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venerdì 28 settembre 2018

Jobs act: la Corte costituzionale boccia i criteri sui licenziamenti



Per i licenziamenti illegittimi sarà a discrezione del giudice. È questo l’effetto immediato della sentenza della Consulta che ha ritenuto irragionevole che la misura dell'indennità sia calcolata automaticamente in base alla sola durata del rapporto.

La Consulta ha esaminato il decreto legislativo 23/2015 sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti- il Jobs Act, appunto - e ha bocciato alcune disposizioni contenute nell'articolo 3, comma 1: in particolare, la norma che determina in modo rigido l'indennità che spetta al lavoratore licenziato in modo ingiustificato. Norma che non è stata modificata dal successivo decreto legge n.87/2018 (il cosiddetto Decreto dignità). In sostanza il Jobs Act prevede per il lavoratore licenziato in modo ingiusto, salvo alcuni casi, un'indennità e dunque un risarcimento di due mesi di stipendio per ogni anno di anzianità, entro un limite minimo di 4 mesi di stipendio e massimo di 24 mesi. Se per esempio fosse stato giudicato illegittimo un licenziamento di un lavoratore a tutele crescenti con 4 anni di servizio, questi avrebbe ricevuto un risarcimento di 8 mesi di stipendio. Il Decreto Dignità, approvato ad agosto, ha modificato solo una parte dell'articolo 3: è stato rialzato il limite minimo e massimo dei risarcimenti rispettivamente a 6 e a 36 mesi. L'impianto generale, però, non è stato cambiato: dunque l'indennità resta legata all'anzianità di servizio.

Secondo la Corte, la previsione di una indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio del lavoratore è “contraria ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza e contrasta con il diritto e la tutela del lavoro” sanciti dagli articoli 4 e 35 della Costituzione. Tutte le altre questioni sollevate relative ai licenziamenti, invece, sono state dichiarate inammissibili o infondate. La sentenza sarà depositata nelle prossime settimane.

Le nuove tutele crescenti, in vigore dal 7 marzo 2015, hanno marginalizzato la reintegrazione, sostituendola nei licenziamenti economici e in parte disciplinari, con indennizzi monetari crescenti in base all'anzianità di servizio del lavoratore. Oggi, a seguito delle modifiche operate dal decreto Conte di metà luglio, gli indennizzi oscillano da 6 (minimo) a 36 (massimo) mensilità. La scelta del Legislatore del 2015 era quella di fornire certezza sui costi di separazione, sia per le aziende sia per gli stessi lavoratori.

Per la Consulta, con il dispositivo pubblicato, non è in discussione il meccanismo di ristoro economico al posto della tutela reale. Cioè, le tutele crescenti continuano a esistere. A violare la costituzione è piuttosto la previsione di una indennità crescente in ragione della sola anzianità aziendale. Questa previsione, secondo i giudici di legittimità, contrasterebbe con i principi di ragionevolezza e uguaglianza, e, anche, con il diritto e la tutela del lavoro.

Cosa cambierà in pratica? Secondo esperti e giuslavoristi ci sarà il rischio di una ripresa del contenzione nei tribunali del lavoro.

«L’impianto del Jobs act è confermato – spiega il giuslavorista Giampiero Falasca – ma annulla il criterio di quantificazione del risarcimento escludendo che possa legarsi solo all'anzianità lavorativa. Il giudice quindi potrà decidere caso per caso». Fatto salvo comunque il limite minimo di 6 mesi e il massimo di 36 mesi, due soglie ritoccate al rialzo la decreto dignità di questa estate. Prima infatti la forchetta era tra 4 e 24 mensilità.

Sulla stessa lunghezza d’onda Pietro Ichino che ha twittato: «L’effetto pratico sarà un aumento dell’alea del giudizio, quindi del contenzioso giudiziale (i grandi beneficati sono gli avvocati). Ma è probabile che i giudici finiscano col non discostarsi molto dal criterio stabilito dalla legge».

Ovvero cambia l’indennità di risarcimento sui licenziamenti illegittimi per motivi disciplinari ed economici nelle aziende con più di 15 dipendenti. Il giudice non dovrà più stabilirla in base agli anni di servizio, come dice la legge, ma, fermi restando i limiti minimi e massimi dell’indennità (6-36 mesi di stipendio), deciderà il risarcimento al lavoratore valutando la gravità del singolo caso. Per esempio, un dipendente licenziato in modo pretestuoso e che abbia carichi familiari gravosi (figli disabili, genitori anziani, ecc.) potrebbe vedersi riconosciuto un indennizzo pari a 36 mesi di stipendio anche se assunto da poco, contro i 6 mesi cui avrebbe diritto secondo le norme finora vigenti.





lunedì 4 giugno 2018

Articolo 18: obblighi dell’azienda in caso di lavoratore ingiustamente licenziato



La Corte Costituzionale salva il nuovo art. 18 dello Statuto dei lavoratori. La violazione dell'ordine provvisorio di riassunzione espone l'azienda a risarcire i danni. Con la sentenza n. 86/2018, l'organo di garanzia costituzionale riconosce, la natura risarcitoria, e non retributiva, all'indennità che spetta al lavoratore che non venga immediatamente reintegrato nel posto di lavoro per ordine del giudice. L'indennità va restituita in caso di successiva riforma del provvedimento. Tuttavia, il datore di lavoro che non esegue l’ordine di reintegrazione provvisoriamente esecutivo, perché preferisce puntare sulla sua successiva riforma, può essere messo in mora dal dipendente e andare incontro al risarcimento del danno per la mancata reintegrazione, da quando è stato emesso l’ordine a quando è stato riformato.

La sentenza è tornata ad analizzare l’articolo 18 dello Statuto, come indicato dalla legge 92/2012. La questione interessa perciò i vecchi assunti, non le nuove tutele crescenti introdotte dal Jobs act dal 7 marzo 2015; la riforma del governo Monti, che ha operato una prima limatura alla tutela reale, ha previsto, in caso di recesso datoriale ingiustificato, accanto alla reintegra, il pagamento di un’indennità monetaria (entro il tetto delle 12 mensilità) per favorire il lavoratore nel periodo intercorrente tra la pronuncia e l’effettiva ripresa dell’attività lavorativa. Ebbene, il Tribunale di Trento ha messo nel mirino la norma, evidenziando come la qualificazione dell’indennità come risarcitoria «sarebbe irragionevole», in violazione dell’articolo 3 della Costituzione, determinando «un’ingiustificata disparità di trattamento» in relazione alla repetibilità delle somme assegnate al lavoratore, tra la posizione del datore che ottemperi all’ordine di reintegra, e quella dell’imprenditore che non vi dia esecuzione.

Per capire meglio la portata della decisione di cui alla sentenza 86/2018 riportiamo di seguito il comunicato della Corte Costituzionale del 23 aprile 2018.

Nella sentenza si legge che “la concreta attuazione dell’ordine di reintegrazione non può prescindere dalla collaborazione del datore di lavoro poiché ha per oggetto un facere infungibile”. Tuttavia, l’inadempimento del datore di lavoro configura un “illecito istantaneo ad effetti permanenti”, da cui deriva un’obbligazione risarcitoria del danno da parte del datore nei confronti del dipendente non reintegrato. La norma denunciata, quindi, non è irragionevole ma “coerente al contesto della fattispecie disciplinata” perché – spiega la Corte – l’indennità è collegata a una “condotta contra ius del datore di lavoro e non a una prestazione di attività lavorativa da parte del dipendente”.

Di qui la natura risarcitoria (e non retributiva) dell’indennità, e l’obbligo del lavoratore di restituirla qualora l’ordine di reintegrazione venga riformato. La Corte, però, ha aggiunto che “scommettere” sulla riforma dell’ordine di reintegrazione – senza eseguirlo – può essere fonte di risarcimento dei danni da parte dell’azienda. Il lavoratore, infatti, può mettere in mora il datore di lavoro che si rifiuti di adempiere l’ordine di riassunzione provvisoriamente esecutivo. E la messa in mora – nello speciale contesto della disciplina di favore del lavoratore – gli consentirà di chiedere all’azienda, in via riconvenzionale, il risarcimento dei danni subiti per il mancato reintegro, da quando è stato emesso l’ordine provvisoriamente esecutivo a quando è stato riformato.

Per la Corte la questione «è infondata»: l’inadempimento datoriale configura, infatti, un «illecito istantaneo ad effetti permanenti», da cui deriva un’obbligazione risarcitoria del danno. La norma denunciata, pertanto, non è irragionevole ma «coerente al contesto della fattispecie disciplinata» perché, spiega la Corte, l’indennità è collegata a una «condotta contra ius del datore e non a una prestazione di attività lavorativa da parte del dipendente». Di qui la sua natura risarcitoria (e non retributiva).

La Consulta ha poi concluso che “scommettere” sulla riforma della pronuncia di reintegra, senza eseguirla, può essere fonte di risarcimento danni da parte dell’azienda (il lavoratore può mettere in mora l’impresa e chiedere i danni in via riconvenzionale).

«La pronuncia della Corte – ha commentato Sandro Mainardi dell'Università di Bologna) fa chiarezza, esattamente qualificando l’«indennità risarcitoria» dovuta per la mancata ottemperanza all’ordine di reintegrazione quale «risarcimento del danno» per condotta contra ius e non, come nel regime previgente, quale corrispettivo collegato alla mancata prestazione di lavoro da parte del dipendente. La soluzione di ritenere non fondata la questione appare quindi coerente con il quadro normativo introdotto dalla riforma del 2012, ad esempio con riguardo alla deduzione dell’aliunde perceptum; ed anche equilibrata rispetto alle posizioni assunte dalle parti a seguito dell’ordine di reintegrazione».

Non reintegrare un lavoratore nel suo posto di lavoro a seguito di una sentenza esecutiva provvisoria, potrebbe costare caro all'azienda. È questo l'effetto pratico della sentenza della Corte, risarcimento danni. L'argomento è da sempre fonte di polemiche. Il Jobs act ha infatti abolito la tutela della reintegra stabilita dall'articolo 18 in caso di licenziamento ingiusto, prevedendo un indennizzo.



martedì 1 maggio 2018

Indennità di licenziamento e risarcimento del danno: i criteri di applicazione





Il licenziamento è illegittimo quando è intimato:

a) in assenza di giusta causa o giustificato motivo;

b) in mancanza della forma scritta;

c) per i motivi discriminatori, ossia quando il licenziamento sia dovuta:

dalla circostanza che il lavoratore aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale, abbia partecipato ad uno sciopero;

da ragioni di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua, di sesso, di età o basate sull'orientamento sessuale o sulle convinzioni personali.

Se non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa esposti dal datore di lavoro, il giudice condanna l’azienda alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di una indennità al lavoratore che non può essere superiore alle dodici mensilità.

Tale indennità è di natura risarcitoria, in quanto, ai fini del calcolo, si deve prendere a riferimento l’ultima retribuzione globale di fatto, rapportandola  al danno subito per effetto del licenziamento illegittimo e della successiva mancata riassunzione. A ricordarlo la Corte costituzionale con la sentenza n. 86 del 23 aprile 2018, che ha ritenuto legittimo il comma 4 dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300/19709 che qualifica come “risarcitoria” l’indennità che accompagna la decisione di reintegra, a ben guardare, ha un ambito di applicazione molto ampio: in quali casi si applica?

Per chiarezza della norma è opportuno ricordare come la stessa affermi che “il giudice nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le cause punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito nel periodo di estromissione per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione”. Tale indennità, continua la norma, non può essere superiore alle dodici mensilità.

Nella sentenza si legge che “la concreta attuazione dell’ordine di reintegrazione non può prescindere dalla collaborazione del datore di lavoro poiché ha per oggetto un facere infungibile”. Tuttavia, l’inadempimento del datore di lavoro configura un “illecito istantaneo ad effetti permanenti”, da cui deriva un’obbligazione risarcitoria del danno da parte del datore nei confronti del dipendente non reintegrato. La norma denunciata, quindi, non è irragionevole ma “coerente al contesto della fattispecie disciplinata” perché – spiega la Corte – l’indennità è collegata a una “condotta contra ius del datore di lavoro e non a una prestazione di attività lavorativa da parte del dipendente”. Di qui la natura risarcitoria (e non retributiva) dell’indennità, e l’obbligo del lavoratore di restituirla qualora l’ordine di reintegrazione venga riformato.

Il lavoratore può impugnare il licenziamento illegittimo mediante qualsiasi atto scritto, anche extra giudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore.

L'impugnazione deve avvenire entro 60 giorni dalla sua comunicazione, se non viene impugnato entro tale termine il lavoratore non potrà più contestare tale atto.
La tutela riconosciuta al lavoratore e l'entità del risarcimento del danno, a seguito di licenziamento illegittimo, varia a seconda delle dimensioni dell'unità produttiva in cui era impiegato il lavoratore.

Nelle unità produttive con meno di 15 dipendenti, viene applicata la "tutela obbligatoria", che porta all'annullamento del licenziamento e l'obbligo per il datore o di riassumere il lavoratore, entro il termine di tre giorni, o il risarcimento del danno provocato, versandogli un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.

Il limite massimo del risarcimento del danno può essere innalzato a 10 mensilità per i lavoratori con almeno dieci anni di anzianità, a 14 mensilità per i lavoratori con anzianità superiore a venti anni in quelle aziende con più di 15 dipendenti.

Nelle unità produttive di maggiori dimensioni, l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori prevede: la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento del danno subito a seguito di licenziamento illegittimo dal lavoratore, commisurato alla retribuzione globale di fatto  dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegra e comunque non inferiore alle cinque mensilità.

La reintegrazione può essere sostituita, su richiesta del lavoratore, da un' indennità sostitutiva pari a 15 mensilità, da aggiungersi al risarcimento.



domenica 9 ottobre 2016

Permessi Legge 104: spettano anche al convivente


I permessi Legge 104 sono dei permessi mensili retribuiti che vengono riconosciuti dal datore di lavoro e permettono al coniuge, parenti o affini della persona affetta da handicap grave di poter prestare assistenza al famigliare disabile grazie a 3 giorni di permesso retribuito.

I tre giorni di permesso al mese che consentono di assentarsi dal lavoro per assistere familiari con gravi handicap devono essere riconosciuti anche al convivente more uxorio e non solo al coniuge e ai parenti e affini. Con la sentenza 213/2016, depositata ieri, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 33, comma 3, della legge 104/1992 che individua i fruitori dei permessi, in quanto non include i conviventi oltre ai familiari più stretti.

Il diritto alla salute, tutelato dall’articolo 32 della Costituzione, rientra a sua volta tra i diritti inviolabili garantiti dall’articolo 2 della Carta costituzionale, sia in quanto il soggetto come singolo che nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità. Per quanto riguarda queste ultime, per formazione sociale si deve intendere ogni forma di comunità.

Di conseguenza, per la Consulta «è irragionevole che nell’elencazione dei soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito…non sia incluso il convivente della persona con handicap in situazione di gravità». L’articolo 33, comma 3, della legge 104/1992 risulta illegittimo rispetto all’articolo 3 della Carta costituzionale non tanto perché non equipara coniuge e convivente, che hanno una condizione comunque diversa, ma perché costituisce una contraddizione logica dato che la norma vuole tutelare il diritto alla salute psico-fisica del disabile, finalità che in questo caso costituisce l’elemento che unifica la situazione di assistenza da parte del coniuge o del familiare di secondo grado e quella fornita dal convivente.

Escludere quest’ultimo dai beneficiari dei permessi comporta, secondo i giudici, un’irragionevole compressione del diritto, costituzionalmente presidiato, del disabile a ricevere assistenza nell’ambito della sua comunità di vita «non in ragione di una carenza di soggetti portatori di un rapporto qualificato sul piano affettivo, ma in funzione di un dato normativo rappresentato dal mero rapporto di parentela o di coniugio».

Secondo quanto stabilito dalla sentenza 213/2016 della Corte Costituzionale, i tre giorni di permesso al mese che permettono di assentarsi dal lavoro per poter assistere dei familiari affetti con gravi handicap possono essere fruiti anche dal convivente more uxorio e non solo al coniuge e ai parenti e affini. Vediamo dunque in che modo si sia arrivati a questa pronuncia, e cosa potrebbe ora cambiare per tutti i potenziali interessati.

Per potersi esprimere circa la congruità di tale valutazione, o meno, i giudici costituzionali hanno tuttavia ricordato che l’interesse primario della legge 104/1992 è quello di “assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell’assistenza del disabile che si realizzino in ambito familiare”. Tutto ciò, unito all’evidenza che il diritto alla salute rientra a pieno titolo tra i diritti inviolabili garantiti dall’articolo 2 della Carta costituzionale, ha portato la Consulta a ritenere “irragionevole che nell’elencazione dei soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito…non sia incluso il convivente della persona con handicap in situazione di gravità”.

La Corte Costituzionale ha poi ricordato come la ragione dei permessi mensili retribuiti risiede nella tutela della salute psico-fisica del disabile, che rappresenta la finalità che lo Stato vuole perseguire attraverso la Legge 104/92.


mercoledì 21 settembre 2016

INPS: calcolo pensioni reversibilità o superstiti



Alla morte di un pensionato o di un lavoratore assicurato, alcuni dei suoi familiari hanno diritto ad una pensione. Si tratta di una protezione che l'ordinamento giuridico riconosce ai familiari più stretti del defunto quali il coniuge e i figli ed, in subordine, ai suoi genitori, ai fratelli o alle sorelle inabili che trova fondamento nell'esigenza di tutelare le esigenze di vita della famiglia cui il defunto contribuiva.

La pensione ai superstiti è una prestazione economica erogata, a domanda, in favore dei familiari del:

pensionato (pensione di reversibilità);

lavoratore (pensione indiretta).

I superstiti dell’iscritto nella assicurazione generale obbligatoria per i lavoratori dipendenti hanno diritto alla pensione privilegiata indiretta per inabilità nel caso in cui la morte del dante causa risulti riconducibile, con nesso di causalità diretta, al servizio prestato nel corso di un rapporto di lavoro.

Hanno diritto alla pensione:

il coniuge superstite, anche se separato: se il coniuge superstite è separato con addebito, la pensione ai superstiti spetta a condizione che gli sia stato riconosciuto dal Tribunale il diritto  all’assegno al mantenimento;

il coniuge divorziato se titolare di assegno divorzile;

i figli, adottivi e affiliati  riconosciuti legalmente o giudizialmente dichiarati, nati da precedente matrimonio dell'altro coniuge, riconosciuti legalmente o giudizialmente dichiarati dal coniuge del deceduto, minori regolarmente affidati da organi competenti a norma di legge) che alla data della morte del dante causa siano minori, inabili di qualunque età, studenti entro il 21° o 26° anno di età se universitari e siano a carico dello stesso dante causa;

i figli (legittimi o legittimati, adottivi o affiliati, naturali, riconosciuti legalmente o giudizialmente dichiarati, nati da precedente matrimonio dell'altro coniuge) che alla data della morte del genitore siano minorenni, inabili, studenti o universitari e a carico alla data di morte del medesimo;

i nipoti minori (equiparati ai figli) se a carico degli ascendenti (nonno o nonna), anche se non formalmente loro affidati, alla data di morte dei medesimi.

In mancanza del coniuge, dei figli e dei nipoti la pensione può essere erogata:

ai genitori d'età non inferiore a 65 anni, non titolari di pensione, che alla data di morte del lavoratore e/o pensionato siano a carico del medesimo.

In mancanza del coniuge, dei figli, dei nipoti e dei genitori la pensione può essere erogata:

ai fratelli celibi inabili e sorelle nubili inabili, non titolari di pensione, che alla data di morte del lavoratore e/o pensionato siano a carico del medesimo.

La pensione ai superstiti viene pagata dal primo giorno del mese successivo a quello del decesso del lavoratore o del pensionato, indipendentemente da quando viene fatta domanda.

L'ammontare si calcola sulla base dell'assegno dovuto al lavoratore scomparso, oppure della pensione che veniva pagata al pensionato deceduto, con una percentuale variabile:

60%, solo coniuge;

70%, solo un figlio;

80%, coniuge e un figlio; oppure due figli senza coniuge;

100% coniuge e due o più figli; oppure tre o più figli;

15% per ogni altro familiare, avente diritto, diverso dal coniuge, figli e nipoti.

Il superstite di lavoratore assicurato dopo il 31.12.1995 e deceduto senza aver perfezionato i requisiti amministrativi richiesti, può richiedere  l’indennità una-tantum, se:

non sussistono i requisiti assicurativi e contributivi per la pensione indiretta;

non ha diritto a rendite per infortunio sul lavoro o malattia professionale, in conseguenza della morte dell’assicurato;

è in possesso di redditi non superiori ai limiti previsti per la concessione dell’assegno sociale.

Il diritto all'importo in questione è soggetto alla prescrizione decennale.

Il diritto alla pensione ai superstiti cessa nei seguenti casi:

per il coniuge, se si sposa nuovamente. In questo caso riceve una "una tantum" di due anni della sua quota di pensione, compresa la tredicesima mensilità. Nel caso che la pensione risulti erogata, oltre che al coniuge, anche ai figli, la pensione deve essere ricalcolata a questi ultimi, con le nuove aliquote relative al nuovo nucleo familiare per i figli minori, al compimento del 18° anno di età;

per i figli studenti di scuola media o professionale che terminano o interrompono gli studi e comunque al compimento del 21° anno di età. L'avvio dell'attività lavorativa da parte dei figli, il superamento del 21° anno di età e l'interruzione degli studi non comportano l'estinzione, ma soltanto la sospensione del diritto alla pensione;

per i figli studenti universitari che terminano o interrompono gli anni del corso legale di laurea e comunque al compimento del 26° anno di età; anche in questo caso, un'attività lavorativa da parte dei figli universitari e l'interruzione degli studi non comportano l'estinzione, ma soltanto la sospensione del diritto alla pensione;

per i figli inabili qualora venga meno lo stato di inabilità;

per i genitori qualora conseguano altra pensione;

per i fratelli e le sorelle qualora conseguano altra pensione, o contraggano matrimonio, ovvero venga meno lo stato di inabilità;

per i nipoti minori, equiparati ai figli legittimi, valgono le medesime cause di cessazione e/o sospensione dal diritto alla pensione ai superstiti previste per i figli.

Le pensioni ai superstiti liquidate prima della sentenza con cui la Corte Costituzionale ha bocciato la penalizzazione in caso di matrimoni contratti dopo i 70 anni con differenza di età superiore ai 20, verranno ricalcolate dall‘INPS eliminando la decurtazione e ripristinando la normale aliquota del 60%. Le domande non ancora definite e quelle di nuova presentazione verranno direttamente esaminate in base alle regole post-sentenza. Le precisazioni arrivano dall’INPS con Circolare n. 178/2016.

L’istituto di previdenza recepisce così la sentenza 174/2016, che ha ritenuto illegittimo il taglio alle pensioni stabilito dal comma 5, articolo 18, decreto legge 98/2011. La norma prevedeva un taglio del 10% per ogni anno di matrimonio inferiore ai dieci nel caso di nozze fra persone con differenza di età superiore ai 20 anni e con uno dei due coniugi almeno 70enne.

La Suprema Corte, spiega l’INPS, ha rilevato che: ogni limitazione del diritto alla pensione di reversibilità deve rispettare i principi di uguaglianza, ragionevolezza, nonché il principio di solidarietà che è alla base del trattamento pensionistico in esame».

L’effetto della sentenza è che la norma dichiarata incostituzionale non è più applicabile dal giorno successivo alla sua pubblicazione (dal 21 luglio).

Di conseguenza, l’INPS ha stabilito le regole per ricostituire le pensioni di coloro che hanno subito la decurtazione.

Le pensioni a cui è stato applicato il taglio del 10% vengono ricalcolate a partire dal primo giorno del mese successivo al decesso del coniuge, e vengono riconosciuti i relativi ratei arretrati. Se nel frattempo è intervenuta sentenza passata in giudicato, i ratei arretrati sono erogati dal primo giorno del mese successivo al passaggio in giudicato della sentenza.

Tutti i ricorsi pendenti vanno riesaminati alla luce della sentenza.

Le pensioni di reversibilità eliminate a causa della legge incostituzionale. vengono a loro volta ricostituite ma bisogna presentare domanda.




martedì 23 agosto 2016

Rinnovo contratto statali quanto deve spettare al dipendente pubblico




La vicenda degli stipendi degli statali risale ormai dal 2010, quando si impose per decreto il blocco delle buste paga di circa 3,3 milioni di dipendenti pubblici per gli anni 2011-2012-2013. poi non più revocato.

Sul rinnovo dei contratti del pubblico impiego si è partiti col il passo inopportuno, infatti sono fermi da sei anni, in seguito  la Corte costituzionale, con la sentenza n. 178 del luglio 2015, ha stabilito che il blocco doveva cessare, e bisognava rinnovare i contratti. Di qui all'ultimo giorno in cui la legge di stabilità 2017 uscirà dal parlamento  sarà  aperto lo scontro su quante risorse destinare al rinnovo dei contratti degli statali. Ovvero i dipendenti statali, circa tre milioni di dipendenti pubblici. Subiscono il blocco dei contratti di lavoro da sei -sette anni, e hanno diritto, non fosse altro che per la sentenza sopra menzionata, al rinnovo del contratto di lavoro.

Vediamo gli effetti dello stop retributivo pubblico. È ovvio che i sindacati del pubblico impiego considerino molto grave che, fatta 100 la base retributiva pubblica del 2010, essa sia la stessa a giugno 2016, sicché in termini reali i dipendenti pubblici hanno perso potere d'acquisto.

Mentre le retribuzioni del settore privato sono passate da 100 del 2010 a 109,9. Bisogna però equilibrare questo dato con un altro, più di lungo periodo. Le retribuzioni pubbliche conoscevano da decenni andamenti nel complesso superiori rispetto a quelle private. Nel solo periodo 2001-2009, cioè prima dello stop, l'incremento complessivo nominale delle retribuzioni di fatto pubbliche è stato secondo l'Istat del 31,9%, a fronte del 27% nell'industria privata e del 23,% nei servizi di mercato.

Il rinnovo del contratto degli statali sembra che stia entrando nel vivo, appena qualche giorno fa la UilPa ha piazzato l’asticella delle risorse che il governo dovrebbe mettere sul tavolo del rinnovo del contratto degli statali a 7 miliardi a regime, al di sotto di questa cifra non avrebbe senso neanche sedersi al tavolo della trattativa per discuterne, le altre sigle sindacali come Cgil e la Cisl sono quasi sulla stessa lunghezza d’onda della UilPA.

La CGIL ha chiesto un’aumento di stipendio per i 3 milioni di dipendenti statali di circa 220 euro lordi al mese, che al netto delle tasse fanno 132 euro, mentre la Cisl ha chiesto un’incremento in busta paga di 150 euro, cifre molto distanti di quelle fornite dal Governo che ad oggi sarebbe disposto a stanziare circa 300 milioni di euro che divisi per tutti i dipendenti statali sarebbero non più di 10 € di aumento a testa, una vera e propria presa in giro.

Il governo in queste ultime settimane si è reso conto che i 300 milioni di euro sono davvero irrisori ed i fondi da destinare ai dipendenti pubblici devono essere aumentati.

Tra le soluzioni al momento in discussione c’è l’idea di un’aumento di 80 € come è accaduto appena qualche anno fa per i redditi più bassi in questo modo non si andrebbe al di sotto del bonus 80 euro ed allo stesso tempo si tratterebbe di un aumento contrattuale qualche gradino al di sotto di 110 euro mediamente ottenuto dai dipendenti privati nei contratti rinnovati fino ad ora.

Poniamoci delle domande Hanno diritto ad un aumento salariale?

Già, ma quanto? Quanti euro fa questo diritto? Subito dopo la sentenza il governo pro forma mise a bilancio trecento milioni per gli statali: faceva 5/6 euro al mese lordi per lavoratore.

Appena iniziate le trattative reali il governo ha subito spiegato che non sarà trecento milioni la sua disponibilità, sarà di più. Ma quanto di più il governo non ha detto. Hanno detto invece i sindacati: sette miliardi.

Che fa più o meno 150 euro lordi al mese di aumento per dipendente pubblico. Come li calcolano i sindacati questi sette miliardi?

Più o meno così: moltiplicando per tutti gli anni di blocco contrattuale l’inflazione più un totale inerente alla per loro naturale e doverosa progressione delle retribuzioni. Ci provano, è il loro mestiere.

Ma il diritto, come espresso sopra agli statali spetta da sentenza della Corte Costituzionale non sono 150 euro lordi di aumento al mese.

Quel che spetta agli statali, sentenza alla mano è 20/40 euro lori al mese a seconda del grado e qualifica del lavoratore.

La sentenza non impone il recupero del passato, anzi di fatto fissa da quando si ricomincia ad avere contratti non bloccati. E quel quando è il 30 luglio 2015. Quindi agli statali spetta il recupero dei soldi perduti da quella data, dal 30 luglio 2015.

Il recupero da quella data fa 1,2 miliardi di euro e significa appunto 20/40 euro al mese di aumento per dipendente pubblico. Fin qui quel che loro spetta da sentenza, liberissimi di chiedere di più. Ma non in nome di una sentenza che esclude il recupero integrale del blocco contrattuale. Quanto poi alla richiesta del recupero integrale di quanto perso nei sette anni e passa della crisi economica, una domanda impertinente ma assolutamente pertinente. I sindacati, non solo degli statali, quasi sempre si ingegnano a calcolare l’ammontare degli aumenti non avuti se fosse andata come prima della crisi. Fanno al cifra e la dichiarano “soldi persi dai lavoratori”.

Nel calendario della P.A. prima dei contratti viene però la riforma della dirigenza, con la creazione del ruolo unico, la determinazione della durata degli incarichi (quattro anni), l'accesso per concorso con esame di conferma dopo tre anni (altrimenti si retrocede). In linea di principio le novità trovano il favore dei sindacati, che però lanciano l'allarme su eventuali discriminazioni. «In una riforma che già non comprende tutta la dirigenza della Repubblica, perché esclude prefetti e diplomatici, professori universitari e presidi, vogliamo creare ulteriori divisioni?», si chiede Barbara Casagrande, segretario generale di Unadis e Confedir.


mercoledì 20 luglio 2016

Pensione di reversibilità: addio norma ‘anti-badanti’



Chi decide di sposarsi anche dopo i settanta ha tutto il diritto di farlo senza che venga sospettato di voler frodare l’erario. Nemmeno se il coniuge è di molto più giovane . Non è possibile tagliare la pensione di reversibilità se tra i coniugi ci sono più di 20 anni di differenza d'età. La Corte costituzionale, con la sentenza 174/2016, ha bocciato la norma “contro le (giovani) badanti” introdotta dal 2012.La norma  è stata introdotta a fronte del fatto che un numero crescente di pensionati (soprattutto uomini) si sposano con donne molto più giovani. Ed era stata introdotta per scoraggiare i cosiddetti matrimoni di convenienza, ossia i rapporti di breve durata in cui la differenza di età tra marito e moglie è elevata al punto da insospettire su eventuali interessi economici alle nozze. Più nello specifico, matrimoni contratti dopo i 70 anni e con una persona di almeno venti anni più giovane. Spesso si tratta della stessa ‘badante’ dell’anziano in questione, ma non sono gli unici casi.

Non ci può essere nessuna discriminazione basata sull'età nel diritto alla pensione di reversibilità. Il provvedimento legislativo, varato cinque anni fa, prevedeva un taglio all'ammontare della pensione di reversibilità quando il coniuge scomparso aveva contratto matrimonio a un’età superiore ai settant’anni e il coniuge superstite era più giovane di almeno vent’anni. Una norma pensata per evitare truffe ai pensionati anziani e matrimoni di convenienza a favore delle badanti.

La Corte ha ribadito che ogni limitazione del diritto alla pensione di reversibilità deve rispettare i principi di eguaglianza e di ragionevolezza e il principio di solidarietà, che è alla base del trattamento previdenziale in esame, e non deve interferire con le scelte di vita dei singoli, espressione di libertà fondamentali. In particolare, la sentenza ritiene inaccettabili le limitazioni basate su un dato meramente naturalistico quale l’età per incidere su un istituto - la pensione di reversibilità - fondato sul vincolo di solidarietà che si stabilisce nella famiglia.

Con effetto sulle pensioni liquidate dal 2012, era dunque stata introdotta la regola per cui, a fronte di un matrimonio tra una persona ultrasettantenne e un’altra che sia più giovane di oltre vent’anni, l’importo della pensione di reversibilità derivante dalla morte del più anziano viene ridotto del 10% per ogni anno di matrimonio inferiore a 10. Ciò significa che se il matrimonio è durato almeno 10 anni, la pensione di reversibilità viene corrisposta interamente, altrimenti diventa il 90, l’80, il 70% e così via per ogni anno mancante ai dieci, fino ad azzerarsi.

La Corte ha ritenuto incostituzionale una simile penalizzazione basata solo sulla differenza di età dei coniugi.

Nel caso di decesso di un pensionato, al coniuge superstite spetta l’assegno di reversibilità nella misura del 60%. Tuttavia, per evitare che giovani donne senza scrupoli sposassero uomini anziani all'imbocco del viale del tramonto solo per carpirne la pensione di reversibilità, nel 2012 era stata approvata una norma [2] in base alla quale, sussistendo tre condizioni “sospette”, la reversibilità sarebbe scesa dal 60% al 10%; dette condizioni erano:

il titolare della pensione doveva avere almeno 70 anni di età;

tra il titolare della pensione e il coniuge superstite dovevano esservi almeno 20 anni di differenza;

il matrimonio doveva essere durato meno di 10 anni.


domenica 17 luglio 2016

Illegittimi i contratti a termine nella scuola


Illegittimità costituzionale delle supplenze ripetute per il personale della scuola. In mancanza di assunzione previsto il risarcimento. La Corte Costituzionale quindi si allinea a quanto statuito nella sentenza Mascolo,  dal nome della prima ricorrente. Quella pronuncia bacchettava l'Italia per l'assenza di limiti nella successione dei contratti a tempo utilizzati per coprire una "mancanza strutturale di personale di ruolo", chiedeva di garantire i concorsi, affermava che l'accordo quadro per evitare i contratti a ripetizione vale anche per la scuola.

La Corte Costituzionale, con comunicato 12 luglio 2016, ha reso noto di aver stabilito l'illegittimità costituzionale della normativa che disciplina le supplenze del personale docente e del personale amministrativo, tecnico e ausiliario (art. 4, commi 1 e 11 della legge 3 maggio 1999, n. 124) nella parte in cui autorizza, in violazione della normativa comunitaria, il rinnovo potenzialmente illimitato di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonché di personale amministrativo, tecnico ed ausiliario, senza che ragioni obiettive lo giustifichino.

Tuttavia la pronuncia di illegittimità costituzionale é stata limitata poiché l'illecito comunitario è stato cancellato, come da decisione della Corte di giustizia dell'Unione europea che ha interpretato la normativa comunitaria in materia di contratti a tempo determinato.

Difatti, per quanto riguarda il personale docente la normativa sulla "buona scuola" prevede la misura riparatoria del piano straordinario di assunzioni, mentre per quanto riguarda il personale amministrativo, tecnico ed ausiliario prevede, in mancanza di analoga procedura di assunzione, il risarcimento del danno.

I contratti di supplenza nella scuola non possono essere riprodotti all'infinito e quello che è ha sancito la Corte che mette un punto a una vicenda che si trascina dal 2012. I giudici hanno riconosciuto, tuttavia, che la Legge 107, la cosiddetta "Buona scuola", ha già consentito di superare i problemi in materia. Sul fronte docenti, infatti, "La buona scuola" ha offerto contratti stabili a diversi supplenti. Il principio -già sancito dalla Corte europea- resiste: limitare le assunzioni a tempo determinato nell'istruzione, soprattutto non andare oltre i 36 mesi. Ma, afferma la Consulta, il piano straordinario di assunzioni della "107" è intervenuto in tempo per sanare in parte le anomalie italiane. Ha aggiunto: per quanto riguarda il personale docente la normativa sulla "Buona scuola" prevede "la misura riparatoria del piano straordinario di assunzioni, mentre per quanto riguarda il personale amministrativo, tecnico e ausiliario prevede, in mancanza di analoga procedura di assunzione, il risarcimento del danno". Sì. Il comma 131 della legge 107 stabilisce, infatti, che dal primo settembre 2016 i contratti di lavoro a tempo determinato stipulati con il personale docente e Ata per la copertura di posti vacanti e disponibili non possono superare la durata complessiva di 36 mesi.

All'origine della questione ci sono sei ordinanze giunte alla Corte dai Tribunali di Trento, Vibo Valenzia e Roma. In discussione norme nazionali, provinciali, ma anche l'accordo sul lavoro a tempo determinato legato alla direttiva europea del 1999. Chiedevano i tribunali alla Consulta: sono legittimi i reiterati contratti a termine per le supplenze in attesa di bandire concorsi? E ancora, la disciplina per reclutare i docenti a tempo determinato è in contrasto con le regole europee? Era stata la stessa Consulta nel luglio 2013 a sottoporre in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia europea alcune questioni interpretative. Una richiesta simile fu rivolta dal Tribunale di Napoli.


sabato 27 giugno 2015

INPS: iniziano i rimborsi per la pensione da agosto 2015



796 euro questo è l’ammontare del rimborso che arriverà nelle tasche dei pensionati con un assegno da 1500 euro. E' l'effetto della sentenza della Corte Costituzionale che dichiarava illegittimo il blocco della perequazione deciso dal Salva Italia.

L’INPS ha comunicato le modalità di rimborso degli arretrati delle pensioni che saranno erogati a partire da agosto 2015. Nella circolare INPS n. 125 sono state pubblicate le modalità di pagamento dei rimborsi delle pensioni a seguito della sentenza, che aveva definito incostituzionale il blocco degli scatti di adeguamento all'inflazione deciso dal Governo Monti nel 2011. I rimborsi scattano automaticamente e diventano esecutivi dal 1 agosto con una prima tranche di 796 euro. Restano esclusi gli assegni superiori a 3mila euro.

I calcoli saranno effettuati dall'istituto di previdenza e l’importo arriverà automaticamente. Ma sarà tassato. Gli eredi invece devono fare domanda.

Le pensioni interessate al rimborso, sono quelle che vanno da 3 volte il minimo Inps (circa 1500 euro lordi mensili) fino a 6 volte il minimo (circa 3000 euro lordi mensili) secondo un meccanismo di gradualità. Il bonus,  arretrati saranno corrisposti il 1° agosto 2015 all'interno dei consueti assegni previdenziali che spettano al pensionato.

Il meccanismo di ricalcolo dell’assegno, per il 2012 e 2013 è riconosciuta una rivalutazione pari al 100% dell’inflazione per gli assegni fino a tre volte il minimo Inps; si scende al 40% per gli assegni fino a quattro volte, quindi ancora al 20% per gli assegni fino a cinque volte, per scendere al 10% per gli assegni fino a sei volte superiori al minimo. Oltre questa soglia non c’è alcuna rivalutazione e nessun rimborso. L’incremento per il primo biennio costituisce poi la base di calcolo per gli anni successivi, a partire dal 2014. Per il 2014 e il 2015 invece la rivalutazione sarà dunque riconosciuta a partire dalle pensioni superiori a 3 volte il minimo e fino a 6 volte, e sarà pari al 20% della percentuale assegnata per ogni fascia di reddito per gli anni 2012-2013. L’Istituto procederà, poi, spiega ancora la nota, in occasione del rinnovo delle pensioni per il 2016, a ricalcolare le pensioni a partire dal 2012, attribuendo le percentuali di perequazione sopra indicate ai coefficienti di perequazione, rispettivamente del 2,7 e del 3 per cento, relativi agli anni 2012 e 2013 e i criteri di perequazione stabiliti dalla legge n. 147 del 2013 per gli anni 2014, 2015 e 2016. E poi, dal 2017 entreranno in vigore ancora nuove norme.

Si tratta di una somma erogata una tantum per il periodo che va da gennaio 2012 ad agosto 2015, quindi non si tratta di una prima rata di rimborso che ne prevede delle successive, almeno per il momento. Per i pensionati con importi di pensione più alti i rimborsi vanno a scalare, per esempio 450 fino a 2.000 euro di pensione o 276 per importi ancora superiori. Per questi pensionati inoltre scatterà il meccanismo della perequazione, sarà quindi riallineata ai tassi di inflazione, che poi è esattamente quello che è stato bloccato dal decreto del Governo Monti. Quindi oltre al rimborso la pensione avrà una base di 1.525 euro già dal primo agosto per poi salire a 1.541 da gennaio 2016.

Per il pensionato da 1.500 euro di pensione, la tabella di calcolo ha previsto per il 2012 euro 210,60 di rimborso, 447,20 per il 2013, 89,96 per il 2014 e 48,51 per il 2015. Il calcolo è stato fatto in base alla rivalutazione per il riallineamento della pensione alla perequazione.

L’unico esempio fornito dalla circolare Inps. Le pensioni superiori a 3 volte il minimo e pari o inferiori a 4 volte il minimo (fino dunque a 1500 euro lordi) verranno complessivamente rivalutate, calcolando gli arretrati 2012, 2013, 2014 e 2015, di 796,27 euro. In particolare, saranno restituiti 210,60 euro per il 2012 e 447,20 per il 2013. Per il 2014 e 2015, invece, la restituzione sarà pari rispettivamente a 89,96 euro e 48,51 euro.

La base di calcolo della pensione 1500 diventa a partire dall'agosto di quest’anno di 1.525 euro mensili lordi,. E poi a partire dal gennaio del 2016 ammonterà a 1.541 euro, sempre mensili e sempre lordi.

Al rimborso hanno diritto anche coloro che nel frattempo sono deceduti? Sì, la sentenza della Consulta e il decreto del governo interessa anche i titolari del trattamento pensionistico che nel periodo interessato sono deceduti. Lo spiega (indirettamente) la circolare dell’Inps, quando afferma che «il calcolo delle differenze spettanti verrà effettuato anche per le pensioni che al momento della lavorazione risulteranno eliminate».

E dunque del bonus beneficeranno gli eredi?  Esattamente. Ma dovranno presentare una domanda all'Istituto previdenziale, che ovviamente per ora non ha predisposto alcun modulo, ma che certamente inserirà delle informazioni nel suo sito http://www.inps.gov.it/. E il pagamento delle spettanze agli aventi titolo (si presume tutti gli eredi presenti nell'asse ereditario, la circolare non lo chiarisce) sarà effettuato a domanda «nei limiti della prescrizione».

Almeno il bonus che arriva il prima agosto sarà «netto», ed esente da tasse?  No, ci si dovranno pagare le tasse. Il decreto e la circolare chiariscono che il bonus di rimborso sarà sottoposto al regime della tassazione separata (al 23%) per quanto riguarda tutti gli arretrati fino al 2014; per le somme maturate dal 2015 invece ci si applicheranno le aliquote fiscali della tassazione ordinaria.

Esaminando e in ultima analisi si sintetizza quanto segue. I rimborsi sulle pensioni superiori a tre volte il minimo saranno tra il 10% e il 40% di quanto perso per gli anni 2012-2013 e pari ad appena il 20% di quanto erogato per gli anni precedenti per il 2014. Per le pensioni tra le tre e le quattro volte il minimo (circa tra 1.500 e 2.000 euro) la rivalutazione per il 2012-13 sarà del 40% dell'inflazione (2,7% per il 2012, 3% per il 2013); per le pensioni tra quattro e cinque volte il minimo (tra 2.000 e 2.500 euro lordi al mese) sarà del 20 dell'inflazione%; per le pensioni tra i 2.500 e i 3.000 euro la rivalutazione sarà solo pari al 10% di quanto perso. Le pensioni di importo superiore a sei volte il minimo non avranno nessun rimborso.

Non è necessaria la domanda. La ricostituzione dei trattamenti avviene ''d'ufficio'', non è necessaria la domanda. Diversa la procedura nel caso degli eredi: per le pensioni, si legge nella circolare, che “al momento della lavorazione risulteranno eliminate, il pagamento delle spettanze agli aventi titolo sarà effettuato a domanda nei limiti della prescrizione".



domenica 31 maggio 2015

Pensioni, decreto ingiuntivo: l’Inps ripaghi l’indicizzazione



I giudici hanno accolto il ricorso di un pensionato partenopeo presentato prima il governo annunciasse il decreto sui rimborsi delle pensioni.

Le sentenze della Corte Costituzionale «producono la cessazione di efficacia della norma stessa dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione» e gli organi politici possono adottare, «ove lo ritengano», «i provvedimenti del caso nelle forme costituzionali».

Un'ingiunzione di pagamento di 3.074 euro a titolo di arretrati dopo la bocciatura del blocco delle indicizzazioni delle pensioni da parte della Corte Costituzionale. Lo ha stabilito in un decreto ingiuntivo del 29 maggio dal Tribunale di Napoli, sezione Lavoro, che ha accolto il ricorso di un pensionato partenopeo presentato prima il governo annunciasse il decreto sui rimborsi delle pensioni. Lo ha riferito l'avvocato Vincenzo Ferrò, che ha assistito il pensionato.

I cittadini che ritengano di vedere leso un proprio diritto hanno pieno titolo fare ricorso, «ma i ricorsi dovranno tenere conto del decreto del governo», ha ricordato il ministero del Lavoro, ribadendo quanto già affermato dal ministro Giuliano Poletti sulla possibilità di ricorrere contro i rimborsi parziali previsti dopo la sentenza della Consulta sulle pensioni. «Dal punto di vista della legittimità - aveva sottolineato il ministro del Lavoro - noi siamo convintissimi di aver pienamente ottemperato a quanto la Corte ha in qualche modo sottolineato come limiti della normativa precedente per cui ha scelto di cassare quella parte della norma».

Con il decreto del 13 maggio il governo ha previsto che dal primo agosto i pensionati ricevano un rimborso che varierà a seconda della pensione percepita. Per il 2012-13 il provvedimento riconosce la rivalutazione del 40%” per gli assegni tra 3 e 4 volte il minimo, del 20% per quelli tra 4 e 5 volte il minimo e del 10% per quelli tra 5 e 6 volte il minimo. Per il 2014-15 sarà rimborsato il 20% di quanto previsto per il biennio precedente. Diversa l'opinione dell'avvocato Vincenzo Ferrò, che ha assistito il pensionato napoletano che, il 29 maggio, si è visto accogliere il ricorso. “Si tratta del primo decreto ingiuntivo di questo tipo.

Abbiamo sempre nutrito la massima fiducia nella Magistratura ed il nostro non facile lavoro è stato ripagato. Questo è solo il primo di una serie di ricorsi volti ad ottenere il riconoscimento del diritto alla rivalutazione delle pensioni”, ha spiegato all'Ansa Ferrò. Il suo assistito percepisce una pensione di circa 2mila euro lordi e rientra, perciò, nella fascia di pensionati alla quale arriverà, ad agosto, il bonus di massimo 750 euro.

Dello stesso avviso il Codacons che ritiene che il provvedimento del governo non valga per il pregresso e secondo il quale si apre la strada a “migliaia di ricorsi analoghi” L'Inps, si legge intanto nell'ingiunzione del tribunale di Napoli, ha ora 40 giorni per opporsi davanti al giudice: un'opposizione che, una volta entrato in vigore, potrà probabilmente basarsi anche sul decreto del governo.

Ricordiamo che la sentenza della Corte Costituzionale che ha 'bocciato' il blocco degli adeguamenti pensionistici.

La soluzione è complessa. Le possibili ripercussioni sui conti pubblici sono enormi. L'applicazione della sentenza sul totale dei pensionati interessati è stato quantificato dai tecnici del Mef in oltre 17 miliardi lordi. Il Governo sta lavorando a «misure che minimizzino l'impatto sui conti pubblici, nel pieno rispetto della Corte».

Intanto il sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti dopo aver definito apertamente «impossibile» la restituzione a tutti i pensionati degli adeguamenti all'inflazione bloccati, è tornato sul tema, proponendo «una soglia di 5 mila euro che potrebbe rappresentare una misura giusta» oltre la quale non scatterebbe il rimborso, perché «non è giusto pensare di rimborsare tutte le pensioni, anche quelle più alte».

Il segretario generale dello Spi-Cgil, Carla Cantone, ha sostenuto che la sentenza deve essere applicata immediatamente». Ma ha aggiunto: «Siamo disponibili a ragionare con il governo sulle modalità e sulle tempistiche della restituzione degli arretrati».



martedì 19 maggio 2015

Bonus pensioni, chi lo incasserà e cosa c’è da conoscere



Il 1° agosto 2015 3,7 milioni di pensionati riceveranno un bonus una tantum a titolo di rimborso per il blocco della rivalutazione decisa dal governo Monti nel 2012.

Un rimborso quasi integrale per le più basse fra le pensioni coinvolte dal blocco-Monti appena bocciato dalla Consulta, e decrescente, in modo piuttosto rapido, man mano che l’assegno cresce, in base a una progressione che azzera l’arretrato quando il lordo mensile arriva a 3.200 euro al mese.

«Se tu prendi 1700 euro lordi di pensione, l'1 agosto il bonus Poletti darà 750 euro, se 2200 euro sarà di 450 euro, se 2700 sarà di 278 euro. Chi percepisce oltre 3.200 euro lordi non avrà alcun beneficio. È un una tantum».

Il meccanismo pensato dal Governo prova a modulare gli obblighi di rimborso sollevati dalla sentenza n. 70 del 2015 della Corte costituzionale unendo i principi di progressività con le esigenze del bilancio pubblico. I primi producono l’alleggerimento del rimborso che accompagna la crescita del reddito da pensione, i secondi spiegano il ritmo veloce della discesa.

Con una pensione da 1.700 euro lordi (poco più di 1.300 netti, con qualche oscillazione in base alle addizionali locali) l’assegno governativo in programma per il 1° agosto vale 750 euro. In quanto arretrati, gli importi dovrebbero essere soggetti a tassazione separata in base all’aliquota media degli ultimi anni, ma le cifre indicate dal Governo dovrebbero essere al netto della tassazione.

Il confronto va quindi effettuato con il beneficio netto che lo stesso pensionato avrebbe ottenuto se avesse ricevuto la rivalutazione piena, pagandoci ovviamente le tasse in base alla propria aliquota marginale dal momento che l’indicizzazione alimenta ovviamente la fetta più alta del reddito. In base alle vecchie regole, il titolare della pensione da 1.700 euro lordi al mese avrebbe dovuto ottenere 1.051 euro netti (1.480 lordi, calcolando anche le addizionali), quindi l’indennizzo sarebbe del 71,4 per cento. Se l’assegno è invece da 2.200 euro, i 450 euro di “bonus” previsti dal nuovo provvedimento rappresentano il 35,2% dei 1.278 euro che sarebbero stati dati con la rivalutazione integrale, e per una pensione da 2.700 euro il rapporto si ferma al 25 per cento. Il dato si assottiglia ancora al crescere della pensione, fino ad azzerarsi a quota 3.200 euro lordi (circa 2.200 netti). È il caso di ricordare che il «salva-Italia» aveva bloccato ogni aggiornamento per le pensioni superiori a 1.443 euro lordi.

La prima cosa da conoscere è che il provvedimento del governo è una grandissima delusione per chi sperava di recuperare i soldi tagliati dagli assegni pensionistici dal decreto Monti del 2011 grazie alla sentenza della Corte Costituzionale. Un pensionato con 1750 euro lordi di pensione mensile – i conti li ha fatti - l’Ufficio Parlamentare di Bilancio - avrebbe avuto diritto a 4.230 euro di rimborsi, per il quadriennio 2012-2015: ne avrà soltanto 750.

La seconda cosa è che si dovrà arrabbiare di più – moltissimo di più - un pensionato “ricco”, ovvero chi ha un assegno mensile di 3200 euro lordi: invece dei quasi 10.000 euro che avrebbe dovuto percepire, tagliati dal decreto Monti, non riceverà nemmeno un centesimo.

C’è qualcosa da fare, bisogna compilare un modulo per avere il “bonus”? No: arriveranno automaticamente nell’assegno pensionistico pagato il 1 agosto dall’ente previdenziale.

Come verranno distribuiti i soldi? Saranno variabili a seconda dell’importo dell’assegno mensile percepito: 750 euro a chi riceve un assegno da 1700 euro lordi, 450 per chi percepisce 2300 euro, 278 a chi prende 2700 euro, zero spaccato a chi percepisce oltre 3.200 euro mensili lordi.

E successivamente, come funzionerà il nuovo sistema di indicizzazione delle pensioni rispetto al costo della vita? Ci sarà in legge di stabilità il varo di un nuovo sistema, che entrerà in vigore dal 2016.

Dopo questo bonus arriveranno altri soldi per i rimborsi? Assolutamente no. Finisce tutto con l’erogazione di agosto.

Quanti soldi avrebbe dovuto dare il governo per assicurare un rimborso totale? 18 miliardi di euro, compresi i trascinamenti per il 2015. Ma ne restituirà soltanto 2,1 miliardi.

Possibile che se la possa cavare con un rimborso così basso? Possibile, sulla base di una certa lettura della sentenza della Corte Costituzionale. Il decreto dà una risposta molto parziale. Ci saranno nuovi ricorsi alla Consulta? Certamente sì, già sono stati annunciati dagli stessi presentatori del primo ricorso accolto prima dal magistrato e poi dalla Corte Costituzionale.

Restano esclusi da ogni restituzione 650mila pensionati, quelli che hanno un assegno superiore a 3.200 euro lordi. Restituire tutto a tutti - ovvero procedere alla totale integrazione degli assegni pensionistici superiori a tre volte il minimo (1.486 lordi al mese nel 2011, quelli a cui si è applicato il blocco delle indicizzazioni dal 2012) - sarebbe costato quasi 18 miliardi di euro.



giovedì 30 aprile 2015

Pensioni, bocciato il blocco della rivalutazione, la Consulta boccia la Fornero




Buco da cinque miliardi, guaio per l’Inps. Lo stop alla rivalutazione delle pensioni è incostituzionale. La norma che, per il 2012 e 2013, ha stabilito, «in considerazione della contingente situazione finanziaria», che sui trattamenti pensionistici di importo superiore a tre volte il minimo Inps (circa 1.500 euro lordi) scattasse il blocco della perequazione, ossia il meccanismo che adegua le pensione al costo della vita, è incostituzionale. Lo ha deciso la Consulta, bocciando l'art. 24 del decreto legge 201/2011 in materia di perequazione delle pensioni, ossia la cosiddetta norma Fornero contenuta nel ''Salva Italia'' varato dal governo Monti.

In pratica, con quelle disposizioni, ribattezzate “legge Fornero” e subito contestate venivano bloccati gli aumenti di tutti i trattamenti più ricchi, quelli che superavano di tre volte il minimo Inps. Per la Corte Costituzionale, nonostante quel blocco fosse motivato dalla «contingente situazione finanziaria», ovvero dalla crisi che finanziaria che stava aggredendo il nostro Paese, è incostituzionale. Secondo i supremi giudici, infatti, «l’interesse dei pensionati, in particolar modo i titolari di trattamenti previdenziali modesti, è teso alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo consequenziale il diritto a una prestazione previdenziale adeguata. Tale diritto, costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio».

Il blocco dell'indicizzazione delle pensioni bocciato dalla Consulta ha toccato una platea di circa 6 milioni di persone, ovvero quante sono quelle con un reddito da pensione superiore a 1.500 euro mensili lordi, secondo gli ultimi dati dell'Istat sulla previdenza. Si tratta di oltre il 36% del totale degli oltre 16,3 milioni di pensionati italiani.

Il blocco della perequazione per le «non fu scelta mia», si è subito difesa l'ex ministro del Lavoro, Elsa Fornero ricordando che fu una decisione «di tutto il Governo» presa per fare risparmi in tempi brevi. «Vengo rimproverata per molte cose - ha aggiunto Fornero - ma quella non fu una scelta mia, fu la cosa che mi costò di più». Il 4 dicembre 2011 Fornero, all’epoca ministro del Welfare, non riuscì a trattenere le lacrime mentre in diretta tv insieme alla squadra del governo Monti, illustrava nel dettaglio agli italiani quali e quanti sacrifici li attendono con la manovra appena varata per far uscire il Paese dalla crisi. E fu la parola “sacrificio” a rimanerle bloccata in gola, impedendole di proseguire la frase che stava pronunciando sul blocco delle pensioni.

Secondo la Consulta, le motivazioni indicate alla base del decreto sono blande e generiche, mentre l'esito che si produce per i pensionati è pesante. «Deve rammentarsi - spiega la sentenza - che, per le modalità con cui opera il meccanismo della perequazione, ogni eventuale perdita del potere di acquisto del trattamento, anche se limitata a periodi brevi, è, per sua natura, definitiva. Le successive rivalutazioni saranno, infatti, calcolate non sul valore reale originario, bensì sull'ultimo importo nominale, che dal mancato adeguamento è già stato intaccato».

Manageritalia e Federmanager, le organizzazioni che hanno presentato ricorso alla Consulta ora, ovviamente, battono cassa. «Si è fatta giustizia, una sentenza che attendevamo – ha commentato Giorgio Ambrogioni, presidente Federmanager. Secondo cui i giudici hanno «tenuto conto di quello che la stessa Corte aveva affermato in particolare nell'ultima sentenza del 2010 nella quale aveva rivolto un monito al legislatore a non reiterare simili interventi iniquamente redistribuivi. Con i quattro blocchi precedenti attuati dal 1998 le nostre pensioni hanno subito complessivamente perdite definitive del potere di acquisto superiori al 20%. Siamo stati costretti - prosegue Ambrogioni - a rivolgerci alla magistratura perché il legislatore si è dimostrato sordo rispetto alle nostre legittime e sacrosante richieste». «Ora si proceda presto con i rimborsi» sostiene il presidente di Manageritalia, Guido Carella che assieme ad Ambrogioni si aspetta «che si arrivi in tempi rapidi a trovare il modo per compensare le migliaia di persone danneggiate dal provvedimento e auspichiamo che da oggi in poi l’abitudine di utilizzare le pensioni per fare cassa venga definitivamente accantonata, smettendo così di far vivere nell'incertezza i pensionati».



domenica 28 luglio 2013

La sentenza della Corte Costituzionale: «L’articolo 19 lede la libertà sindacale»

Secondo Corte Costituzionale la norma viola i principi costituzionali Fiat: «Abbiamo soltanto applicato la legge».

Consentire la costituzione delle Rsa, le rappresentanze sindacali aziendali, solo ai sindacati firmatari del contratto applicato in azienda lede i "valori del pluralismo e della libertà di azione" dei sindacati. E' con questa motivazione che la Corte Costituzionale ha 'bocciato' l'articolo 19 dello statuto dei lavoratori, con una sentenza - la 231/2013, relatore il giudice Morelli - che segna una vittoria netta della Fiom sulla Fiat. Immediate e pesanti le reazioni.

Così la Consulta nella sentenza sul giudizio di illegittimità dell’art. 19 comma 1 dello Statuto. La sentenza, i cui contenuti essenziali erano stati resi noti il 3 luglio, è stata depositata oggi. Alla base il ricorso della Fiom contro la Fiat. Redattore della sentenza - la 231/2013 - il giudice Mario Rosario Morelli. Il comma 1 dell’art. 19 dello statuto dei lavoratori è stato dichiarato illegittimo perché appunto se si consentisse la rappresentanza sindacale aziendale (Rsa) solo ai sindacati firmatari del contratto applicato nell’unità produttiva, i sindacati «sarebbero privilegiati o discriminati sulla base non già del rapporto con i lavoratori, che rimanda al dato oggettivo (e valoriale) della loro rappresentatività e, quindi, giustifica la stessa partecipazione alla trattativa, bensì del rapporto con l’azienda, per il rilievo condizionante attribuito al dato contingente di avere prestato il proprio consenso alla conclusione di un contratto con la stessa», spiega la sentenza.

E se «il modello disegnato dall’art. 19, che prevede la stipulazione del contratto collettivo quale unica premessa per il conseguimento dei diritti sindacali, condiziona il beneficio esclusivamente ad un atteggiamento consonante con l’impresa, o quanto meno presupponente il suo assenso alla fruizione della partecipazione sindacale, risulta evidente anche il vulnus all’art. 39, primo e quarto comma, della Costituzione, per il contrasto che, sul piano negoziale, ne deriva ai valori del pluralismo e della libertà di azione della organizzazione sindacale». Questo si traduce «in una forma impropria di sanzione del dissenso, che innegabilmente incide, condizionandola, sulla libertà del sindacato in ordine alla scelta delle forme di tutela ritenute più appropriate per i suoi rappresentati; mentre, per l’altro verso, sconta il rischio di raggiungere un punto di equilibrio attraverso un illegittimo accordo ad excludendum».

«Ora la Fiat applichi la sentenza della Corte costituzionale. Si ripristinino in tutti gli stabilimenti del Gruppo i diritti, le libertà sindacali e le pari agibilità per tutte le organizzazioni». A chiederlo è Maurizio Landini, segretario della Fiom che chiede un incontro con l'azienda e lancia un appello al governo: «Convochi un tavolo nazionale sulle prospettive occupazionali e gli investimenti del gruppo Fiat in Italia e si faccia garante della piena applicazione della sentenza anche attraverso una legge sulla rappresentanza».

Il succo della decisione della Consulta era già stato reso noto il 3 luglio. Ora vengono spiegati i motivi della decisione. Alla base del pronunciamento, la questione di legittimità sollevata dai tribunali di Modena, Vercelli e Torino nelle cause che vedono contrapposte appunto Fiat e Fiom. I dubbi riguardano il comma 1 dell'art. 19 dello statuto dei lavoratori, che pone dei paletti alle Rsa, consentendole solo alle sigle firmatarie dei contratti collettivi applicati in azienda. Un limite che la Consulta ha giudicato in contrasto con tre articoli della Carta Costituzionale. Perché quando il criterio della sottoscrizione dell'accordo applicato in azienda - spiega la sentenza - "viene meno alla sua funzione di selezione dei soggetti in ragione della loro rappresentatività" e "si trasforma invece in meccanismo di esclusione di un soggetto maggiormente rappresentativo o comunque significativamente rappresentativo", allora quel criterio entra "inevitabilmente in collisione con i precetti degli articoli 2, 3 e 39 della Costituzione": il primo tutela i diritti inviolabili dell'uomo come singolo e nelle formazioni sociali; il secondo l'uguaglianza dei cittadini; l'ultimo la libertà di organizzazione sindacale.

Se si consentissero la Rsa solo nei limiti fissati dallo statuto ora censurato, spiegano i giudici, i sindacati "sarebbero privilegiati o discriminati sulla base non già del rapporto con i lavoratori", "bensì del rapporto con l'azienda". Il "dato contingente di avere prestato il proprio consenso alla conclusione di un contratto con la stessa" finirebbe quindi col pesare sulle relazioni sindacali e sulla capacità di rappresentanza delle organizzazioni dei lavoratori.

sabato 19 gennaio 2013

Ilva: l'azienda deve assicurare il pagamento delle retribuzioni


Il Governo punta a un provvedimento che permetta di sbloccare la situazione che si è venuta a creare nello stabilimento Ilva di Taranto. Forse nei prossimi giorni verrà presentato un decreto ad hoc. Questo la prospettiva annunciata dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, Antonio Catricalà, al tavolo tra Governo e parti sociali a Palazzo Chigi.


Alla fine del vertice è stata diffusa un documento congiunto di tutte le parti presenti al tavolo di Palazzo. Governo, enti locali, azienda, Confindustria e sindacati ritengono che in attesa della Consulta - si legge - debba applicarsi "integralmente e immediatamente la legge da parte di tutti i soggetti interessati" per innescare il "circolo virtuoso risanamento ambientale/tutela della salute/tutela dell'occupazione".

L'Ilva "conferma il proprio impegno al rispetto delle prescrizioni dell'Aia e alla tutela dell'occupazione, sotto la vigilanza del Garante nominato dal Consiglio dei Ministri l'11 gennaio 2013, assicurando il regolare pagamento delle retribuzioni a tutti i lavoratori", si legge nella dichiarazione unitaria diffusa al termine della riunione a Palazzo Chigi. La legge 'salva Ilva – ha asserito il premier Mario Monti - "pur in pendenza del giudizio della Corte Costituzionale, deve essere applicata dalle istituzioni e dall'azienda" che conferma il proprio impegno al rispetto delle prescrizioni Aia e alla tutela dell'occupazione", "assicurando il regolare pagamento delle retribuzioni a tutti i lavoratori".Così il presidente del Consiglio al termine del vertice di Palazzo Chigi.

Per Confindustria, il direttore generale Marcella Panucci ha sottolineato come il blocco dell'Ilva «comporta conseguenze devastanti per l'intera industria italiana e danni irreversibili al comparto siderurgico e al suo indotto», chiedendo al Governo «di intervenire con forza». La legge salva-Ilva deve essere applicata da tutte le parti "integralmente e immediatamente pur in pendenza del giudizio della Corte Costituzionale e l'azienda pagherà le retribuzioni". Queste le conclusioni del vertice d'urgenza a Palazzo Chigi. Possibile un provvedimento nel Cdm di martedì prossimo. Il governo intervenga con forza, chiede Confindustria

"La piena applicazione della legge prevede che l'azienda rientri nella disponibilità dei prodotti finiti per la loro commercializzazione. Questo è quello previsto dalla legge e questo è ciò che noi abbiamo ribadito", ha detto il ministro dell'Ambiente, Corrado Clini, al termine della riunione.
In gioco non solo il futuro della Ilva ma anche la affidabilità dell'Italia per chi vuole investire nel nostro Paese». Lo ha affermato il ministro dell'Ambiente Corrado Clini che ricorda come «l'Autorizzazione Integrata Ambientale rilasciata alla Ilva di Taranto, e recepita da una legge votata dalla stragrande maggioranza del Parlamento italiano, attua in modo completo e rigoroso le direttive europee e le leggi nazionali in materia di esercizio degli impianti industriali nel rispetto della salute e della ambiente». Intanto il ministro dell'Ambiente sferra l'attacco contro il sequestro degli impianti: «Nel caso di Taranto - ha detto Clini - ci troviamo di fronte alla situazione inedita della contestazione da parte della magistratura delle leggi e delle direttive».

Il provvedimento varato dal Governo e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 4 gennaio "è la chiave per risanare la città di Taranto, la fabbrica e per garantire il lavoro a 20mila persone", ha detto il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, al termine del tavolo sull'Ilva. "Ciò che abbiamo detto è che con tutto il rispetto del procedimento della Corte Costituzionale la prassi normale del nostro Paese è che le leggi rimangono in vigore in attesa di quel giudizio. Quindi anche a Taranto si deve procedere all'applicazione della legge".

Il fermo dello stabilimento Ilva di Taranto sta avendo pesanti ripercussioni anche sui conti dell'azienda: il blocco dei flussi finanziari in entrata sta mettendo in crisi di liquidità l'azienda, come illustrato in un'analisi del bilancio dell'Ilva.
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