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giovedì 15 gennaio 2015

Jobs Act e la tutela del licenziamento



Riguardo la comparazione della nuova procedura di licenziamento e delle sue tutele in rapporto all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, ci interessa esaminare pochi ma complessi articoli.

E’ bene precisare che la normativa è di difficile lettura e che, quindi, le deduzioni qui riportate potrebbero subire modifiche interpretative appena si formerà una nuova giurisprudenza in materia.

E’ importante sapere che la nuova tutela dal licenziamento non si applicherà a chi ha già un contratto di lavoro ma solo a chi verrà assunto successivamente all’entrata in vigore del decreto, tranne in un caso: i datori di lavoro che impegnano meno di 16 dipendenti possono far applicare la nuova tutela a tutti i propri dipendenti se, successivamente all’entrata in vigore del D.Lgs. in costruzione, assumeranno nuovi lavoratori fino a raggiungere il fatidico numero complessivo di 16 impiegati, secondo quanto previsto dai commi 8 e 9 dell’art. 18.

La dicitura: “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”, parrebbe che la nuova normativa predisponga delle tutele via via sempre più crescenti a favore dei lavoratori. Ma effettivamente non è così.

La tutela è peggiorativa rispetto a quella apprestata dall’art. 18 perciò potrebbe essere intitolata nuovamente a “tutele decrescenti”.

Comunque se si intende di premiare le aziende che assumono lavoratori fino a raggiungere la soglia dei 16 dipendenti, significa che licenziare sarà più facile rispetto al regime dell’art. 18.

Non solo. Chi impedirà al datore una volta raggiunta la soglia di 16 dipendenti e aver ottenuto l’applicazione della nuova procedura, di liberarsi dei lavoratori neoassunti?

La norma tace sul punto ma la risposta è ovvia.

La presenza di un doppio binario nella tutela dei lavoratori licenziati, profuma di incostituzionalità.

E’ vero che i lavoratori tutelati dall’art. 18 andranno scemando nel tempo, ma il doppio binario durerà per decenni a meno che il Governo non abbia in mente di procedere gradualmente, appena raggiunta la calma sociale, ed attraverso successivi decreti legislativi o decreti legge, di applicare la nuova tutela a sempre più settori lavorativi fino a ricomprenderli tutti.

Licenziamento discriminatorio. L’art. 18 dispone la nullità del licenziamento per discriminazione determinato per motivi di credo politico, di fede religiosa, per l’appartenenza ad un sindacato o ad un’associazione e per la partecipazione ad esse oltre che effettuato in concomitanza col matrimonio, durante la gravidanza e la maternità o la paternità oltre che per motivi illeciti del contratto. In questo caso il giudice annulla il licenziamento a prescindere dal numero di impiegati assunti (tanto è vero che viene tutelato anche il dirigente) e dispone la reintegrazione nel posto di lavoro oltre il pagamento di un’indennità (chiamata erroneamente e contraddittoriamente “risarcimento del danno”) pari all’ultima retribuzione di fatto percepita moltiplicata per il tempo che il lavoratore ha trascorso senza lavorare. Anche se è rimasto disoccupato per meno di 5 mesi, è comunque dovuta un’indennità lorda di 5 mensilità. Questa tutela definita “reale” si applica anche in caso di licenziamento intimato verbalmente. Decade tutta la tutela se il lavoratore non riprende servizio entro 30 giorni dall’invito rivoltogli dal datore ovvero decade dal diritto di reintegrazione se chiede il pagamento di un’indennità di rinuncia che è pari a 15 mensilità nette.

Anche il nuovo D.Lgs. tutelerà il licenziamento discriminatorio, come prima precisato, oltre agli altri casi di nullità di legge (quindi anche i casi di cui all’art. 1345) e seguirà perfettamente la procedura dell’art. 18. Anche se il D.Lgs. non prevede che tale tutela si applichi al dirigente, è probabile che la giurisprudenza provvederà ad integrare questa lacuna, sempre che risulti tale e che non sia invece voluta.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo, soggettivo e giusta causa

Dobbiamo premettere, la differenza tra i tre diversi istituti, che per giustificato motivo oggettivo si intende la ragione inerente l’attività produttiva dell’azienda, l’organizzazione del lavoro e il suo regolare funzionamento. Ciò riguarda i motivi legati all’esistenza e all’unità dell’azienda soprattutto in ragione della produzione (es. soppressione di un reparto o un ramo dell’azienda) e della crisi aziendale e alla sua strutturazione organizzativa (es. razionalizzazione dei sistemi o delle fasi produttive).

Il licenziamento per cause oggettive è attuato quando non è possibile riutilizzare il dipendente in altre mansioni Le motivazioni soggettive sono invece legate al comportamento del lavoratore è possono essere annoverate alle regole definite dal Codice disciplinare. La giusta causa è invece un motivo che determina la totale perdita di fiducia da parte del datore per comportamento ingiustificabile del lavoratore e che costringe il datore licenziamento in tronco o senza preavviso. Premesso ciò, bisogna evidenziare che l’art. 18 disciplina esclusivamente il licenziamento dettato da motivi soggettivi e da giusta causa ma non quello determinato da motivi oggettivi. Nelle situazioni regolate dall’art. 18, il giudice annulla il licenziamento e ordina la reintegrazione nel posto di lavoro quando è accertato che il fatto posto a ragione del licenziamento, che sia una crisi aziendale (oggettivo) o un’infrazione disciplinare (soggettivo) o una giusta causa (furto), è falso o inesistente o inconsistente, almeno nei contenuti descritti dalla parte datoriale ed anche quando non viene rispettato il principio di proporzionalità della sanzione (quando si punisce con il licenziamento un’infrazione che, invece, doveva essere punita con una sanzione conservativa del posto di lavoro come può essere per esempio la sospensione dal servizio). In aggiunta alla tutela reale è prevista quella obbligatoria sempre calcolata sulla retribuzione mensile moltiplicata per il tempo di disoccupazione ma non oltre le 12 mensilità.

Il datore deve anche pagare, a parte, i contributi previdenziali e assistenziali maturati nel periodo di disoccupazione.

Anche in questo caso il lavoratore può optare per il pagamento dell’indennità di rinuncia. Nel caso in cui il fatto posto a ragione del licenziamento (per giustificato motivo soggettivo o giusta causa) risulta accertato nei termini espressi dal datore ma che per altri motivi non sia possibile accertare il giustificato motivo o la giusta causa ovvero non ne ricorrono gli estremi nella loro puntuale definizione, il giudice dichiara comunque efficace il licenziamento e condanna il datore all’indennità in parola tra un minimo di 12 ad un massimo di 24 mensilità.

Se il licenziamento è invece dichiarato dal giudice inefficace perché il lavoratore ha chiesto nei termini le motivazioni del proprio licenziamento e il datore non lo ha reso per iscritto entro 7 giorni, il giudice deve comunque dichiarare risolto il rapporto di lavoro (e, quindi, il licenziamento) ma l’indennità del danno è commisurata tra un minimo di 6 ad un massimo di 12 mensilità a meno che il lavoratore non formuli in ricorso, vittoriosamente, anche un difetto di motivazione nel merito del licenziamento. In questo caso il petitum del ricorso porta l’oggetto del licenziamento alla prima tutela prevista dall’art. 18, quindi se il fatto addebitato è insussistente, oltre all’indennità pari al massimo a 12 mensilità, viene ordinata la reintegrazione, salva la rinuncia indennizzata richiesta dal lavoratore netro 30 giorni. Ma se il fatto risulta acclarato nonostante non ricorrano gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, il licenziamento verrà confermato e l’indennità maggiorata da 12 a 24 mensilità.

La nuova procedura di licenziamento prevede sempre la tutela dei soli casi di giustificato motivo soggettivo e giusta causa. Il giudice annulla il licenziamento solo se il fatto contestato ovvero posto a ragione del licenziamento risulterà, direttamente e senza dubbio, insussistente. La formula adottata non permette di interpretare la locuzione impiegata in maniera diversa dalla stretta osservanza di un impianto probatorio difensivo processualei, diretto e non indiretto nel senso che la falsità del fatto cioè la diversa ricostruzione dell’evento addebitabile al lavoratore dovrà trovare una incontrovertibile logica. Quanto richiesto dal legislatore affinché il giudice annulli il licenziamento con effetti reintegrativi pone non pochi timori sulla reale possibilità di subornare i testi. La prova per testi, per questa tipologia di licenziamento, assume primaria importanza perché permette di ricostruire i fatti secondo la visione dei colleghi (e non solo) anziché delle parti. Quanto testimonieranno i colleghi riverbererà sulla valutazione che opererà il giudice sui fatti, per decidere se quanto contestato è vero o è falso, è avvenuto oppure non si è realizzato per nulla o quantomeno non nelle circostanze o nei modi descritti dal datore di lavoro.

Nel caso in cui il fatto risulterà insussistente ovvero anche insufficiente o attenuato rispetto alla gravità descritta, oltre all’ordine di reintegrazione, il datore sarà obbligato ad indennizzare la vittima versandogli una somma pari alla retribuzione mensile per tutto il periodo di disoccupazione non superiore a 12 mensilità oltre i contributi. Anche in questo caso è possibile optare per l’indennità di rinuncia. La critica ascrivibile alla norma riguarda l’applicazione della tutela reale al solo caso di insussistenza del fatto e non anche ai vizi della procedura disciplinare. La procedura disciplinare è costituita anche da una serie di termini perentori posti a tutela dei principi di tempestività, celerità, certezza del diritto e legalità. Principi che potranno essere tranquillamente violati dal datore di lavoro se la finalità del licenziamento sarà quella di liberarsi definitivamente del lavoratore scomodo. Non solo.

Se il datore dovesse violare il diritto di difesa del lavoratore incolpato, per esempio rifiutandosi di ascoltarlo prima di comminare la sanzione disciplinare il licenziamento risulterebbe comunque efficace.

Licenziamento oggettivo e per inidoneità psicofisica

La legge 12.03.1999 n. 68, disciplina l’idoneità psicofisica del lavoratore. L’art. 18 tutela il licenziamento operato sui lavoratori che divengono inabili allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia anche cagionata per inadempimento datoriale dimostrata in sentenza per violazione del D.Lgs. n. 81/2008 ed altre norme in materia di sicurezza e igiene del lavoro (colpa per negligenza e imprudenza) che abbia ridotto la capacità lavorativa inferiore al 60%.

In questo caso prima di adottare la soluzione del licenziamento deve essere tentato il repechage.

Solo quando la Commissione medica di verifica accerti l’inidoneità a proficuo lavoro, la tutela dell’art. 18 cessa di operare. Quando il giudice accerta che il lavoratore licenziato non rientra assolutamente tra le tipologie sopra indicate o che la lavoratrice è stata licenziata durante la gravidanza o il puerperio, annulla il licenziamento reintegrando il lavoratore e commina un’indennità mensile per il periodo di disoccupazione, al massimo di 12 mensilità oltre ai contributi.

Riguardo gli altri motivi oggettivi, il comma 7 dell’art. 18 ci riporta alla insussistenza del fatto come scopo per la tutela reale ed obbligatoria già considerata. Negli altri casi in cui accerta che non ricorrono gli estremi per addebitare un motivo oggettivo, conferma il licenziamento e commina un’indennità da 12 a 24 mensilità. Questa tutela, così come è stata modificata dalla riforma Fornero, è peggiorativa rispetto a quella precedentemente.

La norma prevedeva che in ogni caso in cui non ricorressero gli estremi del licenziamento (e, quindi, non solo in caso di insussistenza del fatto contestato o dedotto dal datore), operasse la reintegra entro 3 giorni o, alternativamente, il risarcimento del danno attraverso un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità retributive. L’indennità era di 10 mensilità se il lavoratore aveva un’anzianità di servizio superiore a 10 anni e di 14 mensilità se il lavoratore aveva oltre 20 anni di anzianità solo però se l’azienda impiegava almeno 16 lavoratori.

Licenziamento in genere con vizi procedurali

L’art. 18 permette di dichiarare inefficace ogni licenziamento che non è stato fondato sulla legalità. Per legalità si intende il rispetto della parte datoriale delle prescrizioni di legge che hanno contenuto precettivo. Non specificare i motivi sottesi il licenziamento entro 7 giorni dalla richiesta intimata dal lavoratore, trasmettere una contestazione di addebito oltre i termini previsti dalla legge o dalla contrattazione collettiva, sorvegliare con le telecamere il lavoro, sentire il lavoratore prima di comminargli la sanzione, allontanare dall’audizione il procuratore del lavoratore o, ancor peggio, non informare il lavoratore dei propri diritti di difesa incorporando nella contestazione quanto prescritto dallo Statuto o dalla contrattazione, costituiscono, soprattutto per i giuristi amanti del diritto, una sopraffazione del potere legislativo che poco ha a che fare con i principi costituzionali. Spero che la Corte Costituzionale intervenga per limare alcune regole che, di fatto, pongono il lavoratore ostaggio del potere e del conformismo aziendale che non sempre aiuta lo sviluppo della libera personalità del lavoratore o aiuta a costruire un ambiente sereno.

Il nuovo D.Lgs. disporrà che, nel caso in cui il datore ometta di specificare i motivi richiesti dal lavoratore per sapere perché è stato licenziato, ovvero qualora la procedura disciplinare il datore violi tutte le prescrizioni obbligatorie dettate dalle fasi progressive per definire i termini, i doveri del datore e i diritti del lavoratore, il giudice confermi comunque il licenziamento accontentando il lavoratore deluso dal disprezzo dello Statuto dei Lavoratori con un’indennità pari ad una retribuzione per ogni anno di lavoro prestato ma non superiore a 12 mensilità.

E’ possibile la reintegra e la tutela obbligatoria piena (una retribuzione per tutto il periodo di disoccupazione senza limite) se nel ricorso il lavoratore si ricorda di contestare specificamente la sussistenza del fatto contestato, isolandolo dal contesto per meglio confutarlo. Diversamente il giudice confermerà comunque il licenziamento. Questa regola apre una polemica infinita sulla responsabilità professionale degli avvocati che qui non intendo affrontare. Però se il lavoratore dovesse perdere il posto di lavoro per insufficienza o in conferenza del ricorso, gli effetti potranno essere devastanti. La norma, comunque, è insidiosa. Si dovrebbe permettere al giudice di esaminare a 360° gli elementi costitutivi del licenziamento, impedendo che alla verità sui fatti e al principio costituzionale di giustizia, si anteponga una semplice tecnica difensiva o ancor peggio, una dimenticanza. La riforma tutela ancora i lavoratori licenziati collettivamente (legge 23.07.1991 n. 223) reintegrandoli in caso di talune violazioni procedurali (art. 4, co. 12 e art. 5, co. 1). Per ultimo l’art. 12 ricorda che non è possibile applicare l’art. 18 ai licenziati sotto queste nuove disposizioni.

In conclusione le nuove disposizioni sul licenziamento serviranno ad affossare ancora di più il sindacato che, privato di ogni effettiva capacità d’azione, dovrà ancor più avvicinarsi al datore di lavoro, in un connubio di interessi e accordi finalizzati a non scomparire.

Stupisce come si tolleri la violazione delle legge ad opera del datore di lavoro e si punisca questo affronto con una semplice indennità, come per dire: “fai quello che vuoi, fregatene della legge basta che hai i soldi”.

I licenziati, seppur illegittimamente ma non per insussistenza del fatto o per discriminazione, diventeranno disoccupati, ma Renzi non li abbandonerà visto che l’art. 11 stabilisce che il nuovo Fondo per le politiche attive per la ricollocazione (presso l’INPS) regalerà un voucher che i disoccupati potranno utilizzare un’agenzia per il lavoro così da ottenere la ricerca gratuita di una nuova occupazione, un nuovo addestramento, formazione e riqualificazione; un po’ fantasioso visto l’indice di disoccupazione.

L’unico spiraglio di tutela sembra essere offerto dagli avvocati che dovranno impegnarsi per ricercare cavilli e spunti per applicare la tutela reale ai più disparati casi di licenziamento, più o meno tipici, che la fantasia italiana ha spesso dimostrato di saper creare.

E mentre i sindacati si affanneranno per accattivarsi il datore di lavoro con la speranza di acquietarlo per i casi disciplinari più gravi, il datore farà il vero padrone, deciderà chi colpire e chi tollerare nella più ampia discrezionalità che un paese cosiddetto democratico possa permettere.

Infatti l’art. 5 del nuovo D.Lgs. prevede che il datore, senza motivo, revochi il licenziamento e ripristini il rapporto interrotto. Una specie di miracolo che solo il padrone può decidere di fare o non fare a chi desidera; ma se non vuole alzare il polverone sul licenziamento poco pulito, può offrire al lavoratore al massimo 18 mensilità come buonuscita.



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