Visualizzazione post con etichetta licenziamento illegittimo. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta licenziamento illegittimo. Mostra tutti i post

lunedì 4 giugno 2018

Articolo 18: obblighi dell’azienda in caso di lavoratore ingiustamente licenziato



La Corte Costituzionale salva il nuovo art. 18 dello Statuto dei lavoratori. La violazione dell'ordine provvisorio di riassunzione espone l'azienda a risarcire i danni. Con la sentenza n. 86/2018, l'organo di garanzia costituzionale riconosce, la natura risarcitoria, e non retributiva, all'indennità che spetta al lavoratore che non venga immediatamente reintegrato nel posto di lavoro per ordine del giudice. L'indennità va restituita in caso di successiva riforma del provvedimento. Tuttavia, il datore di lavoro che non esegue l’ordine di reintegrazione provvisoriamente esecutivo, perché preferisce puntare sulla sua successiva riforma, può essere messo in mora dal dipendente e andare incontro al risarcimento del danno per la mancata reintegrazione, da quando è stato emesso l’ordine a quando è stato riformato.

La sentenza è tornata ad analizzare l’articolo 18 dello Statuto, come indicato dalla legge 92/2012. La questione interessa perciò i vecchi assunti, non le nuove tutele crescenti introdotte dal Jobs act dal 7 marzo 2015; la riforma del governo Monti, che ha operato una prima limatura alla tutela reale, ha previsto, in caso di recesso datoriale ingiustificato, accanto alla reintegra, il pagamento di un’indennità monetaria (entro il tetto delle 12 mensilità) per favorire il lavoratore nel periodo intercorrente tra la pronuncia e l’effettiva ripresa dell’attività lavorativa. Ebbene, il Tribunale di Trento ha messo nel mirino la norma, evidenziando come la qualificazione dell’indennità come risarcitoria «sarebbe irragionevole», in violazione dell’articolo 3 della Costituzione, determinando «un’ingiustificata disparità di trattamento» in relazione alla repetibilità delle somme assegnate al lavoratore, tra la posizione del datore che ottemperi all’ordine di reintegra, e quella dell’imprenditore che non vi dia esecuzione.

Per capire meglio la portata della decisione di cui alla sentenza 86/2018 riportiamo di seguito il comunicato della Corte Costituzionale del 23 aprile 2018.

Nella sentenza si legge che “la concreta attuazione dell’ordine di reintegrazione non può prescindere dalla collaborazione del datore di lavoro poiché ha per oggetto un facere infungibile”. Tuttavia, l’inadempimento del datore di lavoro configura un “illecito istantaneo ad effetti permanenti”, da cui deriva un’obbligazione risarcitoria del danno da parte del datore nei confronti del dipendente non reintegrato. La norma denunciata, quindi, non è irragionevole ma “coerente al contesto della fattispecie disciplinata” perché – spiega la Corte – l’indennità è collegata a una “condotta contra ius del datore di lavoro e non a una prestazione di attività lavorativa da parte del dipendente”.

Di qui la natura risarcitoria (e non retributiva) dell’indennità, e l’obbligo del lavoratore di restituirla qualora l’ordine di reintegrazione venga riformato. La Corte, però, ha aggiunto che “scommettere” sulla riforma dell’ordine di reintegrazione – senza eseguirlo – può essere fonte di risarcimento dei danni da parte dell’azienda. Il lavoratore, infatti, può mettere in mora il datore di lavoro che si rifiuti di adempiere l’ordine di riassunzione provvisoriamente esecutivo. E la messa in mora – nello speciale contesto della disciplina di favore del lavoratore – gli consentirà di chiedere all’azienda, in via riconvenzionale, il risarcimento dei danni subiti per il mancato reintegro, da quando è stato emesso l’ordine provvisoriamente esecutivo a quando è stato riformato.

Per la Corte la questione «è infondata»: l’inadempimento datoriale configura, infatti, un «illecito istantaneo ad effetti permanenti», da cui deriva un’obbligazione risarcitoria del danno. La norma denunciata, pertanto, non è irragionevole ma «coerente al contesto della fattispecie disciplinata» perché, spiega la Corte, l’indennità è collegata a una «condotta contra ius del datore e non a una prestazione di attività lavorativa da parte del dipendente». Di qui la sua natura risarcitoria (e non retributiva).

La Consulta ha poi concluso che “scommettere” sulla riforma della pronuncia di reintegra, senza eseguirla, può essere fonte di risarcimento danni da parte dell’azienda (il lavoratore può mettere in mora l’impresa e chiedere i danni in via riconvenzionale).

«La pronuncia della Corte – ha commentato Sandro Mainardi dell'Università di Bologna) fa chiarezza, esattamente qualificando l’«indennità risarcitoria» dovuta per la mancata ottemperanza all’ordine di reintegrazione quale «risarcimento del danno» per condotta contra ius e non, come nel regime previgente, quale corrispettivo collegato alla mancata prestazione di lavoro da parte del dipendente. La soluzione di ritenere non fondata la questione appare quindi coerente con il quadro normativo introdotto dalla riforma del 2012, ad esempio con riguardo alla deduzione dell’aliunde perceptum; ed anche equilibrata rispetto alle posizioni assunte dalle parti a seguito dell’ordine di reintegrazione».

Non reintegrare un lavoratore nel suo posto di lavoro a seguito di una sentenza esecutiva provvisoria, potrebbe costare caro all'azienda. È questo l'effetto pratico della sentenza della Corte, risarcimento danni. L'argomento è da sempre fonte di polemiche. Il Jobs act ha infatti abolito la tutela della reintegra stabilita dall'articolo 18 in caso di licenziamento ingiusto, prevedendo un indennizzo.



martedì 1 maggio 2018

Indennità di licenziamento e risarcimento del danno: i criteri di applicazione





Il licenziamento è illegittimo quando è intimato:

a) in assenza di giusta causa o giustificato motivo;

b) in mancanza della forma scritta;

c) per i motivi discriminatori, ossia quando il licenziamento sia dovuta:

dalla circostanza che il lavoratore aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale, abbia partecipato ad uno sciopero;

da ragioni di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua, di sesso, di età o basate sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali.

Se non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa esposti dal datore di lavoro, il giudice condanna l’azienda alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di una indennità al lavoratore che non può essere superiore alle dodici mensilità.

Tale indennità è di natura risarcitoria, in quanto, ai fini del calcolo, si deve prendere a riferimento l’ultima retribuzione globale di fatto, rapportandola  al danno subito per effetto del licenziamento illegittimo e della successiva mancata riassunzione. A ricordarlo la Corte costituzionale con la sentenza n. 86 del 23 aprile 2018, che ha ritenuto legittimo il comma 4 dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300/19709 che qualifica come “risarcitoria” l’indennità che accompagna la decisione di reintegra, a ben guardare, ha un ambito di applicazione molto ampio: in quali casi si applica?

Per chiarezza della norma è opportuno ricordare come la stessa affermi che “il giudice nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le cause punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito nel periodo di estromissione per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione”. Tale indennità, continua la norma, non può essere superiore alle dodici mensilità.

Nella sentenza si legge che “la concreta attuazione dell’ordine di reintegrazione non può prescindere dalla collaborazione del datore di lavoro poiché ha per oggetto un facere infungibile”. Tuttavia, l’inadempimento del datore di lavoro configura un “illecito istantaneo ad effetti permanenti”, da cui deriva un’obbligazione risarcitoria del danno da parte del datore nei confronti del dipendente non reintegrato. La norma denunciata, quindi, non è irragionevole ma “coerente al contesto della fattispecie disciplinata” perché – spiega la Corte – l’indennità è collegata a una “condotta contra ius del datore di lavoro e non a una prestazione di attività lavorativa da parte del dipendente”. Di qui la natura risarcitoria (e non retributiva) dell’indennità, e l’obbligo del lavoratore di restituirla qualora l’ordine di reintegrazione venga riformato.

Il lavoratore può impugnare il licenziamento illegittimo mediante qualsiasi atto scritto, anche extra giudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore.

L'impugnazione deve avvenire entro 60 giorni dalla sua comunicazione, se non viene impugnato entro tale termine il lavoratore non potrà più contestare tale atto.
La tutela riconosciuta al lavoratore e l'entità del risarcimento del danno, a seguito di licenziamento illegittimo, varia a seconda delle dimensioni dell'unità produttiva in cui era impiegato il lavoratore.

Nelle unità produttive con meno di 15 dipendenti, viene applicata la "tutela obbligatoria", che porta all'annullamento del licenziamento e l'obbligo per il datore o di riassumere il lavoratore, entro il termine di tre giorni, o il risarcimento del danno provocato, versandogli un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.

Il limite massimo del risarcimento del danno può essere innalzato a 10 mensilità per i lavoratori con almeno dieci anni di anzianità, a 14 mensilità per i lavoratori con anzianità superiore a venti anni in quelle aziende con più di 15 dipendenti.

Nelle unità produttive di maggiori dimensioni, l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori prevede: la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento del danno subito a seguito di licenziamento illegittimo dal lavoratore, commisurato alla retribuzione globale di fatto  dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegra e comunque non inferiore alle cinque mensilità.

La reintegrazione può essere sostituita, su richiesta del lavoratore, da un' indennità sostitutiva pari a 15 mensilità, da aggiungersi al risarcimento.



martedì 27 settembre 2016

Reintegra nel posto di lavoro per licenziamento illegittimo



La Corte di Cassazione estende oltre i confini tracciati dal Jobs Act l’ambito di applicazione della reintegra in caso di licenziamento in senso favorevole al lavoratore. La condotta tenuta dal lavoratore, seppure debitamente comprovata, non giustifica il licenziamento disciplinare qualora i fatti contestati non siano da ritenere illeciti. Ovvero, la Cassazione di fatto equipara la fattispecie di manifesta insussistenza del fatto all'ipotesi in cui il fatto, seppure compiuto dal lavoratore, risulta essere privo di una intrinseca rilevanza giuridica, poiché non illecito.

La vicenda riguarda un lavoratore licenziato per aver tenuto un comportamento litigioso, offensivo e maleducato con il personale che lui stesso aveva il compito di formare. Secondo la Suprema Corte, tale comportamento può essere punito solo con le sanzioni conservative previste dal CCNL ma non essere considerato causa di licenziamento.

Di assoluta rilevanza la sentenza n. 18418 del 20 settembre 2016, con cui la Cassazione estende le ipotesi di reintegra sul posto di lavoro previste dal Jobs Act a seguito di licenziamento disciplinare, non solo ai casi in cui il fatto contestato sia insussistente, ma anche a quelli in cui esso pur essendo vero non sia da considerare illecito, ossia non suscettibile di alcuna sanzione”. In sostanza, ha proseguito la Corte, l’assenza di illiceità di un fatto materiale pur sussistente, deve essere ricondotto all'ipotesi, che prevede la reintegra nel posto di lavoro, dell’insussistenza del fatto contestato, mentre la minore o maggiore gravità (o lievità) del fatto contestato e ritenuto sussistente, implicando un giudizio di proporzionalità, non consente l’applicazione della tutela cd reale.

In tema di licenziamento disciplinare, ai fini dell’applicabilità della tutela reintegratoria prevista dall'articolo 18 della legge 300/1970, nel testo modificato dalla legge 92/2012, all’ipotesi del fatto contestato insussistente va equiparata quella del fatto che, benché materialmente prodottosi, è privo di una intrinseca rilevanza giuridica.

In questi termini si è espressa la Cassazione osservando che la reintegrazione sul posto di lavoro non può essere esclusa per il solo fatto che il comportamento oggetto di contestazione si è effettivamente realizzato, in quanto è necessario verificare, a prescindere da un giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità della condotta oggetto di addebito disciplinare, che il fatto non sia privo del carattere di illiceità.

Aggiunge la Corte, in questo senso, che la completa irrilevanza giuridica del fatto posto alla base dell’azione disciplinare sfociata nell’irrogazione di un provvedimento espulsivo deve essere posta sullo stesso piano dell’insussistenza materiale della condotta ascritta al lavoratore. In un caso come nell’altro, alla luce di quanto previsto dal nuovo articolo 18, il datore di lavoro è condannato alla reintegrazione in servizio e al versamento al dipendente di una indennità risarcitoria pari alle retribuzioni ricomprese tra il giorno del licenziamento e quello della effettiva ricostituzione del vincolo (nei limiti di un importo massimo di 12 mensilità).

Nel caso affrontato dalla Suprema corte, il licenziamento è stato intimato sul presupposto che il lavoratore avesse tenuto un comportamento maleducato con il personale che lui stesso aveva il compito di formare e avesse, quindi, rifiutato di rinegoziare il superminimo con l’impresa, contestando a quest’ultima di essere stato esposto a pratiche di demansionamento. Nei due gradi di merito il licenziamento è stato ritenuto illegittimo e il lavoratore reintegrato in servizio. Ciò ha indotto l’impresa a proporre ricorso per Cassazione sul presupposto che, una volta dimostrata l’effettiva sussistenza dei fatti contestati, sarebbe stata riconosciuta al dipendente unicamente una tutela risarcitoria, così come previsto dal riformulato articolo 18 della legge 300/1970.

La Cassazione respinge questa lettura e, dopo aver dato atto che l’ipotesi contemplata dall’articolo 18, comma 4, dello statuto dei lavoratori si riferisce alla «insussistenza del fatto» nella sua dimensione materiale e non include un giudizio di merito sulla portata disciplinare degli addebiti, conclude per l’assimilabilità a detta fattispecie del fatto sussistente ma privo dei connotati di illiceità.

Conclude la Cassazione, alla luce di questa ricostruzione, che non può essere relegato a una valutazione di proporzionalità qualunque comportamento accertato ma privo, in concreto, di una sua consistenza antigiuridica, in quanto tale argomentazione porterebbe ad ammettere che ricade nella sola tutela indennitaria un licenziamento basato su fatti che, quantunque esistenti, sono privi di qualsivoglia rilievo disciplinare.

La sentenza, per la specificità del tema affrontato, è destinata ad esprimere effetti anche in relazione al nuovo regime sanzionatorio dei licenziamenti intimati in relazione al contratto di lavoro a tutele crescenti introdotto dal Jobs act.



venerdì 2 settembre 2016

E’ legittima l’attività di un lavoratore in malattia o infortunio, presso altra azienda



La Corte di Cassazione legittima l’attività di un lavoratore in malattia, presso terzi , se non pregiudica la guarigione, con sentenza n. 15982 del 1 agosto 2016 afferma  che è illegittimo il licenziamento intimato ad un lavoratore sorpreso a svolgere attività extralavorative durante il periodo di malattia nel caso l'attività non sia tale da pregiudicare la guarigione. Nello specifico  una lavoratrice durante il periodo in cui era stata assente dal lavoro a seguito di 'infortunio, svolgeva attività lavorativa presso il ristorante del proprio compagno. Dato che le condotte poste in essere dalla donna non erano tali da comportare una violazione delle prescrizioni di riposo e di cure impartite dai certificati medici, non trattandosi di attività richiedenti particolari sforzi, né lunga permanenza in piedi,  che non  ne pregiudicavano la guarigione, i giudici hanno ritenuto illegittimo il licenziamento e  respinto il ricorso del datore di lavoro.

E' utile illustrare l'istituto della malattia nel rapporto di lavoro subordinato, al fine di comprendere per quale ragione lo svolgimento di un'attività lavorativa nel corso di tale periodo può determinare il recesso per giusta causa.

Può definirsi malattia  uno stato di alterazione dello stato di salute del dipendente, temporaneo o definitivo, che impedisce a quest'ultimo di poter fornire la prestazione al datore di lavoro. Trattasi di una condizione che costringe il datore a sopportare l'assenza del dipendente, sospendendo di fatto il rapporto tra le parti. Il lavoratore è garantito in questo caso da un'indennità erogata dagli enti competenti (INPS o INAIL a seconda che si tratti di malattia o infortunio sul lavoro) mentre al datore sono riconosciuti una serie di poteri (come ad esempio il sollecito alla visita fiscale dei medici degli enti stessi, o anche l'utilizzo di investigatori privati) per accertare l'effettiva sussistenza dello stato di impossibilità ad adempiere del lavoratore.

In linea puramente teorica, in corso di malattia non si può svolgere attività lavorativa e si rimane reperibili nelle relative fasce orarie  previste  per legge. In caso di assenza alla visita fiscale nelle fasce c.d. "di reperibilità", il lavoratore può essere soggetto destinatario di un procedimento disciplinare volto ad indagare per quale ragione non sia stato presente alla visita medica; all'esito del procedimento disciplinare, dunque, il lavoratore potrà ricevere un provvedimento anche molto duro, perfino il licenziamento.

In sintesi, la Corte ha affermato che il dipendente in malattia può effettivamente svolgere un altro lavoro solamente se l’attività lavorativa svolta durante il periodo di malattia non pregiudica la sua guarigione e, dunque, sempre che il certificato medico attesti che la malattia, incompatibile con il “primo” lavoro, non è incompatibile con il secondo. Pertanto, in altri termini, in attesa di rientrare in azienda il dipendente può svolgere attività ulteriori, anche se queste gli procurano reddito direttamente o indirettamente.

La Corte di Cassazione ha dunque ravvisato non configurarsi licenziamento per giusta causa laddove non si dimostri che il lavoratore abbia agito fraudolentemente nei confronti del datore simulando uno stato di malattia, e lavorando presso terzi ove questi non siano imprese concorrenti o che l'attività prestata abbia ritardato e/o compromesso il recupero dalla malattia.

Il datore di lavoro, pertanto, dovrà fornire la prova che lo stato di malattia era stato fraudolentemente simulato dal lavoratore al solo fine di assentarsi dal posto di lavoro – con la relativa retribuzione riconosciuta dall'Inps – per poi recarsi in altro posto di lavoro e svolgere un'attività perfino in concorrenza.

Da parte sua, il lavoratore è onerato di dimostrare la compatibilità tra l'attività espletata a favore di terzi e lo stato di malattia (impeditiva del rapporto di lavoro) e che tale attività non abbia pregiudicato il normale recupero fisico, rimanendo al giudice le relative valutazioni degli accertamenti svolti in concreto e non astrattamente

L'onere della prova è a carico del datore

Come visto, è il caso di ricordare che l'onere della prova della sussistenza giusta causa di recesso – sia nella sua materialità, sia con riferimento all'elemento psicologico - grava, comunque, sul datore di lavoro.



domenica 20 ottobre 2013

Licenziamento illegittimo se il dirigente rifiuta il lavoro perché declassante



Con sentenza n. 4673 del 2008 questa Corte ha cassato la sentenza della Corte d'Appello di Roma con la quale quest'ultima, in riforma della sentenza del Tribunale, aveva dichiarato l'illegittimità del licenziamento intimato dalla società A.T. di Fiuggi con lettera del 24 maggio 1995, con condanna della società al pagamento di una somma per l'anticipato recesso e di altra somma per l'accertata dequalificazione professionale.

La Cassazione civile sezione lavoro nella sentenza del 3 ottobre 2013, n. 22625 ha stabilito che nel rapporto di lavoro subordinato è illegittimo il licenziamento del dirigente, che si rifiuta di svolgere qualsiasi prestazione,in quanto vi era stata la totale sottrazione delle mansioni. In tale ipotesi, si applica il principio di autotutela di cui all’art. 1460 c.c., in cui si afferma che il rifiuto del lavoratore di svolgere la prestazione può essere legittimo, e quindi inidoneo a giustificare il licenziamento, a condizione che sia proporzionato all'illegittimo comportamento datoriale.

Il dipendente licenziato era stato assunto con la qualifica di direttore generale con contratto a tempo determinato scadente il 31 dicembre 96; nel mese di agosto 1994 il consiglio di amministrazione era stato rinnovato con la nomina di un nuovo presidente ed erano state introdotte modifiche allo statuto aziendale in base alle quali il direttore generale non aveva più la rappresentanza legale attribuita al presidente; il licenziato aveva ritenuto che tale modifica e alcuni comportamenti aziendali avessero determinato la sua dequalificazione, e si era pertanto rifiutato di rendere la prestazione; con lettera del 24 maggio 95 l'azienda lo aveva licenziato per giusta causa contestandogli il rifiuto della prestazione e l'abbandono del servizio.

La Corte ha rilevato, con riferimento alla denunciata dequalificazione, che dalle deduzioni del ricorso di primo grado non contestate e dall'esito della prova testimoniale, era emerso che la privazione di compiti in precedenza attribuiti al lavoratore si era estesa ben oltre l'attuazione della modifica statutaria. La Corte d'Appello ha affermato infatti che il nuovo statuto del 1994 si era limitato a sottrarre al direttore generale la rappresentanza legale dell'azienda attribuendola al presidente, mantenendo però in capo al direttore generale i poteri di gestione.

Il nuovo statuto non consentiva al presidente di intromettersi nella gestione della società così come, invece, era avvenuto, essendosi il Presidente attribuito il potere di firma su ogni atto esterno e quindi anche sugli atti di gestione, come quelli relativi ai rapporti con le banche, i fornitori, i consulenti, gli enti , interpretando il concetto di rappresentanza legale in modo così ampio da inglobare qualsiasi potere relativo ai rapporti esterni benché lo Statuto attribuisse al direttore competenze di rilevanza esterna sotto la sua esclusiva responsabilità. Ha osservato, altresì, che il presidente si inseriva anche materialmente nella gestione tenendo contatti diretti con i dipendenti, con i professionisti esterni, i consulenti, seppure non impedendoli al direttore, di cui però controllava ogni attività esterna al momento della firma sugli atti istruiti dal dipendente licenziato.


domenica 29 aprile 2012

Licenziamento illegittimo: se il datore di lavoro non indica i motivi dell'eccedenza


Ai fini dell’efficacia di un licenziamento collettivo è necessario anzitutto che sul fronte procedurale vengano puntualmente seguite le norme previste dalla legge n. 223 del 1991, nonché la puntuale indicazione sia dei motivi che determinano la situazione di eccedenza sia dei motivi di carattere tecnico, organizzativo e produttivo che non consentono di adottare misure idonee a porre rimedio a tale situazione ed evitare la mobilità, la ricollocazione aziendale, la modifica dei profili professionali e la riduzione del numero dei lavoratori impiegati.
L'inadeguata e insufficiente indicazione, nelle comunicazioni preventive scritte - indirizzate alle rappresentanze sindacali aziendali, associazioni di categoria e all'Ufficio provinciale del Lavoro - dei motivi tecnici e imprenditoriali che spingono il datore di lavoro a licenziare alcuni dipendenti non può essere "sanata" da un successivo accordo sindacale che individui i lavoratori da estromettere.
È ribadendo questo principio - già emerso nella giurisprudenza recente della Suprema Corte - che la sentenza 5582 del 6 aprile 2012 della Corte di Cassazione (sezione Lavoro) ha confermato l'illegittimità del licenziamento collettivo intimato nel 1998 ad un gruppo di impiegati di una società impegnata nella gestione dei servizi di back office per conto di una banca popolare.

Quindi affinché un licenziamento per giusta causa sia legittimo devono essere indicati, non solo i motivi che determinano la situazione di eccedenza, ma anche i motivi tecnici, organizzativi e produttivi per i quali si ritiene di non poter adottare misure idonee a porre rimedio a detta situazione ed evitare la dichiarazione di mobilità, il numero, la collocazione aziendale ed i profili professionali non solo del personale eccedente, ma anche del personale abitualmente impiegato, i tempi di attuazione del programma di mobilità, e le eventuali misure programmate per fronteggiare le conseguenze, sul piano sociale, dell'attuazione del medesimo programma.

Ha spiegato la sentenza che, mancando «i motivi che avrebbero determinato l'eccedenza di personale, ma anche quelli tecnici, organizzativi e produttivi per i quali si ritiene di non poter adottare misure idonee a porre rimedio a detta situazione». Irrilevante anche il fatto che successivamente sia stato redatto un verbale di accordo sindacale, che «non assume rilievo ai fini della valutazione della completezza della comunicazione preventiva. La mancata prova che l'esito della procedura sia stato comunicato ritualmente» agli interessati «comporta un ulteriore profilo di inefficacia dei licenziamenti».

La Cassazione, da parte sua, ha quindi respinto in toto l'articolato ricorso della banca e della società di servizi, incardinato in particolare, sull'effetto "sanante" dell'accordo sindacale successivo alla procedura informativa. Per i giudici, «l'inizale comunicazione di avvio della procedura, che sia in ipotesi assolutamente generica e vuota di contenuto, non è, sanata se dal successivo accordo sindacale perché risulterebbe del tutto frustrata l'esigenza di trasparenza del processo decisionale datoriale alla quale sono interessati i lavoratori potenzialmente destinati ad essere estromessi dall'azienda».
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...
BlogItalia - La directory italiana dei blog