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giovedì 6 aprile 2017

Contratto a tutele crescenti e licenziamento




 Tra le principali novità normative realizzate dalla riforma del lavoro Jobs Act, che  ha introdotto il nuovo contratto di lavoro a tempo indeterminato detto "a tutele crescenti"

Il D.LGS 23/2015 di fatto limita l'applicazione dell'art. 18  dello Statuto dei lavoratori. Si esclude infatti  per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l'impugnazione del licenziamento”.

Il regime di tutela nel caso di licenziamento illegittimo:
a) si applica ai lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto;

b) vale anche nei casi di conversione, successiva all'entrata in vigore del decreto, del contratto a tempo determinato o dell’ apprendistato in contratto a tempo indeterminato;

c) nel caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore del decreto, integri il requisito occupazionale di cui all’articolo 18, ottavo e nono comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (il riferimento è al superamento della soglia dei 15 dipendenti).

Nei confronti del datore di lavoro imprenditore o non imprenditore trova applicazione quanto segue:

a) reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto. A seguito dell'ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto se il lavoratore non riprende servizio entro 30 giorni dall'invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l'indennità di 15 mensilità

b) risarcimento del danno così calcolato: indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR (dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione) dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso minimo 5 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali

c) in luogo della reintegrazione, fermo restando il diritto al risarcimento del danno, il lavoratore ha facoltà di chiedere al datore di lavoro:
- un'indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale;
entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dall'invito del datore di lavoro di riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione.

E’ prevista una indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità.

La misura è dimezzata nelle piccole imprese e non può superare le sei mensilità.

Esclusa l'applicazione dell'art. 7, l. n. 604/66, che introduce una procedura di conciliazione davanti alla Commissione provinciale di conciliazione presso la Dtl, che il datore di lavoro, avente i requisiti dimensionali previsti dalla legge n. 300/70, deve obbligatoriamente esperire prima di intimare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (si tratta di una condizione di procedibilità).

Annullamento del licenziamento e condanna del datore di lavoro:
a) alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro;

b) al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro; massimo 12 mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR;

c) al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, senza applicazione di sanzioni per omissione contributiva.
Il lavoratore può optare per le 15 mensilità.

E’ prevista una indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari a 1 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 2 e non superiore a 12 mensilità, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle tutele previste per i casi di licenziamento per i quali sia ancora prevista la reintegrazione.
L'importo è dimezzato nelle piccole imprese entro massimo 6 mensilità.

In caso di revoca del licenziamento, purché effettuata entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell'impugnazione del medesimo, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti dal decreto in esame.

Al fine di evitare il giudizio e ferma restando la possibilità per le parti di addivenire a ogni altra modalità di conciliazione prevista dalla legge, il datore di lavoro può offrire al lavoratore licenziato, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, in una delle sedi protette (articolo 2113, comma 4, c.c. e articolo 76 del D.Lgs. n. 276/2003), un importo - che non costituisce reddito imponibile ai fini dell’IRPEF e non assoggettato a contribuzione previdenziale- di ammontare pari a 1 mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio; importo minimo 2 e massimo 18 mensilità, mediante consegna al lavoratore di un assegno circolare.

L’accettazione dell’assegno in tale sede da parte del lavoratore comporta l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia alla impugnazione del licenziamento anche qualora il lavoratore l’abbia già proposta. Le eventuali ulteriori somme pattuite nella stessa sede conciliativa a chiusura di ogni altra pendenza derivante dal rapporto di lavoro sono soggette al regime fiscale ordinario.

Attenzione: la comunicazione obbligatoria telematica di cessazione del rapporto è integrata da una ulteriore comunicazione, da effettuarsi da parte del datore di lavoro entro 65 giorni dalla cessazione del rapporto, nella quale deve essere indicata l’avvenuta ovvero la non avvenuta conciliazione; ove omessa si applica la medesima sanzione prevista per l’omissione della comunicazione COB. Il modello di trasmissione della comunicazione obbligatoria è conseguentemente riformulato.

Il decreto contiene, infine, alcune regole di "computo" la cui applicazione viene richiamata anche in tabella.

L'art. 7 specifica che l’anzianità di servizio del lavoratore che passa alle dipendenze dell’impresa subentrante nell’appalto si computa tenendosi conto di tutto il periodo durante il quale il lavoratore è stato impiegato nell’attività appaltata.

L'art. 8 dispone che per le frazioni di anno d’anzianità di servizio, le indennità e gli importi previsti nei seguenti casi
- licenziamento per giustificato motivo oggettivo/soggettivo o giusta causa privo degli estremi (art. 3, comma 1)
- licenziamento affetto da vizi formali/procedurali (art. 4)
- importo offerto in sede di conciliazione (art. 6)
sono riproporzionati e le frazioni di mese uguali o superiori a quindici giorni si computano come mese intero.

Ove il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali dei 15/60 dipendenti :
- non si applica la norma sul licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale;
l'ammontare di indennità/importi previsti è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità.

In caso di licenziamento collettivo ai sensi ex legge n. 223/91 intimato senza l’osservanza della forma scritta, si applica il regime sanzionatorio della reintegrazione; in caso di violazione delle procedure o dei criteri di scelta si applica il regime indennitario.

Ai licenziamenti oggetto del decreto non si applica il rito Fornero (commi da 48 a 68 dell’articolo 1 della legge n. 92 del 2012) identificabile  in una disciplina processuale speciale per le controversie derivanti dai licenziamenti di cui all'articolo 18 della legge n. 300 del 1970.

La legge Fornero, infatti, definisce un rito speciale per le controversie relative all’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi previste dal  citato art. 18, nonché alle questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro.

Le uniche fattispecie che possono portare alla reintegra del lavoratore riguardano:

il licenziamento discriminatorio (determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato, dalla partecipazione ad attività sindacali o ad uno sciopero, nonché discriminazione razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali);

il licenziamento intimato durante i periodi di tutela (primo anno di matrimonio, durante la maternità e fino al compimento di un anno di età del bambino, per fruizione dei congedi parentali);

il licenziamento per motivo illecito ( ex art. 1345 c.c.);

il licenziamento intimato in forma orale.

la misura del risarcimento non potrà essere inferiore ad un minimo di 5 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR.




martedì 14 febbraio 2017

Trasformazione contratto di lavoro e tutele crescenti



Per i lavoratori assunti, trasformati o qualificati dal 7 marzo 2015, il legislatore ha introdotto un nuovo regime di tutela per i licenziamenti illegittimi togliendo ogni discrezionalità al giudice e prevedendo un’indennità risarcitoria crescente in ragione dell’anzianità di servizio in azienda.

La legge specifica che qualunque contratto a tempo indeterminato che si stipula dopo la data di entrata in vigore del decreto è a tutele crescenti, anche se trasformato.

L’unica alternativa è firmare un accordo per applicare la vecchia normativa, ma deve essere stabilito tra le parti.

In assenza di accordi di questo tipo il contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti si applica a tutti:

i lavoratori assunti a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015;

i lavoratori che dal 7 marzo 2015 hanno avuto trasformato il contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato;

gli apprendistati che sono stati qualificati dal 7 marzo 2015.

Ai rapporti di lavoro già in essere alla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo continuerà ad essere applicata la disciplina precedente a meno che i lavoratori non prestino la propria attività presso un datore di lavoro, che dopo il 7 marzo 2015, attraverso successive assunzioni a tempo indeterminato, superi i 15 dipendenti: in questo caso, il contratto a tutele crescenti sarà obbligatoriamente applicabile a tutti i lavoratori presenti in azienda, indipendentemente dalla data di assunzione.

Per quanto riguarda la dicitura esente per l. 190/2014 presente in busta paga, questa fa riferimento all’agevolazione sulle assunzioni contenuta nella Legge di Stabilità 2015 (Legge 190/2014, art. 1, c. 118 e seguenti), che ha introdotto un esonero contributivo (per i datori di lavoro) sui nuovi rapporti a tempo indeterminato dal 1° gennaio al 31 dicembre 2015, per un periodo massimo di 36 mesi e nel limite di 8.060 euro su base annua.

Questo nuovo contratto di lavoro unico, è riservato solo ai lavoratori neoassunti contrattualizzati a seguito della Riforma del Lavoro Jobs Act. Tale contratto, sostituisce quindi tutte le forme di contratto di lavoro attualmente vigenti, per cui un'azienda che vuole assumere deve farlo utilizzando o il contratto a tutele crescenti oppure a tempo determinato o con il nuovo apprendistato. In questa prospettiva, i lavoratori saranno quindi solo dipendenti, a tempo indeterminato o a tempo determinato, apprendisti, somministrati, cococo oppure, autonomi con partita IVA che svolgeranno la propria attività autonomamente.

Il datore di lavoro assume neo lavoratori con questo contratto e ottiene degli sconti fiscali. L'azienda quindi è legittimata a licenziare a causa dell'abolizione dell'articolo 18, a patto però che il licenziamento non avvenga per motivi discriminatori, perché in questo caso sarebbe obbligata al reintegro del lavoratore.

In questo contesto, l'azienda che si trova per esempio in difficoltà economica a causa della crisi, non richiederà l'intervento della cassa integrazione o della mobilità come ammortizzatore sociale per superare la crisi occupazionale, ma utilizzerà il licenziamento per disfarsi dei lavoratori in esubero, pagando loro l'indennità di licenziamento.

A tali lavoratori, andrebbe poi l'indennità di disoccupazione. In questo modo, gli altri ammortizzatori sociali come la cassa integrazione in deroga o la mobilità sparirebbero lasciando solo la CIG ordinaria per temporanei cali di produzione e quella straordinaria in caso di ristrutturazioni aziendali, da attivare solo dopo la riduzioni dell’orario lavorativo.

In questo nuovo regime di tutela per i casi di licenziamento illegittimo che, oltre a rendere più snello il percorso di uscita del lavoratore dall’azienda, toglie la discrezionalità al giudice riconoscendo un indennizzo economico di importo prevedibile (due mensilità) e crescente in funzione dell’anzianità di servizio (due mensilità per ogni anno di lavoro, ma con un minimo di quattro e un massimo di ventiquattro).

Le uniche fattispecie che possono portare alla reintegra del lavoratore riguardano:

il licenziamento discriminatorio (determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato, dalla partecipazione ad attività sindacali o ad uno sciopero, nonché discriminazione razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali);

il licenziamento intimato durante i periodi di tutela (primo anno di matrimonio, durante la maternità e fino al compimento di un anno di età del bambino, per fruizione dei congedi parentali);

il licenziamento per motivo illecito ( ex art. 1345 c.c.);

il licenziamento intimato in forma orale.

la misura del risarcimento non potrà essere inferiore ad un minimo di 5 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR.

Si evidenzia come in tale tipologia di illegittimità del licenziamento, la disciplina applicabile è la stessa della Legge Fornero, quindi, in questo caso, non ci saranno differenze fra i lavoratori assunti prima della vigenza del presente decreto legislativo e quelli assunti dopo, né tanto meno in funzione dei limiti dimensionali dell’azienda.

Fermo restando il diritto al risarcimento del danno di cui sopra, il lavoratore ha facoltà di richiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, una indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, non soggetta a contribuzione previdenziale. Tale richiesta deve essere effettuata entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dell’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se precedente.

Il licenziamento per giustificato motivo o giusta causa è disciplinato come segue:

in presenza del fatto materiale ed indipendentemente dalla sua gravità, il licenziamento non comporterà la reintegra, ma il riconoscimento di un’indennità, non soggetta a contribuzione previdenziale, pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 4 mensilità e non superiore a 24.

Si evidenzia che la procedura obbligatoria presso la Direzione territoriale del Lavoro introdotta dalla Legge Fornero per il licenziamento per GMO (giustificato motivo oggettivo) nelle aziende con più di 15 dipendenti, continuerà ad applicarsi solo per gli assunti prima del 7 marzo 2015.

Per i soli licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore o per difetto di giustificazione consistente nell’inidoneità fisica o psichica, determina l’annullamento del licenziamento e la condanna per il datore di lavoro alla reintegra con le stesse modalità previste per il licenziamento discriminatorio (cioè pagamento delle mensilità dalla data del licenziamento alla data della reintegra effettiva, comprensiva dei contributi, ecc.) con il limite massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR.

Anche in questo caso il lavoratore ha facoltà di richiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, una indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, non soggetta a contribuzione previdenziale.

Per i datori di lavoro che occupano fino a 15 dipendenti, nelle ipotesi di cui sopra, è previsto esclusivamente il pagamento di un’indennità risarcitoria pari ad 1 mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di anzianità aziendale, con un minimo di 2 mensilità ed un massimo di 6.

Nell’ipotesi di licenziamento intimato senza l’indicazione dei motivi, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità, non assoggettata a contributi previdenziali, pari ad 1 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, in misura non inferiore a 2 e non superiore a 12, salvo che su domanda del lavoratore il giudice non accerti la sussistenza dei presupposti per le tutele previste per il licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale o per il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo.

sabato 14 marzo 2015

Contratto di lavoro a tutele crescenti: mutui a rischio



Il contratto a tutele crescenti è legge dello stato: dal 1° marzo regolerà le nuove assunzioni a tempo indeterminato. Porterà davvero a un miglioramento del mercato del lavoro? Dipende dalla sua capacità di ridurre la precarietà.

Pensiamo a cosa succederà quando il beneficio fiscale verrà meno. Non si tratta di un’ipotesi ca perché il rischio che il bonus fiscale non sia sostenibile per le finanze pubbliche è molto concreto. In Italia è ora possibile assumere a termine senza causa scritta e rinnovare per cinque volte il contratto nell’arco di tre anni. Nulla vieterà a un’impresa di offrire il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti soltanto dopo tre anni di contratto a termine. Tenendo conto che nei primi due anni l’indennizzo è decisamente modesto, in queste condizioni si rischia di rendere precario un nuovo assunto per almeno cinque anni. Ciò significa che una volta esaurito il beneficio fiscale, la precarietà potrebbe anche aumentare. Una situazione paradossale.

L'ABI rassicura, più mutui grazie al Jobs Act, ma da un'inchiesta su dieci banche solo una concede il prestito a fronte di contratto indeterminato a tutele crescenti: dati e riflessioni.

Il problema si è posto da subito: il nuovo contratto indeterminato a tutele crescenti previsto dal Jobs Act, che prevede meno garanzie contro il licenziamento rispetto al vecchio tempo indeterminato, avrà conseguenze sensibili sulla possibilità di ottenere mutui per acquistare la casa? Una risposta certa al momento non si può dare, visto che il nuovo indeterminato a tutele crescenti è in vigore dal 7 marzo  2015 e non ci sono dati su come si comporteranno le banche.

Ci sono, in compenso, due elementi contrastanti su cui riflettere: da una parte una dichiarazione del presidente dell’ABI, Giorgio Patuelli, del tutto confortante sul fatto che le banche vedranno di buon occhio il nuovo contratto indeterminato a tutele crescenti per la concessione dei mutui. Anzi, per Patuelli, i mutui sono destinati ad aumentare nel caso in cui lo strumento alimenti nuove assunzioni, spingendo quindi un maggior numero di lavoratori ad acquistare la casa e a chiedere mutui. Dall’altra, ci sono dubbi sollevati da più parti sul fatto che il nuovo contratto presenta meno garanzie rispetto al vecchio e anche una specifica inchiesta di Repubblica che mette in luce una serie di criticità.

Partiamo dalle dichiarazioni di Patuelli:

«Guardiamo con una disposizione favorevole al nuovo contratto, ci attendiamo un aumento di assunzioni a tempo indeterminato, destinato ad assorbire alcune forme contrattuali precarie. Sono convinto che i neoassunti con il contratto a tutele crescenti saranno bene visti dalle banche, che sono pronte ad accogliere positivamente la richiesta di prestiti e mutui avanzata da lavoratori stabilizzati».

«Per le banche la questione sostanziale è rappresentata dalla tipologia di contratto che è a tempo indeterminato – aggiunge Patuelli -. Il fatto che le tutele dal licenziamento si esplichino in modo differente rispetto al passato è ininfluente, perché al posto della reintegrazione è previsto per il lavoratore licenziato il pagamento di un indennizzo crescente fino a 24 mensilità che rappresenta una garanzia. Ovviamente il merito di credito sarà visto da ciascuna banca con una predisposizione positiva, ma guardando alla situazione specifica, ovvero all’importo richiesto, al reddito mensile, al valore dell’immobile, come si è sempre fatto per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato».

Come si vede, toni rassicuranti da parte del presidente dell’ABI, che però non sembrano confortati, almeno per il momento, dai fatti.

Due giornalisti di Repubblica, Matteo Pucciarelli e Silvia Valenti, hanno svolto una specifica inchiesta, presentandosi in una decina di banche fingendosi una coppia che chiedeva un mutuo per una casa a Milano da 200 milioni di euro, 70mila come anticipo. Il mutuo serviva a coprire il 65% dell’acquisto, dunque, (in genere, il massimo è l’80%). La somma richiesta: 130mila euro. Si presentavano come una giovane coppia di trentenni con due contratti di assunzione a tempo indeterminato, uno a tutele crescenti, per un importo di 1600 euro al mese, l’altro con il vecchio tempo indeterminato, con stipendio di 1200 euro al mese. Ebbene, una sola banca ha dichiarato disponibilità a concedere il mutuo, mentre tre hanno dato risposta negativa, quattro hanno preso tempo, due non hanno risposto.

Va fatta una precisazione importante: il problema fondamentale emerso dall’inchiesta non è l’indisponibilità a concedere un mutuo, ma la scarsa conoscenza da parte delle banche del nuovo contratto a tutele crescenti. Si tratta di un nuovo strumento sul quale ancora non c’è una preparazione adeguata da parte degli operatori e dei consulenti a cui ci si rivolge per ottenere i mutui.

Nella maggior parte dei casi le banche hanno chiesto tempo, per acquisire ad esempio documentazione storica sulle busta paga dell’assunto a tutele crescenti (che, nella coppia in questione, rappresentava lo stipendio più alto), nel senso che si rimandava la decisione di qualche mese, alcuni hanno chiesto almeno sei buste paga pregresse. Non sono mancati casi in cui di fatto l’orientamento iniziale è stato quello di considerare il contratto a tutele crescenti in modo simile a un contratto parasubordinato (caso in cui, spesso, si chiedono ulteriori garanzie).

L’unica banca che ha detto sì senza fare una piega è Deutsche Bank (fra le poche banche straniere interpellate nell’inchiesta, la maggioranza nel panel è stato rappresentato da istituti di credito italiani). L’impiegato a cui la giovane coppia si è rivolta ha risposto, semplicemente: «se non lo diamo a voi, il mutuo, a chi dobbiamo darlo?».

E’ difficile non pensare che se non si fanno mutui a giovani coppie con due contratti a tempo indeterminato, quale che sia la protezione prevista in materia di articolo 18 e reintegro, sembra difficile che il mercato dei mutui possa riprendersi come tutti auspicano.

Che effetti dovremmo quindi aspettarci dal nuovo contratto? Rendendo più facili le interruzioni di lavoro, implicherà ovviamente un aumento dei licenziamenti. Al tempo stesso, renderà anche più facile assumere nuovi lavoratori. Il saldo netto è però ambiguo, come da sempre evidenziato dagli studi empirici in materia.

Il vero obiettivo del contratto a tutele crescenti non va ricercato tanto nella riduzione della disoccupazione, quanto piuttosto nella riduzione della precarietà. Questo significa che la riforma avrà avuto successo se la quota di assunzioni a termine si ridurrà. Come dovrebbe ridursi anche la quota di assunzioni sotto altre forme instabili (in particolare contratti a progetto e false partite Iva).



mercoledì 11 marzo 2015

Jobs act: il contratto a tempo indeterminato



Per contratto di lavoro a tempo indeterminato si deve intendere un accordo fra le parti nel quale un soggetto, il lavoratore, si impegna dietro versamento di una retribuzione e senza vincolo di durata alcuno, a prestare la propria attività lavorativa accettando il potere direttivo, organizzativo e disciplinare di un altro soggetto, il datore di lavoro. Il contratto di lavoro subordinato va inteso quindi a tempo indeterminato, concetto questo già chiaramente espresso dal legislatore già nel 1962 e più recentemente ribadito nel 2007 dopo che la riforma del lavoro con la quale poteva sembrare che il contratto di lavoro subordinato andasse inteso a tempo determinato. In questa sezione del sito trovi tutte le novità in materia, gli approfondimenti e gli incentivi alle imprese che assumono.

Pubblicato in Gazzetta Ufficiale (GU Serie Generale n.54 del 6-3-2015) il Decreto Legislativo attuativo del Jobs Act che dà il via al nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, entrato ufficialmente in vigore dal 7 marzo 2015. Questo significa che la nuova normativa si applica a tutti i contratti stipulati dal 7 marzo 2015 in poi.

Per gli assunti a tempo indeterminato con qualifica di operaio, impiegato e quadro, la disciplina delle tutele crescenti sostituirà il vecchio articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Le nuove regole sanzionatorie in caso di licenziamento nullo, illegittimo o inefficace contenute nel decreto legislativo 23/2015 si applicano in primis agli assunti dalle aziende grandi, cioè quelle con più di 15 dipendenti nelle unità produttiva site nello stesso comune, o più di 60 a livello complessivo.

Il nuovo regime si applica altresì ai nuovi assunti dalle cosiddette organizzazioni di tendenza, cioè da quei datori di lavoro che svolgono attività senza fine di lucro, nonché, limitatamente all'ipotesi dell'ingiustificato licenziamento per motivo oggettivo, e in forma dimezzata, ai nuovi lavoratori delle piccole aziende.

Con le assunzioni effettuate da oggi i datori di lavoro potranno cumulare le due agevolazioni previste dalla legge delega 183/2014, e cioè l'applicazione del regime delle tutele crescenti, nonché l'esonero contributivo introdotto dalla legge di Stabilità 2015 (massimo 8.060 euro all'anno per tre anni). I due interventi dovrebbero infatti rimuovere i limiti legati al contratto a tempo indeterminato, quale contratto economicamente oneroso e dal quale il datore è impossibilitato a recedere, limiti che avevano di fatto costretto le aziende a scegliere forme contrattuali alternative.

Grazie all'importante sconto contributivo, non riconosciuto soltanto per i dipendenti già titolari di un contratto a tempo indeterminato nei 6 mesi antecedenti, il contratto a tempo indeterminato è diventato quello meno oneroso, sia se confrontato ai contratti a termine (soggetti altresì al contributo addizionale dell'1,4%, salvo specifiche deroghe), sia se paragonato alle co.co.co che sopravviveranno dopo l'abrogazione delle collaborazioni a progetto.

Con l'introduzione delle tutele crescenti, il contratto a tempo indeterminato non sarà più vissuto dall'imprenditore come una mancanza di libertà economica, in quanto il nuovo apparato sanzionatorio limita le ipotesi di reintegra a casi gravemente illegittimi (licenziamento nullo o licenziamento disciplinare in presenza di fatto materiale insussistente), e individua gli specifici rischi economici a cui il datore di lavoro si espone in caso di licenziamento ingiustificato (massimo 24 mensilità ridotte a 18, se il lavoratore accetta la nuova proposta di conciliazione).

Senza contare il fatto che rimane l'unico contratto che non origina contenziosi connessi al suo inquadramento, a differenza di quanto succede per i contratti di lavoro autonomo.

Secondo uno studio della UIL il rischio sarebbe legato alla combinazione tra lo sconto sui contributi a carico delle imprese per i primi tre anni di assunzione e l’abolizione dell’articolo 18. Gli indennizzi previsti dal contratto a tutele crescenti sarebbero infatti di molto inferiori agli sgravi fiscali previsti dalla Legge di Stabilità per chi assume. Se questo da una parte incentiverà l’occupazione dall’altra lascerà le aziende libere di licenziare, anche senza giusta causa, dopo tre anni. Nel caso in cui il datore di lavoro assumesse un lavoratore nel 2015 e lo licenziasse a fine anno il saldo risulterebbe positivo di circa 4.390 euro medi. Licenziandolo invece dopo 3 anni il saldo positivo salirebbe a 13.190 euro. Questo considerando uno stipendio medio di 22 mila euro lordi/anno (1.692 euro lordi/mese), con uno sgravio contributivo a favore dell’azienda di circa 6.390 euro. In generale gli ipotetici benefici per i datori di lavoro potrebbero variare dai 763 euro ai 5 mila euro se si licenzia entro il primo anno, mentre se si licenzia alla fine dei 3 anni i benefici variano dai 12 ai 15 mila euro.




martedì 3 marzo 2015

Dubbi di costituzionalità sul contratto di lavoro a tutele crescenti



Con la legge delega sul lavoro n. 183/2014 viene introdotto il contratto a tempo indeterminato  a tutele crescenti per i lavoratori assunti dopo l'entrata in vigore. Comunque si contesta  appunto la creazione del  dualismo di categorie di lavoratori, quelli che soggiacciono alla nuova disciplina e coloro ai quali continuerà ad applicarsi la vecchia formulazione dell'articolo 18. Un altro problema nasce dal fatto che il decreto attuativo in materia di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti  si applica anche  nei casi di “conversione” - successiva all'entrata in vigore del decreto - di contratti a tempo determinato o di apprendistato a tempo indeterminato ma non è chiaro che  se ciò valga anche per i lavoratori reintegrati in azienda all'esito di un procedimento giudiziale.

Jobs Act e il nuovo contratto a tutele crescenti: quali novità concrete introduce, a chi si applica, cosa comporta per lavoratori e aziende?

Il nuovo contratto a tutele crescenti è il presupposto che il contratto a tempo indeterminato, pur cambiando nome, rimane pressoché invariato rispetto al passato, cambiano sono le tutele rispetto al licenziamento del lavoratore, ovvero le tutele reali ed obbligatorie, che fino ad ora erano garantite per la generalità dei lavoratori dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori L. 300/1970 e dalla L. 604/1966.

Vediamo a chi si applica:
tutti i lavoratori assunti con contratti a tempo indeterminato stipulati a partire dal 1° marzo 2015;

per tutte le stabilizzazioni di apprendistato, ovvero per le trasformazioni di contratti da tempo determinato in indeterminato, avvenute dal 1° marzo 2015;

nel caso in cui una o più assunzioni a tempo indeterminato determinano il superamento in azienda della soglia del numero di 15 dipendenti, la nuova disciplina si applicherà a tutti, anche ai vecchi dipendenti;

come specificato nel testo di legge la nuova normativa dovrà essere applicata anche ai datori di lavoro non imprenditori, che svolgono senza fine di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto.

Nello specifico, per quanto riguarda i lavoratori, tale contratto sostituisce tutte le forme di contratto di lavoro attualmente vigenti, per cui un’azienda che vuole assumere deve farlo utilizzando o il contratto a tutele crescenti oppure a tempo determinato o con il nuovo apprendistato.

In questa prospettiva, i lavoratori nel 2015 saranno quindi solo dipendenti, a tempo indeterminato o a tempo determinato, oppure, autonomi con partita IVA che svolgeranno la propria attività autonomamente.

Per i neoassunti con questa tipologia non varrà l’articolo 18, quindi il lavoratore non avrà diritto al reintegro nel caso di licenziamento ingiustificato (a meno che non sia discriminatorio o uno dei rari casi di licenziamento disciplinare che saranno individuati nei decreti delegati).

Al posto del reintegro il lavoratore avrà diritto a un indennizzo che cresce con il crescere dell’anzianità lavorativa (appunto un’indennità crescente in funzione agli anni di servizio,  per ogni anno di lavoro oltre al riconoscimento da parte dello Stato dell’indennità di disoccupazione ASpI).

Se, ad esempio, un lavoratore neoassunto con contratto a tutele crescenti e con stipendio da 1.200 euro al mese dovesse lavorare per due anni, potrà poi essere licenziato liberamente dall'azienda dietro il versamento di un’indennità di poco più di 3.000 euro, nel migliore dei casi di quasi 5 mila euro.

I contenuti di larga parte dei principi e dei criteri direttivi contenuti nella legge delega ha già spinto molti commentatori ad invocare un vaglio di costituzionalità da parte della Corte costituzionale. Il tema si pone, evidentemente, in ragione di quanto previsto dall’art. 76 della Costituzione, il quale ammette la delega dell’esercizio della funzione legislativa al Governo soltanto “con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”.

La Corte ha, in effetti, specificato che “le direttive, i principi ed i criteri servono, da un verso, a circoscrivere il campo della delega, sì da evitare che essa venga esercitata in modo divergente dalle finalità che l’hanno determinata, ma, dall’altro, devono consentire al potere delegato la possibilità di valutare le particolari situazioni giuridiche da regolamentare. In particolare, la norma di delega non deve contenere enunciazioni troppo generiche o troppo generali, riferibili indistintamente ad ambiti vastissimi della normazione oppure enunciazioni di finalità, inidonee o insufficienti ad indirizzare l’attività normativa del legislatore delegato” (così C. Cost., n. 158/1985).

La Corte costituzionale si è più volte mossa verso una censura sulla costituzionalità dei decreti delegati per estraneità della disciplina regolatoria stabilita nel decreto delegato in raffronto con l’oggetto della delega, come pure per l’estraneità dell’oggetto rispetto ai contenuti della delega. In effetti, “l’impossibilità di individuare nella legge di delegazione un’idonea base della normativa impugnata ne comporta quindi la dichiarazione di illegittimità costituzionale per violazione dell'art. 76 della Costituzione”, peraltro “il sindacato di costituzionalità sulla delega legislativa si esplica attraverso un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli: l'uno, relativo alle norme che determinano l'oggetto, i principi e i criteri direttivi indicati dalla delega, tenendo conto del complessivo contesto di norme in cui si collocano e si individuano le ragioni e le finalità poste a fondamento della legge di delegazione; l'altro, relativo alle norme poste dal legislatore delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i principi ed i criteri direttivi della delega”.

D’altro canto, proprio con riguardo alle deleghe volte al riordino e al coordinamento di una specifica disciplina normativa  la Corte ha già avuto modo di pronunciarsi per riconoscere che se la delega volta riordino e al coordinamento della materia non contiene l’enunciazione esplicita di principi ai quali il Governo deve specificamente uniformarsi, l’attività del legislatore delegato resta limitata e la delega va intesa “in senso minimale”, per cui le nuove disposizioni dovranno avere carattere di sostanziale conferma di quelle vigenti prima del riordino.





giovedì 15 gennaio 2015

Jobs Act e la tutela del licenziamento



Riguardo la comparazione della nuova procedura di licenziamento e delle sue tutele in rapporto all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, ci interessa esaminare pochi ma complessi articoli.

E’ bene precisare che la normativa è di difficile lettura e che, quindi, le deduzioni qui riportate potrebbero subire modifiche interpretative appena si formerà una nuova giurisprudenza in materia.

E’ importante sapere che la nuova tutela dal licenziamento non si applicherà a chi ha già un contratto di lavoro ma solo a chi verrà assunto successivamente all’entrata in vigore del decreto, tranne in un caso: i datori di lavoro che impegnano meno di 16 dipendenti possono far applicare la nuova tutela a tutti i propri dipendenti se, successivamente all’entrata in vigore del D.Lgs. in costruzione, assumeranno nuovi lavoratori fino a raggiungere il fatidico numero complessivo di 16 impiegati, secondo quanto previsto dai commi 8 e 9 dell’art. 18.

La dicitura: “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”, parrebbe che la nuova normativa predisponga delle tutele via via sempre più crescenti a favore dei lavoratori. Ma effettivamente non è così.

La tutela è peggiorativa rispetto a quella apprestata dall’art. 18 perciò potrebbe essere intitolata nuovamente a “tutele decrescenti”.

Comunque se si intende di premiare le aziende che assumono lavoratori fino a raggiungere la soglia dei 16 dipendenti, significa che licenziare sarà più facile rispetto al regime dell’art. 18.

Non solo. Chi impedirà al datore una volta raggiunta la soglia di 16 dipendenti e aver ottenuto l’applicazione della nuova procedura, di liberarsi dei lavoratori neoassunti?

La norma tace sul punto ma la risposta è ovvia.

La presenza di un doppio binario nella tutela dei lavoratori licenziati, profuma di incostituzionalità.

E’ vero che i lavoratori tutelati dall’art. 18 andranno scemando nel tempo, ma il doppio binario durerà per decenni a meno che il Governo non abbia in mente di procedere gradualmente, appena raggiunta la calma sociale, ed attraverso successivi decreti legislativi o decreti legge, di applicare la nuova tutela a sempre più settori lavorativi fino a ricomprenderli tutti.

Licenziamento discriminatorio. L’art. 18 dispone la nullità del licenziamento per discriminazione determinato per motivi di credo politico, di fede religiosa, per l’appartenenza ad un sindacato o ad un’associazione e per la partecipazione ad esse oltre che effettuato in concomitanza col matrimonio, durante la gravidanza e la maternità o la paternità oltre che per motivi illeciti del contratto. In questo caso il giudice annulla il licenziamento a prescindere dal numero di impiegati assunti (tanto è vero che viene tutelato anche il dirigente) e dispone la reintegrazione nel posto di lavoro oltre il pagamento di un’indennità (chiamata erroneamente e contraddittoriamente “risarcimento del danno”) pari all’ultima retribuzione di fatto percepita moltiplicata per il tempo che il lavoratore ha trascorso senza lavorare. Anche se è rimasto disoccupato per meno di 5 mesi, è comunque dovuta un’indennità lorda di 5 mensilità. Questa tutela definita “reale” si applica anche in caso di licenziamento intimato verbalmente. Decade tutta la tutela se il lavoratore non riprende servizio entro 30 giorni dall’invito rivoltogli dal datore ovvero decade dal diritto di reintegrazione se chiede il pagamento di un’indennità di rinuncia che è pari a 15 mensilità nette.

Anche il nuovo D.Lgs. tutelerà il licenziamento discriminatorio, come prima precisato, oltre agli altri casi di nullità di legge (quindi anche i casi di cui all’art. 1345) e seguirà perfettamente la procedura dell’art. 18. Anche se il D.Lgs. non prevede che tale tutela si applichi al dirigente, è probabile che la giurisprudenza provvederà ad integrare questa lacuna, sempre che risulti tale e che non sia invece voluta.

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo, soggettivo e giusta causa

Dobbiamo premettere, la differenza tra i tre diversi istituti, che per giustificato motivo oggettivo si intende la ragione inerente l’attività produttiva dell’azienda, l’organizzazione del lavoro e il suo regolare funzionamento. Ciò riguarda i motivi legati all’esistenza e all’unità dell’azienda soprattutto in ragione della produzione (es. soppressione di un reparto o un ramo dell’azienda) e della crisi aziendale e alla sua strutturazione organizzativa (es. razionalizzazione dei sistemi o delle fasi produttive).

Il licenziamento per cause oggettive è attuato quando non è possibile riutilizzare il dipendente in altre mansioni Le motivazioni soggettive sono invece legate al comportamento del lavoratore è possono essere annoverate alle regole definite dal Codice disciplinare. La giusta causa è invece un motivo che determina la totale perdita di fiducia da parte del datore per comportamento ingiustificabile del lavoratore e che costringe il datore licenziamento in tronco o senza preavviso. Premesso ciò, bisogna evidenziare che l’art. 18 disciplina esclusivamente il licenziamento dettato da motivi soggettivi e da giusta causa ma non quello determinato da motivi oggettivi. Nelle situazioni regolate dall’art. 18, il giudice annulla il licenziamento e ordina la reintegrazione nel posto di lavoro quando è accertato che il fatto posto a ragione del licenziamento, che sia una crisi aziendale (oggettivo) o un’infrazione disciplinare (soggettivo) o una giusta causa (furto), è falso o inesistente o inconsistente, almeno nei contenuti descritti dalla parte datoriale ed anche quando non viene rispettato il principio di proporzionalità della sanzione (quando si punisce con il licenziamento un’infrazione che, invece, doveva essere punita con una sanzione conservativa del posto di lavoro come può essere per esempio la sospensione dal servizio). In aggiunta alla tutela reale è prevista quella obbligatoria sempre calcolata sulla retribuzione mensile moltiplicata per il tempo di disoccupazione ma non oltre le 12 mensilità.

Il datore deve anche pagare, a parte, i contributi previdenziali e assistenziali maturati nel periodo di disoccupazione.

Anche in questo caso il lavoratore può optare per il pagamento dell’indennità di rinuncia. Nel caso in cui il fatto posto a ragione del licenziamento (per giustificato motivo soggettivo o giusta causa) risulta accertato nei termini espressi dal datore ma che per altri motivi non sia possibile accertare il giustificato motivo o la giusta causa ovvero non ne ricorrono gli estremi nella loro puntuale definizione, il giudice dichiara comunque efficace il licenziamento e condanna il datore all’indennità in parola tra un minimo di 12 ad un massimo di 24 mensilità.

Se il licenziamento è invece dichiarato dal giudice inefficace perché il lavoratore ha chiesto nei termini le motivazioni del proprio licenziamento e il datore non lo ha reso per iscritto entro 7 giorni, il giudice deve comunque dichiarare risolto il rapporto di lavoro (e, quindi, il licenziamento) ma l’indennità del danno è commisurata tra un minimo di 6 ad un massimo di 12 mensilità a meno che il lavoratore non formuli in ricorso, vittoriosamente, anche un difetto di motivazione nel merito del licenziamento. In questo caso il petitum del ricorso porta l’oggetto del licenziamento alla prima tutela prevista dall’art. 18, quindi se il fatto addebitato è insussistente, oltre all’indennità pari al massimo a 12 mensilità, viene ordinata la reintegrazione, salva la rinuncia indennizzata richiesta dal lavoratore netro 30 giorni. Ma se il fatto risulta acclarato nonostante non ricorrano gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, il licenziamento verrà confermato e l’indennità maggiorata da 12 a 24 mensilità.

La nuova procedura di licenziamento prevede sempre la tutela dei soli casi di giustificato motivo soggettivo e giusta causa. Il giudice annulla il licenziamento solo se il fatto contestato ovvero posto a ragione del licenziamento risulterà, direttamente e senza dubbio, insussistente. La formula adottata non permette di interpretare la locuzione impiegata in maniera diversa dalla stretta osservanza di un impianto probatorio difensivo processualei, diretto e non indiretto nel senso che la falsità del fatto cioè la diversa ricostruzione dell’evento addebitabile al lavoratore dovrà trovare una incontrovertibile logica. Quanto richiesto dal legislatore affinché il giudice annulli il licenziamento con effetti reintegrativi pone non pochi timori sulla reale possibilità di subornare i testi. La prova per testi, per questa tipologia di licenziamento, assume primaria importanza perché permette di ricostruire i fatti secondo la visione dei colleghi (e non solo) anziché delle parti. Quanto testimonieranno i colleghi riverbererà sulla valutazione che opererà il giudice sui fatti, per decidere se quanto contestato è vero o è falso, è avvenuto oppure non si è realizzato per nulla o quantomeno non nelle circostanze o nei modi descritti dal datore di lavoro.

Nel caso in cui il fatto risulterà insussistente ovvero anche insufficiente o attenuato rispetto alla gravità descritta, oltre all’ordine di reintegrazione, il datore sarà obbligato ad indennizzare la vittima versandogli una somma pari alla retribuzione mensile per tutto il periodo di disoccupazione non superiore a 12 mensilità oltre i contributi. Anche in questo caso è possibile optare per l’indennità di rinuncia. La critica ascrivibile alla norma riguarda l’applicazione della tutela reale al solo caso di insussistenza del fatto e non anche ai vizi della procedura disciplinare. La procedura disciplinare è costituita anche da una serie di termini perentori posti a tutela dei principi di tempestività, celerità, certezza del diritto e legalità. Principi che potranno essere tranquillamente violati dal datore di lavoro se la finalità del licenziamento sarà quella di liberarsi definitivamente del lavoratore scomodo. Non solo.

Se il datore dovesse violare il diritto di difesa del lavoratore incolpato, per esempio rifiutandosi di ascoltarlo prima di comminare la sanzione disciplinare il licenziamento risulterebbe comunque efficace.

Licenziamento oggettivo e per inidoneità psicofisica

La legge 12.03.1999 n. 68, disciplina l’idoneità psicofisica del lavoratore. L’art. 18 tutela il licenziamento operato sui lavoratori che divengono inabili allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia anche cagionata per inadempimento datoriale dimostrata in sentenza per violazione del D.Lgs. n. 81/2008 ed altre norme in materia di sicurezza e igiene del lavoro (colpa per negligenza e imprudenza) che abbia ridotto la capacità lavorativa inferiore al 60%.

In questo caso prima di adottare la soluzione del licenziamento deve essere tentato il repechage.

Solo quando la Commissione medica di verifica accerti l’inidoneità a proficuo lavoro, la tutela dell’art. 18 cessa di operare. Quando il giudice accerta che il lavoratore licenziato non rientra assolutamente tra le tipologie sopra indicate o che la lavoratrice è stata licenziata durante la gravidanza o il puerperio, annulla il licenziamento reintegrando il lavoratore e commina un’indennità mensile per il periodo di disoccupazione, al massimo di 12 mensilità oltre ai contributi.

Riguardo gli altri motivi oggettivi, il comma 7 dell’art. 18 ci riporta alla insussistenza del fatto come scopo per la tutela reale ed obbligatoria già considerata. Negli altri casi in cui accerta che non ricorrono gli estremi per addebitare un motivo oggettivo, conferma il licenziamento e commina un’indennità da 12 a 24 mensilità. Questa tutela, così come è stata modificata dalla riforma Fornero, è peggiorativa rispetto a quella precedentemente.

La norma prevedeva che in ogni caso in cui non ricorressero gli estremi del licenziamento (e, quindi, non solo in caso di insussistenza del fatto contestato o dedotto dal datore), operasse la reintegra entro 3 giorni o, alternativamente, il risarcimento del danno attraverso un’indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità retributive. L’indennità era di 10 mensilità se il lavoratore aveva un’anzianità di servizio superiore a 10 anni e di 14 mensilità se il lavoratore aveva oltre 20 anni di anzianità solo però se l’azienda impiegava almeno 16 lavoratori.

Licenziamento in genere con vizi procedurali

L’art. 18 permette di dichiarare inefficace ogni licenziamento che non è stato fondato sulla legalità. Per legalità si intende il rispetto della parte datoriale delle prescrizioni di legge che hanno contenuto precettivo. Non specificare i motivi sottesi il licenziamento entro 7 giorni dalla richiesta intimata dal lavoratore, trasmettere una contestazione di addebito oltre i termini previsti dalla legge o dalla contrattazione collettiva, sorvegliare con le telecamere il lavoro, sentire il lavoratore prima di comminargli la sanzione, allontanare dall’audizione il procuratore del lavoratore o, ancor peggio, non informare il lavoratore dei propri diritti di difesa incorporando nella contestazione quanto prescritto dallo Statuto o dalla contrattazione, costituiscono, soprattutto per i giuristi amanti del diritto, una sopraffazione del potere legislativo che poco ha a che fare con i principi costituzionali. Spero che la Corte Costituzionale intervenga per limare alcune regole che, di fatto, pongono il lavoratore ostaggio del potere e del conformismo aziendale che non sempre aiuta lo sviluppo della libera personalità del lavoratore o aiuta a costruire un ambiente sereno.

Il nuovo D.Lgs. disporrà che, nel caso in cui il datore ometta di specificare i motivi richiesti dal lavoratore per sapere perché è stato licenziato, ovvero qualora la procedura disciplinare il datore violi tutte le prescrizioni obbligatorie dettate dalle fasi progressive per definire i termini, i doveri del datore e i diritti del lavoratore, il giudice confermi comunque il licenziamento accontentando il lavoratore deluso dal disprezzo dello Statuto dei Lavoratori con un’indennità pari ad una retribuzione per ogni anno di lavoro prestato ma non superiore a 12 mensilità.

E’ possibile la reintegra e la tutela obbligatoria piena (una retribuzione per tutto il periodo di disoccupazione senza limite) se nel ricorso il lavoratore si ricorda di contestare specificamente la sussistenza del fatto contestato, isolandolo dal contesto per meglio confutarlo. Diversamente il giudice confermerà comunque il licenziamento. Questa regola apre una polemica infinita sulla responsabilità professionale degli avvocati che qui non intendo affrontare. Però se il lavoratore dovesse perdere il posto di lavoro per insufficienza o in conferenza del ricorso, gli effetti potranno essere devastanti. La norma, comunque, è insidiosa. Si dovrebbe permettere al giudice di esaminare a 360° gli elementi costitutivi del licenziamento, impedendo che alla verità sui fatti e al principio costituzionale di giustizia, si anteponga una semplice tecnica difensiva o ancor peggio, una dimenticanza. La riforma tutela ancora i lavoratori licenziati collettivamente (legge 23.07.1991 n. 223) reintegrandoli in caso di talune violazioni procedurali (art. 4, co. 12 e art. 5, co. 1). Per ultimo l’art. 12 ricorda che non è possibile applicare l’art. 18 ai licenziati sotto queste nuove disposizioni.

In conclusione le nuove disposizioni sul licenziamento serviranno ad affossare ancora di più il sindacato che, privato di ogni effettiva capacità d’azione, dovrà ancor più avvicinarsi al datore di lavoro, in un connubio di interessi e accordi finalizzati a non scomparire.

Stupisce come si tolleri la violazione delle legge ad opera del datore di lavoro e si punisca questo affronto con una semplice indennità, come per dire: “fai quello che vuoi, fregatene della legge basta che hai i soldi”.

I licenziati, seppur illegittimamente ma non per insussistenza del fatto o per discriminazione, diventeranno disoccupati, ma Renzi non li abbandonerà visto che l’art. 11 stabilisce che il nuovo Fondo per le politiche attive per la ricollocazione (presso l’INPS) regalerà un voucher che i disoccupati potranno utilizzare un’agenzia per il lavoro così da ottenere la ricerca gratuita di una nuova occupazione, un nuovo addestramento, formazione e riqualificazione; un po’ fantasioso visto l’indice di disoccupazione.

L’unico spiraglio di tutela sembra essere offerto dagli avvocati che dovranno impegnarsi per ricercare cavilli e spunti per applicare la tutela reale ai più disparati casi di licenziamento, più o meno tipici, che la fantasia italiana ha spesso dimostrato di saper creare.

E mentre i sindacati si affanneranno per accattivarsi il datore di lavoro con la speranza di acquietarlo per i casi disciplinari più gravi, il datore farà il vero padrone, deciderà chi colpire e chi tollerare nella più ampia discrezionalità che un paese cosiddetto democratico possa permettere.

Infatti l’art. 5 del nuovo D.Lgs. prevede che il datore, senza motivo, revochi il licenziamento e ripristini il rapporto interrotto. Una specie di miracolo che solo il padrone può decidere di fare o non fare a chi desidera; ma se non vuole alzare il polverone sul licenziamento poco pulito, può offrire al lavoratore al massimo 18 mensilità come buonuscita.



domenica 16 novembre 2014

Contratto di lavoro con tutele crescenti



L’introduzione del contratto unico a tutele crescenti è stabilita dall’articolo 4 della Delega. L’iter parlamentare e il dibattito politico hanno già modificato l’ipotesi originaria di applicarlo solo agli ingressi nel mondo del lavoro (giovani al primo impiego), prevedendo il contratto indeterminato a tutele crescenti per tutti i lavoratori che stipulano un nuovo contratto con un’azienda. Sarebbe quindi esteso a tutte le assunzioni di personale (passaggi da un’azienda all’altra, riassorbimento disoccupati e via dicendo) a tempo indeterminato.

"Il contratto a tutele crescenti è il primo obiettivo che vogliamo portare in porto per fine anno". Lo ha detto il ministro del Lavoro Giuliano Poletti.

Un obiettivo che il ministro Poletti indica per far sì che "a gennaio le imprese e i lavoratori possano utilizzare le scelte che abbiamo fatto nella legge di stabilità di ridurre il costo del lavoro in modo che la percentuale di contratti a tempo indeterminato cresca in maniera importante". Il ministro del Lavoro a proposito del tempi indeterminati ha ricordato che oggi sono il 15% dei nuovi avviamenti: "un numero troppo basso. Noi vogliamo che aumentino percentualmente i contratti a tempo indeterminato a tutela crescente e quindi lo faremo sicuramente per l'inizio dell'anno".

Taddei, conflitto con sindacati non ci fa desistere -  Oggi è in corso "un conflitto un pò troppo intenso, forse, con le organizzazioni sindacali, ma ciò non ci fa desistere. Non siamo spaventati dal pagare quello che può apparire un piccolo prezzo di consenso nel breve periodo, per realizzare il cambiamento". E' quanto sottolinea il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei, intervenendo all'assemblea dell'associazione 'Libertà eguale'. Le riforme del governo, non sono "solo veloci, ma hanno il capitale politico del consenso", aggiunge.

Nel nuovo mondo del lavoro che ha in mente Renzi ci sono solo due forme di lavoro: autonomo e dipendente. Quella dipendente, a sua volta, si suddivide in tempo determinato e tempo indeterminato a tutele crescenti. Quest’ultima dovrebbe essere la forma più diffusa, perché l’azienda sarebbe incentivata a ricorrervi. Come? Con uno sconto sul costo del lavoro rispetto a un contratto a termine. Non solo. Se nella prima fase del contratto a tutele crescenti, poniamo tre anni, l’azienda risolvesse il rapporto di lavoro, dovrebbe restituire allo Stato lo sconto di cui ha beneficiato, perché essendo stato il contratto, alla prova dei fatti, a termine, esso appunto dovrebbe costare di più. Verrebbero così scoraggiati gli imprenditori che volessero fare i furbi mentre i contratti temporanei dovrebbero limitarsi ai soli casi nei quali effettivamente il lavoro si suppone a tempo determinato, per esempio le attività stagionali.

Essendo i contratti a progetto e le altre forme di precariato cancellate, i lavoratori avrebbero tutti gli stessi diritti (minimi di retribuzione, maternità, ferie, ammortizzatori sociali) secondo il tipo di contratto (a termine o a tutele crescenti). Certo, è vero, a meno di sorprese, dovrebbe restare un nucleo forte di lavoratori protetti dal vecchio articolo 18 (circa 6 milioni e mezzo nel privato), poiché il nuovo contratto a tutele crescenti si applicherebbe solo alle assunzioni successive all’entrata in vigore della legge. Ma il bacino dei tutelati dall’articolo 18, anno dopo anno, dovrebbe restringersi. E comunque - sostengono i tecnici del governo, replicando a chi dice che così si approfondirebbe la spaccatura tra giovani e anziani - i giovani che verranno assunti col contratto a tutele crescenti avranno una serie di diritti e ammortizzatori che attualmente non hanno, perché non previsti dalle forme di lavoro precarie o perché lavorano in piccole aziende. Mentre oggi infatti solo il 15% delle assunzioni avviene a tempo indeterminato, nel nuovo sistema abbiamo visto che la stragrande maggioranza dei contratti dovrebbe essere di questo tipo.

Certo, ma a tutele crescenti, che non equivale all’attuale «posto fisso» (nelle aziende con più di 15 dipendenti), dove l’articolo 18, anche se attenuato dalla riforma Fornero, prevede ancora la possibilità di reintegrare i lavoratori. Nel nuovo sistema, invece, il diritto al reintegro resterebbe solo sui licenziamenti discriminatori (fede religiosa, politica, appartenenza sindacale, razza, eccetera) mentre in tutti gli altri casi l’azienda potrebbe licenziare liberamente il lavoratore dietro pagamento di un’indennità economica crescente in rapporto agli anni di servizio prestati (le ipotesi variano da uno a tre mesi di stipendio per anno di lavoro).

La necessità di far passare una ulteriore riforma dell’articolo 18 attraverso le maglie di un nuovo “tipo contrattuale”, quale sarebbe il “contratto di lavoro a tutele crescenti”, complicherebbe invece le cose: non solo, sul piano sistematico, per la difficoltà di concepire un contratto la cui “tipicità” o “specialità” consista nella ridotta applicazione di un importante segmento di disciplina, anziché in una diversa struttura causale o anche solo tipologica; ma anche, sul piano normativo, per la difficoltà di immaginare un regime di maggior protezione, che dovrebbe operare al momento della maturazione del “picco massimo” delle tutele, e che non consista nel ripristino sic et simpliciter del vecchio articolo 18 (quello, beninteso, anteriore alla riforma Fornero).

La veicolazione della riforma dell’articolo 18 attraverso la figura del “contratto di lavoro a tutele crescenti”, insomma, per un verso esaspera la carenza di tutele nella fase della “crescita delle tutele”, e per l’altro irrigidisce eccessivamente le tutele da riconoscersi al termine della fase di “crescita”.

Si tratta, a ben vedere, di un’idea che presuppone il superamento della logica gradualistica insita nella riforma Fornero: una logica ragionevole e praticabile, che è stata, forse, affossata dalle resistenze opposte da una parte importante della dottrina e della giurisprudenza.



mercoledì 17 settembre 2014

Contratto di lavoro a tutele crescenti per i nuovi assunti



"Per le nuove assunzioni" viene previsto "il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all'anzianità di servizio". E' il senso dell'emendamento presentato dal governo al Jobs act ed in particolare all'articolo 4 sul riordino delle forme contrattuali.

Il contratto di lavoro a tutele crescenti è una proposta di riforma della disciplina delle assunzioni e dei licenziamenti che è ciclicamente emersa nel recente passato. Nella mente del governo, si tratta di un tipo di contratto a tempo indeterminato che congela le tutele legate all'articolo 18 nella fase iniziale del rapporto di lavoro (che però dovrebbe esser lunga tre anni), per poi introdurre "a crescere" le garanzie per il lavoratore.

Dal contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti per i nuovi-assunti al riordino delle forme contrattuali oggi esistenti e dei rapporti di lavoro ma anche delle ispezioni; fino ad un uso più flessibile delle mansioni, per la tutela del posto di lavoro, ed al salario minimo, esteso ai co.co.co. Sono le principali novità del disegno di legge delega sul lavoro, il Jobs act.

Riordino forme contrattuali e rapporti lavoro. Viene indicato l'obiettivo di arrivare ad un "Testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e - aggiunge l'emendamento - dei rapporti di lavoro". Obiettivo è sfoltire le decine di forme contrattuali e le norme.

Modifiche su controlli a distanza. Si introduce "una revisione" della disciplina dei controlli a distanza (vietati dall'articolo 4 dello Statuto dei lavoratori con impianti audiovisivi o altre apparecchiature), aprendo all'utilizzo delle nuove tecnologie per la 'sorveglianza' ed il 'tele-lavoro', tutelando comunque "dignità e riservatezza" del lavoratore.

Demansionamenti. Revisione anche della disciplina delle mansioni (l'articolo 13 dello Statuto dei lavoratori prevede che il lavoratore "deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto"). In questo modo si va verso un utilizzo più 'flessibile' delle mansioni, "in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale con l'interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita, prevedendo limiti alla modifica dell'inquadramento".

Salario minimo anche a Co.co.co. L'introduzione, "eventualmente anche in via sperimentale, del compenso orario minimo" che il Jobs act già inizialmente prevedeva tra le deleghe al governo, applicabile ai lavoratori subordinati viene estesa ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa. A dettagliarlo sarà il decreto delegato successivo. Co.co.co: salario orario minimo in settori senza contratto nazionale. Infatti è prevista l'introduzione del compenso orario minimo, , nonché nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale, previa consultazione - conclude l'emendamento - delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano sociale».

Riordino anche dell'attività ispettiva, in arrivo anche la razionalizzazione dell'attività ispettiva nelle aziende con l'introduzione di una Agenzia unica per le ispezioni di lavoro. La semplificazione dei controlli sarà possibile «attraverso misure di coordinamento ovvero attraverso l'istituzione di una Agenzia unica per le ispezioni del lavoro, tramite l'integrazione in un'unica struttura dei servizi ispettivi del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, dell'Inps e dell'Inail, prevedendo strumenti e forme di coordinamento con i servizi ispettivi delle Asl e delle Arpa».

Sarà il governo, nell'ambito dell'esercizio della delega, ha spiegato il sottosegretario al Lavoro, Teresa Bellanova, a varare i decreti delegati «entro il termine di sei mesi dalla data di entrata della presente legge» prevedendo in essi la gradualità delle tutele e il periodo di contratto. Con l'emendamento il Governo viene delegato ad emanare, entro sei mesi, un «testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro» per «rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione».

A differenza delle prima versione del testo, il contratto a tutele crescenti non sarà più opzionale e non riguarderà più solo l’inserimento nel mondo del lavoro ma anche il reinserimento. Oltre alla individuazione del contratto a tutele crescenti come il canale normale per il tempo indeterminato, il Governo è delegato a compiere una analisi di «tutte le forme contrattuali esistenti» per valutarne la «effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo» anche in vista di una «semplificazione delle medesime tipologie contrattuali».

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