martedì 23 settembre 2014
Bancari e motivi di licenziamento per giusta causa
Per la Cassazione n. 19612/2014 legittimo il licenziamento del direttore di banca che informa il cliente degli accertamenti antievasione in corso. La sentenza della Corte di Cassazione Civile, sez. Lav., del 17 settembre 2014, n. 19612 stabilisce che è legittimo il licenziamento per giusta causa di un direttore di banca che informa un cliente dell'esistenza di un'indagine in corso in quanto lede l'affidamento della banca sul futuro corretto adempimento, da parte del dipendente, delle delicate mansioni affidategli, a maggior ragione , come nel caso in specie, quelle relative alle misure di legge antievasione e antiriciclaggio di competenza degli istituti finanziari.
Inoltre un dipendente di una banca che si allontana per la pausa caffè lasciando incustodita la cassa può essere licenziato; questo comportamento non può essere scusato neanche invocando l'esistenza di una prassi interna che consente l'assenza per brevi periodi. Questa è una decisione della Cassazione con la sentenza n. 7829, con la quale è stata conclusa una lunga battaglia giudiziaria.
Il dipendente di una banca aveva rifiutato di eseguire un'operazione richiesta da un cliente, e soprattutto si era allontanato temporaneamente dal posto di lavoro per prendere il caffè, lasciando aperta la cassa, chiedendo ai colleghi di occuparsene in sua assenza. Per giustificare le proprie mancanze, il dipendente aveva sostenuto di non possedere le cognizioni sufficienti per compiere l'operazione, nel primo caso, e di aver seguito una prassi aziendale che consentiva la pausa caffè, nel secondo caso.
Il licenziamento del dipendente era stato giudicato illegittimo in primo grado e in appello, ma la Cassazione aveva bocciato queste decisioni, ritenendo che il comportamento del dipendente era connotato della sufficiente gravità per integrare la giusta causa. A seguito di tale decisione, la Cassazione ha rimandato gli atti alla Corte d'Appello, che ha riesaminato il caso confermando, questa volta, il licenziamento. Questa decisione è stata nuovamente impugnata per Cassazione, dal dipendente, ed è stata posta la parola fine.
Secondo la pronuncia, la gravità dei comportamenti tenuti dal dipendente deve essere valutata non solo rispetto all'interesse patrimoniale del datore di lavoro, ma con riferimento alla possibile lesione dell'interesse pubblico alla sana e prudente gestione del credito. Questo interesse è stato compromesso dalla condotta del dipendente che ha violato tutte le regole di maneggio e custodia del denaro prevista dalla banca, allontanandosi dal suo posto di lavoro. Né il comportamento è scusabile per il fatto che il dipendente aveva seguito una prassi interna che legittimava l'assenza per la pausa caffè, in quanto l'invocazione delle regole di buon senso, diverse da quelle formali previste dal datore di lavoro, si concretizza in una negazione del potere organizzativo e disciplinare del datore di lavoro.
Altra ipotesi in cui la Corte di Cassazione a un giudizio costante nel ritenere che i fatti posti a fondamento del licenziamento per giusta causa devono rivestire il carattere di grave negazione dell’elemento fiduciario e la valutazione sulla proporzionalità del licenziamento deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura ed alla qualità del singolo rapporto, nonché alla posizione delle parti ed all’affidamento richiesto dalle specifiche mansioni svolte dal dipendente.
In particolare, la Corte di Cassazione ha ripetutamente affermato che, nell’ipotesi di licenziamento disciplinare del dipendente di un istituto di credito, l’idoneità del comportamento contestato a ledere il rapporto fiduciario deve essere valutata con particolare rigore ed a prescindere dalla sussistenza di un danno effettivo per il datore di lavoro, rilevando, in tal caso, la lesione dell’affidamento che, non solo il datore di lavoro, ma anche il pubblico, ripongono nella lealtà e nella correttezza del dipendente medesimo.
Nell’ambito delle fattispecie di licenziamento per giusta causa è stata più volte esaminata la rilevanza disciplinare dell’apposizione di firme apocrife, che, evidentemente, costituisce una frequente modalità di illecito disciplinare.
In particolare, la Corte ha affermato che può essere legittimo il licenziamento di un dipendente bancario che ha falsificato la firma della fidanzata per effettuare operazioni di prelievo dal conto corrente della stessa..
Nello stesso senso, la Corte di Cassazione ha ribadito, pur nell’ambito di più ampie contestazioni disciplinari, che deve comunque ritenersi illegittimo il comportamento del dipendente di un istituto di credito che aveva falsificato la firma della madre per incassare assegni non trasferibili intestati a quest’ultima.
Con una più recente sentenza la Corte di Cassazione ha, invece, affermato l’illegittimità del licenziamento di una dipendente che aveva falsificato la firma del convivente, rilevando che il giudice di primo grado non avrebbe dovuto ammettere la consulenza tecnica (che, confermando la perizia di parte già predisposta dalla Banca datrice di lavoro nell’ambito del procedimento disciplinare, aveva accertato la falsità della firma apposta sul bonifico bancario), in quanto la firma apposta sul bonifico era stata riconosciuta come autentica dal (non più) convivente della dipendente, che era stato sentito come testimone nell’ambito del giudizio di primo grado.
Con un’altra recente sentenza (n. 5006 del 28 febbraio 2013) la Corte di Cassazione ha giudicato sul licenziamento disciplinare di un dipendente che aveva apposto ben 240 firme apocrife, aveva disposto la vendita di titoli sulla base di ordini firmati da soggetti differenti da quelli richiedenti ed aveva raccolto, altresì, ordini di compravendita di titoli con sottoscrizioni non conformi a quelle depositate con il modello di firma. Nella fattispecie in esame la Corte di Cassazione ha confermato la congruità della motivazione fornita dalla Corte di merito, ritenendo sproporzionata la sanzione del licenziamento disciplinare, in quanto il dipendente non aveva ricevuto alcun vantaggio personale da tale comportamento, che era stato attuato per far fronte ad un sovraccarico di lavoro oggettivamente aggravato dalla lentezza dei sistemi operativi, dovendosi, altresì, tener conto che le operazioni disposte dal lavoratore erano sottoposte al controllo del Direttore della filiale.
La Suprema Corte sembra aver adottato, un criterio di valutazione meno rigoroso rispetto a precedenti decisioni, in quanto ha attribuito valore esimente alle specifiche condizioni di lavoro nelle quali il dipendente operava, senza considerare, invece, la possibilità che i soggetti interessati potessero contestare le operazioni effettuate dal dipendente in quanto prive di firma autentica.
Nella suddetta sentenza assume rilevanza, altresì, il controllo effettuato dal Direttore della filiale, che, verosimilmente, era presente anche nelle fattispecie in cui la Corte di Cassazione ha invece censurato il comportamento del dipendente, confermando la legittimità del licenziamento per giusta causa; peraltro, nella sentenza sembra essere stato disatteso un principio affermato in precedenza, secondo cui, ai fini della proporzionalità del licenziamento del dipendente di un istituto di credito, non assume rilevanza la mancanza di un danno per il datore di lavoro.
Per concludere, la rilevanza disciplinare delle firme apocrife apposte dal dipendente di un istituto di credito sembra debba valutarsi anche con riferimento alle concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, mentre sembra assumere minore rilevanza il più generale interesse ad un corretto comportamento del dipendente laddove non emerga un vantaggio strettamente personale.
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lunedì 22 settembre 2014
Accordo di integrazione. La richiesta del permesso di soggiorno
È in vigore dal 10 marzo 2012 un nuovo strumento offerto agli immigrati che scelgono di vivere nel nostro Paese per avviare un reale percorso di integrazione attraverso la conoscenza della lingua italiana e dei principi civici fondamentali.
L’accordo di integrazione, previsto dall’articolo 4 bis del 'Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero ' (Dlgs 286/1998) è un accordo fra lo Stato italiano ed il cittadino straniero che entra in Italia per la prima volta.
Con questa nuova disciplina anche l’Italia vuole perseguire la strada, già avviata in altri Stati europei, di stipulare un patto con un reciproco impegno a fornire da parte dello Stato gli strumenti della lingua, della cultura e dei principi generali della costituzione italiana e da parte del cittadino straniero, l’impegno al rispetto delle regole della società civile al fine di perseguire, nel reciproco interesse, un ordinato percorso di integrazione basato sul principio dei crediti.
Lo straniero si impegna, inoltre, a rispettare l'insieme dei doveri individuati dalla Carta dei valori della cittadinanza e dell'integrazione varata dal Governo italiano nel 2007.
Il regolamento, emanato con decreto del Presidente della Repubblica 14 settembre 2011, n. 179, con il quale vengono fissati i criteri e le modalità per la sottoscrizione dell’accordo da parte dello straniero, è in vigore dal 10 marzo 2012. Il regolamento contiene l'articolazione per crediti, le modalità e gli esiti della verifiche cui l'accordo è soggetto, l'istituzione dell'anagrafe nazionale degli intestatari degli accordi di integrazione ed i casi straordinari per i quali non sarà obbligatoria la sottoscrizione dell’accordo.
L’accordo di integrazione è rivolto agli stranieri di età superiore ai sedici anni che entrano in Italia per la prima volta e si stipula presso lo sportello unico per l’immigrazione della prefettura o presso la questura contestualmente alla richiesta di un permesso di soggiorno di durata non inferiore a un anno.
Al momento della sottoscrizione l’accordo viene redatto in duplice originale di cui uno è consegnato allo straniero nella lingua da lui indicata. Per lo Stato, l'accordo è firmato dal prefetto o da un suo delegato.
All'atto della stipula allo straniero sono assegnati sedici crediti che potranno essere incrementati mediante l’acquisizione di determinate conoscenze (lingua italiana, cultura civica e vita civile in Italia) e lo svolgimento di determinate attività (percorsi di istruzione e formazione professionale, titoli di studio, iscrizione al servizio sanitario nazionale, stipula di un contratto di locazione o di acquisto di una abitazione.
A questo punto, il primo passo verso la conferma dei crediti acquisiti sarà la frequentazione di una sessione di formazione civica e di informazione, che avrà una durata variabile da 5 a 10 ore, da sostenere gratuitamente presso gli Sportelli Unici per l’immigrazione delle Prefetture.
L’accordo prevede che entro due anni lo straniero raggiunga la quota di almeno 30 crediti per poter rimanere sul territorio italiano. Questi, oltre ad essere accumulati, potranno essere anche persi in alcuni casi come la commissione di reati o di gravi violazioni della legge.
Per garantire una partecipazione consapevole degli stranieri al raggiungimento di questi obiettivi, è disponibile on line la brochure informativa, il modello ed il testo dell'accordo tradotti nelle lingue più diffuse tra i cittadini immigrati.
Che cosa e' l'accordo di integrazione e cosa prevede?
Impegno di integrazione attraverso lingua italiana ed educazione civica per gli stranieri
L’accordo di integrazione è un adempimento necessario per gli stranieri di età superiore ai sedici anni che entrano in Italia per la prima volta e richiedono un permesso di soggiorno di durata uguale o superiore a un anno. E' un accordo tra l'immigrato e lo stato italiano che prevede da una parte che lo straniero accetti l'impegno ad integrarsi nella comunità italiana attraverso tre strumenti principali , che sono:
a) conoscenza della lingua italiana
b) conoscenza di leggi e usi della comunità italiana
c) impegno a garantire istruzione obbligatoria di eventuali figli minori.
Da parte sua lo Stato si impegna a sostenere il processo di integrazione con adeguate iniziative e procedure.
L'accordo ha una durata standard di un anno alla fine del quale viene verificato il raggiungimento degli obiettivi linguistici e civici. Il mancato raggiungimento comporta la revoca del permesso di soggiorno.
Il raggiungimento degli obiettivi viene misurato in crediti formativi; al momento dell'entrata ogni cittadino straniero si vede attribuire automaticamente 16 crediti . Entro tre mesi dal momento dell'ingresso in Italia viene invitato a partecipare ad un periodo di formazione linguistica e civica che è di fatto obbligatorio in quanto la mancata presenza causa la perdita di 15 crediti.
Chi deve sottoscrivere l’accordo di integrazione?
L'accordo di integrazione riguarda gli stranieri sopra i 16 anni ed è rivolto agli stranieri di età superiore ai sedici anni che entrano in Italia per la prima volta e presentano istanza di rilascio del per messo di soggiorno di durata non inferiore a un anno.
L’accordo, qualora abbia come parte un minore di età compresa tra i sedici e i diciotto anni, è sottoscritto anche dai genitori o dai soggetti esercenti la potestà genitoriale regolarmente soggiornanti nel territorio nazionale.
Per lo Stato, l’accordo è firmato dal Prefetto o da un suo delegato.
L'accordo non è necessario solo in alcuni casi specifici, di seguito elencati:
a) i cittadini stranieri affetti da patologie o da disabilità tali da limitare gravemente l’autosufficienza o da determinare gravi difficoltà di apprendimento linguistico e culturale. Tale condizione deve essere attestata mediante una certificazione rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale;
b) i minori non accompagnati affidati ai sensi dell’articolo 2 della legge 4 maggio 1983, n. 184, e successive modificazioni, ovvero sottoposti a tutela, per i quali l’accordo è sostituito dal completamento del progetto di integrazione sociale e civile di cui all’articolo 32, comma 1-bis, del testo unico;
c) le vittime della tratta di persone, di violenza o di grave sfruttamento, per le quali l’accordo è sostituito dal completamento del programma di assistenza ed integrazione sociale di cui all’articolo 18 del Testo unico dell’immigrazione.
accordo di integrazione, permesso di soggiorno, 30 crediti, istruzione e formazione professionale, titoli di studio
Jobs Act e l'ipotesi di riforma del mercato del lavoro
La prima stesura prevedeva l’introduzione di un contratto unico e indeterminato a tutele crescenti, eventualmente in via sperimentale, per «favorire l’inserimento del mondo del lavoro, con tutele crescenti per i lavoratori coinvolti». Con l‘emendamento approvato, invece, si applicherà per tutte le nuove assunzioni (compreso il reinserimento di un disoccupato) e non più solo al primo impiego.
Di conseguenza, in tutti i casi le tutele crescenti escluderanno la protezione dal licenziamento prevista dall’Articolo 18, prevedendo un’indennità economica (crescente con l’anzianità di servizio) al posto del reintegro (oggi imposto nel licenziamento in cui non si evince la giusta causa). In sostanza si apre la strada verso l’abolizione dell’Articolo 18 per tutte le future assunzioni.
L’emendamento rende più chiaro l’obiettivo di riformare i contratti di lavoro. Il testo originario del ddl delegava il Governo a «misure per il riordino e la semplificazione delle tipologie contrattuali esistenti».
Ora l’Esecutivo è chiamato a formulare:
«un testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro».
Altra differenza, prima si richiamava il rispetto degli «orientamenti annuali dell’Unione europea in materia di occupabilità», mentre ora il riferimento è più genericamente riferito alla: «coerenza con la regolazione comunitaria e le convenzioni internazionali».
Estensione dei contratti di solidarietà alle PMI sotto i 15 dipendenti, offrendo alle imprese la possibilità di utilizzarli non solo per difendere i posti di lavoro in momenti di crisi, ma per creare nuove assunzioni (riducendo le ore dei dipendenti).
Innovazioni in tema di maternità e conciliazione dei tempi di vita e lavoro, introducendo la possibilità di cedere i giorni di ferie non goduti ai colleghi limitatamente a determinate esigenze (cura dei figli minori in particolari condizioni di salute). Regole più semplici per aumentare l’efficacia delle norme contro le dimissioni in bianco, di cui sono spesso vittima le lavoratrici.
Previsti meccanismi premiali per aumentare l’efficienza delle agenzie per l’impiego (pubbliche e private), misure per favorire i disoccupati attraverso i contratti di ricollocamento. In questo filone si inserisce la nuova proposta di Maurizio Sacconi, presidente della Commissione Lavoro al Senato, di introdurre un voucher per remunerare le agenzie in caso di ricollocamento del lavoratore che perde il posto.
"Io sono personalmente favorevole all'abolizione dell'articolo 18 anche perché dobbiamo considerare che è un mantra che in tutto il mondo ci addossano come paese. Parlando in tutto il mondo ci dicono che in Italia non si può investire perché c'e'l'art. 18 e quando assumi un dipendente è per la vita". E' quanto ha detto il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi intervistato da Maria Latella su Sky Tg24.
"Bisogna fare chiarezza: il nostro sistema con le cig speciali e in deroga è sbagliato perchè permette di continuare la finzione che aziende esistano ancora quando invece hanno chiuso e sono decotte. La cassa integrazione deve essere uno strumento importante per aziende in difficoltà ma che abbiamo prospettive di rilancio: la durata dovrebbe essere al massimo di un anno", rileva Squinzi rispondendo ad una domanda sui fondi necessari per allargare gli ammortizzatori.
Il Governo abbia il coraggio politico di spiegarci che cosa vuole fare con la legge delega: ascolti le parti sociali, e poi prenda le sue decisioni". E’ quanto ha detto il segretario generale della Uil, Luigi Angeletti."Si può decidere se starci a sentire o meno ma si abbia il coraggio di spiegarci come in tutti i paesi normali ". Siamo disponibili al dialogo, ma "guai a toccare le forme di tutela che ci sono già" , aggiunge Angeletti: "Un conto è avvicinare due mondi, ma quello che non si può fare è modificare l'art.18 per chi già ce lo ha"
Oltre l’80% delle imprese è favorevole a ridurre i contratti (abolendo in primis il co.co.pro), esprimendo un forte consenso anche sulla riscrittura dello Statuto dei lavoratori ma, a sorpresa, non tutte si schierano per l’abolizione dell’Articolo 18: quasi la metà non lo ritiene necessario o concorda con il diritto al reintegro nei licenziamenti illegittimi a tre anni di contratto; chi invece opta per l’ipotesi di indennità economica, suggerisce di introdurre programmi di ricollocazione professionale. E’ quanto emerge dall‘Osservatorio Permanente sul Mercato del Lavoro di Gi Group Academy in relazione al Jobs Act, condotto su un campione di circa 500 aziende (in maggioranza micro imprese e PMI).
Al centro del Ddl Delega - approvato dalla Commissione Lavoro del Senato, con l’emendamento del governo sul contratto unico a tutele crescenti per tutti - per il 49,5% delle imprese intervistate dovrebbe esserci l’outplacement, ossia il supporto al ricollocamento. Per il 46,6% la pensione anticipata per gli over 60 e per il 45,4% un indeterminato flessibile.
Quasi tutti d’accordo sul riscrivere lo Statuto dei Lavoratori (71,8%) adeguandolo al mutato contesto economico-sociale. Il 17,9% modificherebbe solo mansioni, controllo a distanza e costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali, il 42,5% abolirebbe l’Articolo 18, sostituendo il reintegro con un’indennità e supporto alla ricollocazione professionale, il 32,6% non pensa ci sia bisogno di tutele crescenti (magari per applicare ancora i contratti a termine, meno convenienti con le tutele crescenti?), il 24,9% ne prevedrebbe l’eliminazione per i primi tre anni di assunzione. Per il 10,3% la norma va bene così come è.
Larghissimo consenso sulla necessità di semplificare i contratti (87,4%). I primi da eliminare? Le collaborazioni a progetto (48,4%) e le associazioni in partecipazione (45,3%). Anche dopo il Decreto Poletti (dl 34/2014) in vigore dal 21 marzo, convertito con la legge 78/2014, il 60% delle aziende dichiara di non aver cambiato idea sui contratti da stipulare per le nuove assunzioni, ma di fatto il tempo determinato è aumentato del 19,6% (indeterminato -23,1%), così come tirocini formativi (+17,1%,) e apprendistato (+12,6%).
Queste tendenze nella scelta dei contratti per le nuove assunzioni sembrano da confermarsi anche per il 2015, lasciando poche speranze all’indeterminato. Da segnalare l’intenzione di ricorrere agli incentivi per le assunzioni giovanili: +13% entro fine anno e +18,3% nel 2015. Per quanto riguarda i licenziamenti, aumenteranno del 12% entro fine anno, del 14% nel 2015.
Interessante il capitolo occupazione giovanile. C’è un 45,8% di aziende che riformerebbe ulteriormente l’apprendistato, dando la possibilità di recedere dopo un determinato periodo di tempo (ad esempio un anno), se l’apprendista non viene ritenuto in grado di acquisire le competenze necessarie per ricoprire la posizione. Ma il dato forse più rilevante riguarda la scarsa informazione che le aziende dimostrano di avere per il Piano Garanzia Giovani: il 44% non sanno di cosa si tratti, il 64,5% non sta utilizzando nessuna delle opportunità previste e non prevede di farlo, meno di un’azienda su tre dichiara l’intenzione di ricorrervi nel 2015.
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