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domenica 18 settembre 2016

Brexit e lavoro: effetti su mobilità e tutele dei lavoratori



Con il termine Brexit si indica l'uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea, così come sancito dal referendum che si è svolto lo scorso 23 Giugno 2016.

Non solo la riduzione della mobilità dei lavoratori. Ma anche effetti sugli obblighi di mantenimento dei livelli minimi di tutela ormai diffusi nel mercato europeo e a cui si devono uniformare anche stati non europei. E ancora possibili ripercussioni sulla parità di trattamento retributivo e sociale, sul sistema di protezione sociale del lavoro somministrato e più in generale su tutti i livelli di tutela che di regola tendono ad evitare al dumping sociale.

Secondo la Fondazione Studi dei consulenti del lavoro dopo l'uscita della 'Ue effetti a cascata ci saranno anche su materie di assoluta importanza quali la sicurezza sul lavoro e la protezione della privacy.

Come spiega l'analisi dei consulenti del lavoro, nel 2013 il flusso di cittadini italiani che è andato a lavorare nel Regno Unito è cresciuto del 66% passando da 26 mila a 44 mila unità. Il flusso di emigranti italiano è continuato a crescere nel 2014 (+16) e nel 2015 (+15%) raggiungendo il livello di 58.653 nel 2015.

L’analisi per classi di età al momento della registrazione di ingresso, ci permette di capire meglio, sottolineano i professionisti, la natura dell’incremento dell’emigrazione italiana nel Regno Unito. Se nel primo decennio del secolo emigravano italiani adulti con un’età compresa fra i 25 e i 34 anni, dal 2012 si registra il sorpasso della classe di età più giovane, fino a 24 anni, che anticipa i tempi di migrazioni rispetto alla generazione precedente. Molto significativo anche l’incremento nell'ultimo periodo degli over 35 che migrano per ricostruirsi un futuro dopo avere tentato nel paese di origine.

E i consulenti del lavoro sottolineano come "la decisione referendaria inglese di uscire dal sistema Europa si manifesta in una epoca storico-­ economica di particolare delicatezza. Essa si innesta nel precario intreccio di riflessioni separatiste e di coesione economico-sociale cui corrisponde l’inevitabile e dissolvente risposta agli interrogativi circa l’utilità di un sistema ormai basato sul rapporto tra debito e prodotto interno lordo piuttosto che sul benessere e prosperità economica. In tale quadro, come nelle varie cornici delle carte costituzionali dei Paesi membri, assume la consueta rilevanza il dato relativo al lavoro e all'occupazione".

E, secondo l'analisi dei professionisti, "appare utile delineare il quadro della rappresentanza inglese presso le istituzioni comunitarie, il suo peso politico ed economico e le procedure legali di 'divorzio consensuale'. Il Regno Unito vanta 70 eurodeputati e circa 50 consiglieri presso il Comitato Economico Sociale Europeo senza contare il sottobosco di dirigenti, funzionari e impiegati. In ordine a queste posizioni è legittimo chiedersi quale sarà il destino di tale rappresentanza, che non dimentichiamoci ha pesato e tuttora pesa nelle decisioni comunitarie".

E l'analisi dei consulenti del lavoro ricorda che "il sistema di uscita dalla Comunità Europea è delineato dall’art 50 dei trattati. Dalla semplice lettura delle disposizioni appare evidente che la Gran Bretagna, una volta presentato atto di notifica formale per l’uscita dalla Ue, dovrà avviare un negoziato per la stipula di un accordo volto a definire le modalità del recesso".

"Pur tuttavia, ai sensi del comma 4, lo dovrà fare in posizione di estrema debolezza -ricordano i consulenti del lavoro- in quanto impossibilitata a partecipare alle decisioni e deliberazioni che la riguardano. Si spiega pertanto la reticente volontà del governo inglese a voler dilatare tale periodo transitorio, ben consapevole che ai sensi del comma 5 non sarà sufficiente un nuovo referendum o petizione per rientrare nel sistema europeo ma occorrerà una nuova procedura formale alla stregua di qualsiasi altro Paese 'extracomunitario'".

Ed è proprio quest’ultima parola, sottolineano i consulenti del lavoro, "a scuotere gli animi delle aziende, dei lavoratori e degli operatori del diritto obbligati a confrontarsi con una figura 'extracomunitaria' mai ritagliata su di un Paese come la Gran Bretagna. I segnali invero erano già stati lanciati tempo addietro -spiegano ancora i professionisti- e non solo in riferimento al rifiuto di adottare la moneta europea ma soprattutto agli ultimi trattati economici perseguiti dal governo inglese con le modalità preponderanti del 'prendere o lasciare'".

Secondo i professionisti "tale insolenza aveva già solleticato inimicizie tra stati membri, già intenti a dissimulare sobbalzi interni in materia di immigrazione. Il ragionevole dubbio della cattiva informazione popolare circa gli effetti nefasti in caso di uscita si palesa in maniera evidente passando in rassegna le conseguenze giuridiche in materia di protezione del mercato del lavoro".

"In altre parole, gran parte della normativa in tema di lavoro degli Stati Membri, deriva direttamente e indirettamente da normative comunitarie e pertanto -rimarcano i consulenti del lavoro- sarà inevitabile un abbassamento delle tutele ad esempio in materia di flessibilità, part-­‐time, contratti a termine, 8 trasferimenti di azienda e orario di lavoro laddove il governo inglese non saprà preservare i sistemi giuridici ormai promulgati".

La questione, ricorda ancora l'analisi dei professionisti, "non si risolve in una lettura riduttiva circa la scarsa mobilità dei lavoratori. Anche i lavoratori autonomi subiranno effetti tragici circa l’inapplicabilità di tutti i sistemi di scambio e reciproco riconoscimento quali il passaporto delle qualifiche, la direttiva servizi, le regolamentazioni comuni per le libere professioni improntate al principio della proporzionalità delle normative professionali in relazione agli obiettivi di interesse generale".

E ancora "in tema di aggregazioni di imprese e di liberi professionisti, sarà interessante analizzare la sorte e la tenuta giuridica dei Gruppi europei di interesse economico, in acronimo GEIE, figura giuridica di matrice prettamente europea con lo scopo di unire le conoscenze e le risorse di attori economici di almeno due paesi appartenenti all'Unione".

"La sfida ora -aggiungono i consulenti- è evitare l’effetto domino, ricostruire una comunità europea che non sia impegnata esclusivamente a pigiare il tasto dell’austerità ma rinnovi l’impegno a creare un vero mercato interno dove magari la potenza tedesca dovrà rinunciare a qualche privilegio ormai acquisito dalla lista degli optionals".

Sia d’esempio la vicenda 'Brexit': "mai sottovalutare effetti a strascico in nome della cattiva informazione o di uno spirito antieuropeista che guarda alla libertà come baluardo per l’isolamento economico sociale. L’impegno riguarda tutti affinché la stessa vicenda 'brexit' non si trasformi in un rifiuto verso il sistema europeo che corrisponda ad un sentimento diffuso di 'bruxit', ovvero l’avversione incondizionata verso il sistema che da Bruxelles fonda l’Unione Europea".

Passando in rassegna le conseguenze giuridiche in materia di protezione del mercato del lavoro, evidenziano che «la gran parte della normativa in tema di lavoro degli Stati Membri, deriva direttamente e indirettamente da normative comunitarie e pertanto sarà inevitabile un abbassamento delle tutele ad esempio in materia di flessibilità, part-time, contratti a termine, trasferimenti di azienda e orario di lavoro laddove il governo inglese non saprà preservare i sistemi giuridici ormai promulgati».

Le conseguenze giuridiche in materia di protezione del mercato del lavoro. Non solo, quindi, riduzione della mobilità dei lavoratori ed inapplicabilità delle disposizioni UE su distacco e protezione sociale, ma, più in generale, la questione tocca anche gli effetti sugli obblighi di mantenimento dei livelli minimi di tutela ormai diffusi nel mercato europeo e a cui si devono uniformare anche stati non europei.

Inoltre, ripercussioni potranno verificarsi sulla parità di trattamento retributivo e sociale, sul sistema di protezione sociale del lavoro somministrato e su tutti i livelli di tutela che di regola tendono ad evitare il dumping sociale, come anche sulla sicurezza sul lavoro e sulla protezione della privacy.

Ingresso e accesso al lavoro dei cittadini extracomunitari e comunitari. Concludono l’analisi due tabelle recanti la disciplina dell’ingresso e dell’accesso al lavoro dei cittadini extracomunitari e comunitari.

Sono questi i possibili effetti della Brexit secondo un'analisi realizzata da Fondazione Studi e diffusa da Labitalia.



giovedì 15 gennaio 2015

Jobs Act e la tutela del licenziamento



Riguardo la comparazione della nuova procedura di licenziamento e delle sue tutele in rapporto all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, ci interessa esaminare pochi ma complessi articoli.

E’ bene precisare che la normativa è di difficile lettura e che, quindi, le deduzioni qui riportate potrebbero subire modifiche interpretative appena si formerà una nuova giurisprudenza in materia.

E’ importante sapere che la nuova tutela dal licenziamento non si applicherà a chi ha già un contratto di lavoro ma solo a chi verrà assunto successivamente all’entrata in vigore del decreto, tranne in un caso: i datori di lavoro che impegnano meno di 16 dipendenti possono far applicare la nuova tutela a tutti i propri dipendenti se, successivamente all’entrata in vigore del D.Lgs. in costruzione, assumeranno nuovi lavoratori fino a raggiungere il fatidico numero complessivo di 16 impiegati, secondo quanto previsto dai commi 8 e 9 dell’art. 18.

La dicitura: “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”, parrebbe che la nuova normativa predisponga delle tutele via via sempre più crescenti a favore dei lavoratori. Ma effettivamente non è così.

La tutela è peggiorativa rispetto a quella apprestata dall’art. 18 perciò potrebbe essere intitolata nuovamente a “tutele decrescenti”.

Comunque se si intende di premiare le aziende che assumono lavoratori fino a raggiungere la soglia dei 16 dipendenti, significa che licenziare sarà più facile rispetto al regime dell’art. 18.

Non solo. Chi impedirà al datore una volta raggiunta la soglia di 16 dipendenti e aver ottenuto l’applicazione della nuova procedura, di liberarsi dei lavoratori neoassunti?

La norma tace sul punto ma la risposta è ovvia.

La presenza di un doppio binario nella tutela dei lavoratori licenziati, profuma di incostituzionalità.

E’ vero che i lavoratori tutelati dall’art. 18 andranno scemando nel tempo, ma il doppio binario durerà per decenni a meno che il Governo non abbia in mente di procedere gradualmente, appena raggiunta la calma sociale, ed attraverso successivi decreti legislativi o decreti legge, di applicare la nuova tutela a sempre più settori lavorativi fino a ricomprenderli tutti.

Licenziamento discriminatorio. L’art. 18 dispone la nullità del licenziamento per discriminazione determinato per motivi di credo politico, di fede religiosa, per l’appartenenza ad un sindacato o ad un’associazione e per la partecipazione ad esse oltre che effettuato in concomitanza col matrimonio, durante la gravidanza e la maternità o la paternità oltre che per motivi illeciti del contratto. In questo caso il giudice annulla il licenziamento a prescindere dal numero di impiegati assunti (tanto è vero che viene tutelato anche il dirigente) e dispone la reintegrazione nel posto di lavoro oltre il pagamento di un’indennità (chiamata erroneamente e contraddittoriamente “risarcimento del danno”) pari all’ultima retribuzione di fatto percepita moltiplicata per il tempo che il lavoratore ha trascorso senza lavorare. Anche se è rimasto disoccupato per meno di 5 mesi, è comunque dovuta un’indennità lorda di 5 mensilità. Questa tutela definita “reale” si applica anche in caso di licenziamento intimato verbalmente. Decade tutta la tutela se il lavoratore non riprende servizio entro 30 giorni dall’invito rivoltogli dal datore ovvero decade dal diritto di reintegrazione se chiede il pagamento di un’indennità di rinuncia che è pari a 15 mensilità nette.

Anche il nuovo D.Lgs. tutelerà il licenziamento discriminatorio, come prima precisato, oltre agli altri casi di nullità di legge (quindi anche i casi di cui all’art. 1345) e seguirà perfettamente la procedura dell’art. 18. Anche se il D.Lgs. non prevede che tale tutela si applichi al dirigente, è probabile che la giurisprudenza provvederà ad integrare questa lacuna, sempre che risulti tale e che non sia invece voluta.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo, soggettivo e giusta causa

Dobbiamo premettere, la differenza tra i tre diversi istituti, che per giustificato motivo oggettivo si intende la ragione inerente l’attività produttiva dell’azienda, l’organizzazione del lavoro e il suo regolare funzionamento. Ciò riguarda i motivi legati all’esistenza e all’unità dell’azienda soprattutto in ragione della produzione (es. soppressione di un reparto o un ramo dell’azienda) e della crisi aziendale e alla sua strutturazione organizzativa (es. razionalizzazione dei sistemi o delle fasi produttive).

Il licenziamento per cause oggettive è attuato quando non è possibile riutilizzare il dipendente in altre mansioni Le motivazioni soggettive sono invece legate al comportamento del lavoratore è possono essere annoverate alle regole definite dal Codice disciplinare. La giusta causa è invece un motivo che determina la totale perdita di fiducia da parte del datore per comportamento ingiustificabile del lavoratore e che costringe il datore licenziamento in tronco o senza preavviso. Premesso ciò, bisogna evidenziare che l’art. 18 disciplina esclusivamente il licenziamento dettato da motivi soggettivi e da giusta causa ma non quello determinato da motivi oggettivi. Nelle situazioni regolate dall’art. 18, il giudice annulla il licenziamento e ordina la reintegrazione nel posto di lavoro quando è accertato che il fatto posto a ragione del licenziamento, che sia una crisi aziendale (oggettivo) o un’infrazione disciplinare (soggettivo) o una giusta causa (furto), è falso o inesistente o inconsistente, almeno nei contenuti descritti dalla parte datoriale ed anche quando non viene rispettato il principio di proporzionalità della sanzione (quando si punisce con il licenziamento un’infrazione che, invece, doveva essere punita con una sanzione conservativa del posto di lavoro come può essere per esempio la sospensione dal servizio). In aggiunta alla tutela reale è prevista quella obbligatoria sempre calcolata sulla retribuzione mensile moltiplicata per il tempo di disoccupazione ma non oltre le 12 mensilità.

Il datore deve anche pagare, a parte, i contributi previdenziali e assistenziali maturati nel periodo di disoccupazione.

Anche in questo caso il lavoratore può optare per il pagamento dell’indennità di rinuncia. Nel caso in cui il fatto posto a ragione del licenziamento (per giustificato motivo soggettivo o giusta causa) risulta accertato nei termini espressi dal datore ma che per altri motivi non sia possibile accertare il giustificato motivo o la giusta causa ovvero non ne ricorrono gli estremi nella loro puntuale definizione, il giudice dichiara comunque efficace il licenziamento e condanna il datore all’indennità in parola tra un minimo di 12 ad un massimo di 24 mensilità.

Se il licenziamento è invece dichiarato dal giudice inefficace perché il lavoratore ha chiesto nei termini le motivazioni del proprio licenziamento e il datore non lo ha reso per iscritto entro 7 giorni, il giudice deve comunque dichiarare risolto il rapporto di lavoro (e, quindi, il licenziamento) ma l’indennità del danno è commisurata tra un minimo di 6 ad un massimo di 12 mensilità a meno che il lavoratore non formuli in ricorso, vittoriosamente, anche un difetto di motivazione nel merito del licenziamento. In questo caso il petitum del ricorso porta l’oggetto del licenziamento alla prima tutela prevista dall’art. 18, quindi se il fatto addebitato è insussistente, oltre all’indennità pari al massimo a 12 mensilità, viene ordinata la reintegrazione, salva la rinuncia indennizzata richiesta dal lavoratore netro 30 giorni. Ma se il fatto risulta acclarato nonostante non ricorrano gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, il licenziamento verrà confermato e l’indennità maggiorata da 12 a 24 mensilità.

La nuova procedura di licenziamento prevede sempre la tutela dei soli casi di giustificato motivo soggettivo e giusta causa. Il giudice annulla il licenziamento solo se il fatto contestato ovvero posto a ragione del licenziamento risulterà, direttamente e senza dubbio, insussistente. La formula adottata non permette di interpretare la locuzione impiegata in maniera diversa dalla stretta osservanza di un impianto probatorio difensivo processualei, diretto e non indiretto nel senso che la falsità del fatto cioè la diversa ricostruzione dell’evento addebitabile al lavoratore dovrà trovare una incontrovertibile logica. Quanto richiesto dal legislatore affinché il giudice annulli il licenziamento con effetti reintegrativi pone non pochi timori sulla reale possibilità di subornare i testi. La prova per testi, per questa tipologia di licenziamento, assume primaria importanza perché permette di ricostruire i fatti secondo la visione dei colleghi (e non solo) anziché delle parti. Quanto testimonieranno i colleghi riverbererà sulla valutazione che opererà il giudice sui fatti, per decidere se quanto contestato è vero o è falso, è avvenuto oppure non si è realizzato per nulla o quantomeno non nelle circostanze o nei modi descritti dal datore di lavoro.

Nel caso in cui il fatto risulterà insussistente ovvero anche insufficiente o attenuato rispetto alla gravità descritta, oltre all’ordine di reintegrazione, il datore sarà obbligato ad indennizzare la vittima versandogli una somma pari alla retribuzione mensile per tutto il periodo di disoccupazione non superiore a 12 mensilità oltre i contributi. Anche in questo caso è possibile optare per l’indennità di rinuncia. La critica ascrivibile alla norma riguarda l’applicazione della tutela reale al solo caso di insussistenza del fatto e non anche ai vizi della procedura disciplinare. La procedura disciplinare è costituita anche da una serie di termini perentori posti a tutela dei principi di tempestività, celerità, certezza del diritto e legalità. Principi che potranno essere tranquillamente violati dal datore di lavoro se la finalità del licenziamento sarà quella di liberarsi definitivamente del lavoratore scomodo. Non solo.

Se il datore dovesse violare il diritto di difesa del lavoratore incolpato, per esempio rifiutandosi di ascoltarlo prima di comminare la sanzione disciplinare il licenziamento risulterebbe comunque efficace.

Licenziamento oggettivo e per inidoneità psicofisica

La legge 12.03.1999 n. 68, disciplina l’idoneità psicofisica del lavoratore. L’art. 18 tutela il licenziamento operato sui lavoratori che divengono inabili allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia anche cagionata per inadempimento datoriale dimostrata in sentenza per violazione del D.Lgs. n. 81/2008 ed altre norme in materia di sicurezza e igiene del lavoro (colpa per negligenza e imprudenza) che abbia ridotto la capacità lavorativa inferiore al 60%.

In questo caso prima di adottare la soluzione del licenziamento deve essere tentato il repechage.

Solo quando la Commissione medica di verifica accerti l’inidoneità a proficuo lavoro, la tutela dell’art. 18 cessa di operare. Quando il giudice accerta che il lavoratore licenziato non rientra assolutamente tra le tipologie sopra indicate o che la lavoratrice è stata licenziata durante la gravidanza o il puerperio, annulla il licenziamento reintegrando il lavoratore e commina un’indennità mensile per il periodo di disoccupazione, al massimo di 12 mensilità oltre ai contributi.

Riguardo gli altri motivi oggettivi, il comma 7 dell’art. 18 ci riporta alla insussistenza del fatto come scopo per la tutela reale ed obbligatoria già considerata. Negli altri casi in cui accerta che non ricorrono gli estremi per addebitare un motivo oggettivo, conferma il licenziamento e commina un’indennità da 12 a 24 mensilità. Questa tutela, così come è stata modificata dalla riforma Fornero, è peggiorativa rispetto a quella precedentemente.

La norma prevedeva che in ogni caso in cui non ricorressero gli estremi del licenziamento (e, quindi, non solo in caso di insussistenza del fatto contestato o dedotto dal datore), operasse la reintegra entro 3 giorni o, alternativamente, il risarcimento del danno attraverso un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità retributive. L’indennità era di 10 mensilità se il lavoratore aveva un’anzianità di servizio superiore a 10 anni e di 14 mensilità se il lavoratore aveva oltre 20 anni di anzianità solo però se l’azienda impiegava almeno 16 lavoratori.

Licenziamento in genere con vizi procedurali

L’art. 18 permette di dichiarare inefficace ogni licenziamento che non è stato fondato sulla legalità. Per legalità si intende il rispetto della parte datoriale delle prescrizioni di legge che hanno contenuto precettivo. Non specificare i motivi sottesi il licenziamento entro 7 giorni dalla richiesta intimata dal lavoratore, trasmettere una contestazione di addebito oltre i termini previsti dalla legge o dalla contrattazione collettiva, sorvegliare con le telecamere il lavoro, sentire il lavoratore prima di comminargli la sanzione, allontanare dall’audizione il procuratore del lavoratore o, ancor peggio, non informare il lavoratore dei propri diritti di difesa incorporando nella contestazione quanto prescritto dallo Statuto o dalla contrattazione, costituiscono, soprattutto per i giuristi amanti del diritto, una sopraffazione del potere legislativo che poco ha a che fare con i principi costituzionali. Spero che la Corte Costituzionale intervenga per limare alcune regole che, di fatto, pongono il lavoratore ostaggio del potere e del conformismo aziendale che non sempre aiuta lo sviluppo della libera personalità del lavoratore o aiuta a costruire un ambiente sereno.

Il nuovo D.Lgs. disporrà che, nel caso in cui il datore ometta di specificare i motivi richiesti dal lavoratore per sapere perché è stato licenziato, ovvero qualora la procedura disciplinare il datore violi tutte le prescrizioni obbligatorie dettate dalle fasi progressive per definire i termini, i doveri del datore e i diritti del lavoratore, il giudice confermi comunque il licenziamento accontentando il lavoratore deluso dal disprezzo dello Statuto dei Lavoratori con un’indennità pari ad una retribuzione per ogni anno di lavoro prestato ma non superiore a 12 mensilità.

E’ possibile la reintegra e la tutela obbligatoria piena (una retribuzione per tutto il periodo di disoccupazione senza limite) se nel ricorso il lavoratore si ricorda di contestare specificamente la sussistenza del fatto contestato, isolandolo dal contesto per meglio confutarlo. Diversamente il giudice confermerà comunque il licenziamento. Questa regola apre una polemica infinita sulla responsabilità professionale degli avvocati che qui non intendo affrontare. Però se il lavoratore dovesse perdere il posto di lavoro per insufficienza o in conferenza del ricorso, gli effetti potranno essere devastanti. La norma, comunque, è insidiosa. Si dovrebbe permettere al giudice di esaminare a 360° gli elementi costitutivi del licenziamento, impedendo che alla verità sui fatti e al principio costituzionale di giustizia, si anteponga una semplice tecnica difensiva o ancor peggio, una dimenticanza. La riforma tutela ancora i lavoratori licenziati collettivamente (legge 23.07.1991 n. 223) reintegrandoli in caso di talune violazioni procedurali (art. 4, co. 12 e art. 5, co. 1). Per ultimo l’art. 12 ricorda che non è possibile applicare l’art. 18 ai licenziati sotto queste nuove disposizioni.

In conclusione le nuove disposizioni sul licenziamento serviranno ad affossare ancora di più il sindacato che, privato di ogni effettiva capacità d’azione, dovrà ancor più avvicinarsi al datore di lavoro, in un connubio di interessi e accordi finalizzati a non scomparire.

Stupisce come si tolleri la violazione delle legge ad opera del datore di lavoro e si punisca questo affronto con una semplice indennità, come per dire: “fai quello che vuoi, fregatene della legge basta che hai i soldi”.

I licenziati, seppur illegittimamente ma non per insussistenza del fatto o per discriminazione, diventeranno disoccupati, ma Renzi non li abbandonerà visto che l’art. 11 stabilisce che il nuovo Fondo per le politiche attive per la ricollocazione (presso l’INPS) regalerà un voucher che i disoccupati potranno utilizzare un’agenzia per il lavoro così da ottenere la ricerca gratuita di una nuova occupazione, un nuovo addestramento, formazione e riqualificazione; un po’ fantasioso visto l’indice di disoccupazione.

L’unico spiraglio di tutela sembra essere offerto dagli avvocati che dovranno impegnarsi per ricercare cavilli e spunti per applicare la tutela reale ai più disparati casi di licenziamento, più o meno tipici, che la fantasia italiana ha spesso dimostrato di saper creare.

E mentre i sindacati si affanneranno per accattivarsi il datore di lavoro con la speranza di acquietarlo per i casi disciplinari più gravi, il datore farà il vero padrone, deciderà chi colpire e chi tollerare nella più ampia discrezionalità che un paese cosiddetto democratico possa permettere.

Infatti l’art. 5 del nuovo D.Lgs. prevede che il datore, senza motivo, revochi il licenziamento e ripristini il rapporto interrotto. Una specie di miracolo che solo il padrone può decidere di fare o non fare a chi desidera; ma se non vuole alzare il polverone sul licenziamento poco pulito, può offrire al lavoratore al massimo 18 mensilità come buonuscita.



Licenziamento: le tutele dei lavoratori per il 2015



Cosa cambia nel 2015, con l'entrata in vigore del Jobs Act su licenziamenti, tutele, reintegri e indennizzi: una guida pratica alle nuove regole introdotte dal Jobs Act nel mondo del lavoro.

Gli unici casi in cui l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori mantiene la sua validità, consentendo il reintegro in seguito a un licenziamento sono i seguenti:

Licenziamenti discriminatori ovvero i licenziamenti per motivi religiosi e sessuali;

Licenziamenti nulli e intimati in forma orale;

Licenziamenti disciplinari ingiustificati, limitatamente alle eventualità in cui il fatto materiale non sussista. Si tratta, ad esempio, di casi in cui un lavoratore viene accusato di aver compiuto un gesto di cui, in sede di contenzioso, viene dimostrata la non sussistenza;

Licenziamenti per i quali il giudice del lavoro, in sede di contenzioso, accerta il difetto di giustificazione per motivi legati all’inidoneità fisica o psichica del lavoratore;

Anche nei casi in cui, a seguito di contenzioso, il giudice del lavoro accerta la possibilità del reintegro, al lavoratore viene offerta la possibilità di richiedere un indennizzo di natura economica che vada a sostituire il reintegro. Tale indennità una tantum è pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione percepita.

Indennizzo in seguito a licenziamento

Nei casi in cui viene previsto e consentito il licenziamento (motivi economici) il datore di lavoro è tenuto al pagamento di un indennizzo di natura economica pari a 2 mensilità per ogni anno di servizio del lavoratore. L’indennizzo dovuto nei casi di licenziamento va da un minimo di 4 mensilità a un massimo di 24 mensilità.

Per le aziende con meno di 15 dipendenti, per le quali già era prevista la deroga all’art.18 nella precedente normativa, rimane confermata l’esclusione dal reintegro e viene mantenuto, per i casi di licenziamento senza giusta causa, l’indennizzo attuale variabile tra i 2,5 e i 6 mesi di retribuzione.

Per i licenziamenti collettivi la disciplina prevista dal Jobs Act per i licenziamenti individuali viene estesa anche ai licenziamenti collettivi per i quali è previsto il reintegro per i licenziamenti intimati in forma orale o dei quali è accertato il vizio di procedura o di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori da mettere in uscita. L’indennizzo rimane quello di due mensilità per ogni anno di servizio, con un minimo di 4 mensilità.

Per i lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 183 del 2014, il regime di tutela nel caso di licenziamento illegittimo è  disciplinato dalle disposizioni di cui al presente decreto.

Nel caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore del presente decreto, integri il requisito occupazionale di cui all’articolo 18, ottavo e nono comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, il licenziamento dei lavoratori, anche se assunti precedentemente a tale data, è disciplinato dalle disposizioni del presente decreto.

Il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ovvero riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto.

A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l'indennità di cui al terzo comma del presente articolo. Il regime di cui al presente articolo si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale.

Con la pronuncia di cui al comma 1, il giudice condanna altresì il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità e l’inefficacia, stabilendo a tal fine un'indennità  commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

Fermo restando il diritto al risarcimento del danno come previsto al comma 2, al lavoratore è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennità pari a quindici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale. La richiesta dell'indennità deve essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dall'invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione.

Per il licenziamento per giustificato motivo e giusta causa, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità.

Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro. In ogni caso la misura dell'indennità risarcitoria relativa al periodo antecedente alla pronuncia di reintegrazione non può essere superiore a dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione.

Nell’ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all’articolo, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle tutele di cui agli articoli 2 e 3 del presente decreto.

Nell'ipotesi di revoca del licenziamento, purché effettuata entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell'impugnazione del medesimo, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti dal presente decreto.

In caso di licenziamento dei lavoratori al fine di evitare il giudizio e ferma restando la possibilità per le parti di arrivare a ogni altra modalità di conciliazione prevista dalla legge, il datore di lavoro può offrire al lavoratore, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, un importo che non costituisce reddito imponibile ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e non è assoggettata a contribuzione previdenziale, di ammontare pari a una mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a diciotto mensilità, mediante consegna al lavoratore di un assegno circolare. L’accettazione dell’assegno in tale sede da parte del lavoratore comporta l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia alla impugnazione del licenziamento anche qualora il lavoratore l’abbia già proposta.

È istituito presso l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale il Fondo per le politiche attive per la ricollocazione dei lavoratori in stato di disoccupazione involontaria, al quale affluisce la dotazione finanziaria del Fondo istituito dall’articolo 1, comma 215, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, in ragione di 18 milioni di euro per l’anno 2015 e di 20 milioni di euro per il 2016 nonché, per l’anno 2015, l’ulteriore somma di 32 milioni di euro del gettito relativo al contributo di cui all’articolo 2, comma 31, della legge 28 giugno 2012, n. 92.

Il lavoratore licenziato illegittimamente o per giustificato motivo oggettivo o per licenziamento collettivo ha il diritto di ricevere dal Centro per l’impiego territorialmente competente  un voucher rappresentativo della dote individuale di ricollocazione, a condizione che effettui la procedura di definizione del profilo personale di occupabilità, ai sensi del D.lgs. attuativo della legge delega 10 dicembre 2014, n. 183, in materia di politiche attive per l’impiego.

Presentando il voucher a una agenzia per il lavoro pubblica o privata accreditata il lavoratore ha diritto a sottoscrivere con essa il contratto di ricollocazione che prevede:

Il diritto del lavoratore a una assistenza appropriata nella ricerca della nuova occupazione, programmata, strutturata e gestita secondo le migliori tecniche del settore, da parte dell’agenzia per il lavoro;

il diritto del lavoratore alla realizzazione da parte dell’agenzia stessa di iniziative di ricerca, addestramento, formazione o riqualificazione professionale mirate a sbocchi occupazionali effettivamente esistenti e appropriati in relazione alle capacità del lavoratore e alle condizioni del mercato del lavoro nella zona ove il lavoratore è stato preso in carico;

il dovere del lavoratore di porsi a disposizione e di cooperare con l’agenzia nelle iniziative da essa predisposte.



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