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domenica 26 maggio 2013

Ministro del lavoro Enrico Giovannini e il capitolo pensioni


Per le pensioni c’è l’ipotesi uscite flessibili per risolvere il duro nodo sugli esodati.
Infatti, con le penalizzazioni il governo Letta punta a svuotare la platea dei senza tutele. Ma c’è il nodo del livello dei disincentivi: il 2% l’anno potrebbe non bastare.

Un modello di pensionamento flessibile ancora da definire nei suoi contorni esatti, ma che in prospettiva potrebbe anche disinnescare la mina degli esodati, i lavoratori da salvaguardare rispetto alle conseguenze della riforma Fornero. Al ministero del lavoro i dossier aperti sono tanti, da quello relativo agli sgravi per l’assunzione di giovani agli aggiustamenti alle norme sul mercato del lavoro.

Sul fronte della previdenza si sta lavorando soprattutto a due progetti: da una parte la cosiddetta staffetta
generazionale tra giovani e anziani, dall’altra il possibile abbassamento, con penalizzazione, dell’età minima di uscita. Progetti entrambi non semplici e potenzialmente costosi per il bilancio dello Stato; ma in grado di ammorbidire le conseguenze delle regole pensionistiche introdotte a fine 2011 sull’onda dell’emergenza finanziaria.

La legge Fornero-Monti sulle pensioni ha di fatto spostato in avanti la data dell’uscita del lavoro, anche di molti anni, creando come effetto parallelo una considerevole porzione di lavoratori che si ritrovano o si ritroveranno senza stipendio ma anche senza pensione: perché l’azienda li ha messi fuori, o loro stessi si sono dimessi, in previsione di un’andata a riposo che poi si è rivelata un traguardo lontano o lontanissimo. Finora per tutelare queste persone si è scelta la strada dell’eccezione rispetto ai vincoli stringenti della riforma: in più riprese 130 mila persone sono state ammesse a usufruire delle vecchie regole.

Si sta lavorando per estendere la platea, probabilmente non in modo particolarmente incisivo visto anche l’esiguità delle risorse a disposizione; ma il problema verrà affrontato anche da un altro lato proprio attraverso il pensionamento flessibile. 62 anni erano l’età richiesta per l’uscita, insieme a 35 di contributi, con le norme precedenti alla riforma Fornero: la famosa “quota 97” che sarebbe dovuta scattare nel 2013.

Quindi lasciare il lavoro con questi requisiti, seppur con una penalizzazione economica, la gran parte dei lavoratori coinvolti ritroverebbe il percorso segnato negli anni passati.

I tempi saranno forse un po’ più ravvicinati per il progetto della staffetta generazionale, ossia la possibilità per i lavoratori più anziani di svolgere a tempo parziale gli ultimi anni di lavoro, in cambio dell’assunzione di giovani. C’è però un problema di costi: anche escludendo specifici incentivi retributivi, il solo costo della contribuzione figurativa a carico dello Stato si aggira sugli 8 mila euro l’anno per ciascun interessato, nell’ipotesi di un reddito medio basso. Se i lavoratori coinvolti fossero centomila la spesa sarebbe di 800 milioni il primo anno, indirizzata poi a crescere negli anni successivi.

Vediamo le ipotesi della flessibilità in uscita. La riforma Dini (1995) prevedeva una flessibilità in uscita tra i 57 e i 65 anni, misurata su un sistema di penalizzazioni o premi per indurre al posticipo basata sui coefficienti di trasformazione del montante contributivo in pensioni. Visse per poco tempo quel sistema, messo a punto dal ministro del Lavoro, Tiziano Treu. In pochissimi lo utilizzarono davvero per scegliere il momento del pensionamento. Appena entrata in vigore la riforma che ci avrebbe proiettato nel sistema contributivo puro, arrivarono nuovi Governi con nuove soluzioni: Antonio Bassolino e Cesare Salvi con i decreti per le pensioni anticipate dei lavoratori impegnati in attività usuranti spostarono l'attenzione su platee particolari di beneficiari. E poi arrivò Roberto Maroni, che quasi accantonò la flessibilità e reintrodusse elementi retributivi con i nuovi requisiti per l'anzianità incrementati (il famoso scalone), successivamente mitigati ma non cancellati dalle "quote" di Cesare Damiano. Ci siamo affrontati con un susseguirsi di interventi, proseguito con le "finestre mobili" di Maurizio Sacconi e che si sarebbe concluso con la riforma Fornero dell'autunno 2011.

L'attuale sistema, che il Governo Letta intende correggere, prevede il superamento delle anzianità e il pensionamento di vecchiaia a 66 anni con 20 anni minimi di contributi. Il nuovo requisito viene innalzato gradualmente per le lavoratrici private ma entro il 2021 per tutti varrà il requisito dei 67 anni, raggiunto con l'aggancio del pensionamento effettivo alle aspettative di vita. La flessibilità in uscita c'è ma prevede delle penalizzazione: fino al 2014 gli uomini con 42 anni e tre mesi di versamenti (41 e tre mesi per le donne) possono andare in pensione anche prima del 62 anni, ma perdono l'1% della pensione per ogni anno di anticipo (entro un massimo di due anni) e del 2% per ogni anno ulteriore rispetto ai primi due. Per esempio se un lavoratore con 42 anni e 2 mesi decidesse quest'anno di andare in pensione a 58 anni perde il 6% della pensione.

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