obbligatoria", che porta all'annullamento del licenziamento e l'obbligo per il datore o di riassumere il lavoratore, entro il termine di tre giorni, o il risarcimento del danno provocato, versandogli un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.

Il limite massimo del risarcimento del danno può essere innalzato a 10 mensilità per i lavoratori con almeno dieci anni di anzianità, a 14 mensilità per i lavoratori con anzianità superiore a venti anni in quelle aziende con più di 15 dipendenti.

Nelle unità produttive di maggiori dimensioni, l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori prevede: la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento del danno subito a seguito di licenziamento illegittimo dal lavoratore, commisurato alla retribuzione globale di fatto  dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegra e comunque non inferiore alle cinque mensilità.

La reintegrazione può essere sostituita, su richiesta del lavoratore, da un' indennità sostitutiva pari a 15 mensilità, da aggiungersi al risarcimento.



mercoledì 7 ottobre 2015

Assenze per malattia e licenziamento


La disciplina del licenziamento del dipendente in caso di assenze per malattia è contenuta nell’art. 2110 del codice civile. Questa norma stabilisce – in un modo che almeno fino ad oggi è risultato oggettivo e insindacabile – il periodo in cui vige il diritto alla conservazione del posto di lavoro (c.d. periodo di comporto) e l’impossibilità di licenziare in ragione della malattia. E lo stabilisce attraverso il richiamo alle specifiche disposizioni contenute nei contratti collettivi, che fissano il tetto massimo di assenze.

Oltre tale limite il lavoratore è immediatamente licenziabile, senza che il datore di lavoro debba fornire alcuna ulteriore ragione o prova: è sufficiente elencare nella lettera di licenziamento i giorni di assenza e la durata complessiva della stessa.

Queste sicurezze sono mutate dopo la sentenza della Corte di Cassazione n. 18678 del 2014, seguita da successivi e recenti provvedimenti del Tribunale di Milano, che stanno aprendo un dinamico dibattito sul tema delle assenze per malattia e del licenziamento per scarso rendimento (Trib. Milano, ordinanze n. 1341, del 19 gennaio 2015 e n. 26212, del 19 settembre 2015).

In questi casi la "giusta causa" e il "giustificato motivo" del licenziamento costituiscono qualificazioni giuridiche di comportamenti ugualmente idonei a legittimare la cessazione del rapporto di lavoro, l'uno con effetto immediato e l'altro con preavviso, fermo restando il principio dell'immutabilità della contestazione e persistendo la volontà del datore di lavoro di risolvere il rapporto. Nel fatto tipico, l’azienda ha correttamente applicato il licenziamento per giustificato motivo.

L’azienda ha denunciato il comportamento del lavoratore, con licenziamento per giustificato motivo oggettivo, applicando la pronuncia della Corte di Cassazione, n. 18678 del 2014 , la quale considera legittimo il licenziamento intimato al lavoratore per scarso rendimento, dovuto ad una eccessiva morbilità, qualora sia verificata, sulla scorta della valutazione complessiva dell'attività resa dal lavoratore stesso ed in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente - ed a lui imputabile - in conseguenza dell'enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, tenuto conto della media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione. Quindi è legittimo il licenziamento intimato al lavoratore per scarso rendimento.

Il Tribunale di Milano ha precisato però che il licenziamento non è stato intimato per superamento del periodo di comporto, ma per numerose assenze che hanno interferito con la prestazione lavorativa (nel caso specifico 808 assenze su 1500 giorni di lavoro). Inoltre, il tribunale ha precisato che il datore di lavoro può licenziare un dipendente per giustificato motivo oggettivo se le sue assenze danno luogo a un rendimento così inadeguato da rendere inutile la prestazione. Tuttavia, tale inutilità deve essere provata in concreto, nel senso che le assenze devono rendere inutile la prestazione lavorativa nelle giornate di presenza in azienda. Ciò non è accaduto, in quanto l’azienda non ha provato che l’attività lavorativa svolta dal lavoratore nei giorni di presenza in azienda sia inutile per l’azienda.

Vale a dire la Corte ha affermato la legittimità del licenziamento di un dipendente, decretato in ragione di ripetute assenze “agganciate” ai giorni di riposo e comunicate all’ultimo momento (senza superamento del periodo di comporto), in quanto avrebbero determinato scarso rendimento ed una prestazione lavorativa non proficuamente utilizzabile per il datore di lavoro, incidendo negativamente sulla produzione aziendale.

La seconda ordinanza del Tribunale di Milano ha invece accolto il ricorso del lavoratore licenziato, senza tuttavia disporne la reintegra (stabilendo soltanto il pagamento di un’indennità risarcitoria), avendo ritenuto la non manifesta insussistenza dello scarso rendimento, sulla scorta della seguente considerazione: la società avrebbe dimostrato che l’elevato numero di assenze e le modalità di fruizione delle stesse avrebbero generato un impatto negativo per l’organizzazione aziendale.

La Corte ha chiarito che mentre lo scarso rendimento è caratterizzato da colpa del lavoratore, non altrettanto può dirsi per le assenze dovute a malattia, e quasi a voler rimettere ordine su un tema tanto delicato, ha stabilito: “E poiché è stato intimato per scarso rendimento dovuto essenzialmente all’elevato numero di assenze, ma non tali da esaurire il periodo di comporto, il recesso in oggetto si rivela ingiustificato”.

domenica 8 dicembre 2013

Riorganizzazione aziendale e licenziamento: sentenza Cassazione lavoro n. 25615 del 2013



La Cassazione civile, sez. lavoro con sentenza del 14 novembre 2013, n. 25615 ha stabilito che nella nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento è riconducibile anche l'ipotesi del riassetto organizzativo dell'azienda attuato al fine di una più economica gestione di essa e deciso dall'imprenditore non semplicemente per un incremento del profitto, ma per far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, imponendo un'effettiva necessità di riduzione dei costi. Tale motivo oggettivo è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost., mentre al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall'imprenditore, con la conseguenza che non è sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità la scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il lavoratore licenziato, sempre che risulti l'effettività del riassetto organizzativo operato, non essendo, peraltro, necessario, ai fini della configurabilità del giustificato motivo, che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, ben potendo le stesse essere solo diversamente ripartite ed attribuite.

A sostegno del decisione la Corte si spiega quanto segue:

- le circostanze che avevano caratterizzato il nuovo assetto produttivo e societario ed avevano determinato la diversa e definitiva localizzazione delle attività facenti capo alla nuova società datrice di lavoro dell’appellante, avevano trovato riscontro nelle risultanze testimoniale e documentali;

- il processo di riorganizzazione (oggetto di informativa e consultazione in sede sindacale, come da verbale di accordo del luglio 2001 ex art. 47 legge n. 428/90), così come l'inerenza della attività lavorativa svolta dall’appellante al settore confluito nella nuova società, non avevano trovato alcuna contestazione nell'originario ricorso, ove il licenziamento risultava impugnato nei confronti della nuova società, avverso la quale erano state proposte le domande giudiziali, senza che fosse stata messa in discussione la effettiva titolarità del rapporto di lavoro;

- non era ravvisabile la violazione del diritto sancito dall’art. 33, comma quinto, legge n. 104/92 (il quale stabilisce che il genitore o il familiare lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado handicappato, con lui convivente, ha diritto di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede), perché tale norma attribuisce un diritto che, in virtù dell'inciso secondo il quale esso può essere esercitato "ove possibile", ed in applicazione del principio del bilanciamento degli interessi, non può essere fatto valere qualora il suo esercizio leda in misura consistente le esigenze economiche ed organizzative dell'azienda oppure, quando, come nel caso in esame, sia venuta meno la originaria sede di lavoro;

- il motivo oggettivo di licenziamento, determinato da ragioni inerenti all'attività produttiva deve essere valutato dal datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, poiché tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'art. 41 della Costituzione, spettando invece al giudice il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall'imprenditore; non erano quindi sindacabili, come già ritenuto nella sentenza di prime cure, le ragioni della riorganizzazione aziendale, mentre l'impossibilità di poter impiegare l’appellante in mansioni equivalenti risultava correttamente valutata con riferimento alla unica sede aziendale, dove la stessa appellante aveva rifiutato di trasferirsi.

Avverso la suddetta sentenza, il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, il quale è stato rigettato.

Quindi l'indirizzo della giurisprudenza di legittimità la possimao sintettizzare così: "nella nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento è riconducibile anche l'ipotesi del riassetto organizzativo dell'azienda attuato al fine di una più economica gestione di essa e deciso dall'imprenditore non semplicemente per un incremento del profitto, ma per far fronte a sfavorevoli situazioni, non meramente contingenti, influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva, imponendo una effettiva necessità di riduzione dei costi".



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