mercoledì 21 settembre 2016

INPS: calcolo pensioni reversibilità o superstiti



Alla morte di un pensionato o di un lavoratore assicurato, alcuni dei suoi familiari hanno diritto ad una pensione. Si tratta di una protezione che l'ordinamento giuridico riconosce ai familiari più stretti del defunto quali il coniuge e i figli ed, in subordine, ai suoi genitori, ai fratelli o alle sorelle inabili che trova fondamento nell'esigenza di tutelare le esigenze di vita della famiglia cui il defunto contribuiva.

La pensione ai superstiti è una prestazione economica erogata, a domanda, in favore dei familiari del:

pensionato (pensione di reversibilità);

lavoratore (pensione indiretta).

I superstiti dell’iscritto nella assicurazione generale obbligatoria per i lavoratori dipendenti hanno diritto alla pensione privilegiata indiretta per inabilità nel caso in cui la morte del dante causa risulti riconducibile, con nesso di causalità diretta, al servizio prestato nel corso di un rapporto di lavoro.

Hanno diritto alla pensione:

il coniuge superstite, anche se separato: se il coniuge superstite è separato con addebito, la pensione ai superstiti spetta a condizione che gli sia stato riconosciuto dal Tribunale il diritto  all’assegno al mantenimento;

il coniuge divorziato se titolare di assegno divorzile;

i figli, adottivi e affiliati  riconosciuti legalmente o giudizialmente dichiarati, nati da precedente matrimonio dell'altro coniuge, riconosciuti legalmente o giudizialmente dichiarati dal coniuge del deceduto, minori regolarmente affidati da organi competenti a norma di legge) che alla data della morte del dante causa siano minori, inabili di qualunque età, studenti entro il 21° o 26° anno di età se universitari e siano a carico dello stesso dante causa;

i figli (legittimi o legittimati, adottivi o affiliati, naturali, riconosciuti legalmente o giudizialmente dichiarati, nati da precedente matrimonio dell'altro coniuge) che alla data della morte del genitore siano minorenni, inabili, studenti o universitari e a carico alla data di morte del medesimo;

i nipoti minori (equiparati ai figli) se a carico degli ascendenti (nonno o nonna), anche se non formalmente loro affidati, alla data di morte dei medesimi.

In mancanza del coniuge, dei figli e dei nipoti la pensione può essere erogata:

ai genitori d'età non inferiore a 65 anni, non titolari di pensione, che alla data di morte del lavoratore e/o pensionato siano a carico del medesimo.

In mancanza del coniuge, dei figli, dei nipoti e dei genitori la pensione può essere erogata:

ai fratelli celibi inabili e sorelle nubili inabili, non titolari di pensione, che alla data di morte del lavoratore e/o pensionato siano a carico del medesimo.

La pensione ai superstiti viene pagata dal primo giorno del mese successivo a quello del decesso del lavoratore o del pensionato, indipendentemente da quando viene fatta domanda.

L'ammontare si calcola sulla base dell'assegno dovuto al lavoratore scomparso, oppure della pensione che veniva pagata al pensionato deceduto, con una percentuale variabile:

60%, solo coniuge;

70%, solo un figlio;

80%, coniuge e un figlio; oppure due figli senza coniuge;

100% coniuge e due o più figli; oppure tre o più figli;

15% per ogni altro familiare, avente diritto, diverso dal coniuge, figli e nipoti.

Il superstite di lavoratore assicurato dopo il 31.12.1995 e deceduto senza aver perfezionato i requisiti amministrativi richiesti, può richiedere  l’indennità una-tantum, se:

non sussistono i requisiti assicurativi e contributivi per la pensione indiretta;

non ha diritto a rendite per infortunio sul lavoro o malattia professionale, in conseguenza della morte dell’assicurato;

è in possesso di redditi non superiori ai limiti previsti per la concessione dell’assegno sociale.

Il diritto all'importo in questione è soggetto alla prescrizione decennale.

Il diritto alla pensione ai superstiti cessa nei seguenti casi:

per il coniuge, se si sposa nuovamente. In questo caso riceve una "una tantum" di due anni della sua quota di pensione, compresa la tredicesima mensilità. Nel caso che la pensione risulti erogata, oltre che al coniuge, anche ai figli, la pensione deve essere ricalcolata a questi ultimi, con le nuove aliquote relative al nuovo nucleo familiare per i figli minori, al compimento del 18° anno di età;

per i figli studenti di scuola media o professionale che terminano o interrompono gli studi e comunque al compimento del 21° anno di età. L'avvio dell'attività lavorativa da parte dei figli, il superamento del 21° anno di età e l'interruzione degli studi non comportano l'estinzione, ma soltanto la sospensione del diritto alla pensione;

per i figli studenti universitari che terminano o interrompono gli anni del corso legale di laurea e comunque al compimento del 26° anno di età; anche in questo caso, un'attività lavorativa da parte dei figli universitari e l'interruzione degli studi non comportano l'estinzione, ma soltanto la sospensione del diritto alla pensione;

per i figli inabili qualora venga meno lo stato di inabilità;

per i genitori qualora conseguano altra pensione;

per i fratelli e le sorelle qualora conseguano altra pensione, o contraggano matrimonio, ovvero venga meno lo stato di inabilità;

per i nipoti minori, equiparati ai figli legittimi, valgono le medesime cause di cessazione e/o sospensione dal diritto alla pensione ai superstiti previste per i figli.

Le pensioni ai superstiti liquidate prima della sentenza con cui la Corte Costituzionale ha bocciato la penalizzazione in caso di matrimoni contratti dopo i 70 anni con differenza di età superiore ai 20, verranno ricalcolate dall‘INPS eliminando la decurtazione e ripristinando la normale aliquota del 60%. Le domande non ancora definite e quelle di nuova presentazione verranno direttamente esaminate in base alle regole post-sentenza. Le precisazioni arrivano dall’INPS con Circolare n. 178/2016.

L’istituto di previdenza recepisce così la sentenza 174/2016, che ha ritenuto illegittimo il taglio alle pensioni stabilito dal comma 5, articolo 18, decreto legge 98/2011. La norma prevedeva un taglio del 10% per ogni anno di matrimonio inferiore ai dieci nel caso di nozze fra persone con differenza di età superiore ai 20 anni e con uno dei due coniugi almeno 70enne.

La Suprema Corte, spiega l’INPS, ha rilevato che: ogni limitazione del diritto alla pensione di reversibilità deve rispettare i principi di uguaglianza, ragionevolezza, nonché il principio di solidarietà che è alla base del trattamento pensionistico in esame».

L’effetto della sentenza è che la norma dichiarata incostituzionale non è più applicabile dal giorno successivo alla sua pubblicazione (dal 21 luglio).

Di conseguenza, l’INPS ha stabilito le regole per ricostituire le pensioni di coloro che hanno subito la decurtazione.

Le pensioni a cui è stato applicato il taglio del 10% vengono ricalcolate a partire dal primo giorno del mese successivo al decesso del coniuge, e vengono riconosciuti i relativi ratei arretrati. Se nel frattempo è intervenuta sentenza passata in giudicato, i ratei arretrati sono erogati dal primo giorno del mese successivo al passaggio in giudicato della sentenza.

Tutti i ricorsi pendenti vanno riesaminati alla luce della sentenza.

Le pensioni di reversibilità eliminate a causa della legge incostituzionale. vengono a loro volta ricostituite ma bisogna presentare domanda.




Riforma della pubblica amministrazione 2016



La principale novità è l’istituzione del RUOLO UNICO DEI DIRIGENTI PUBBLICI cioè l’unificazione dei ruoli dei dirigenti delle tre aree (corrispondenti alle aree di contrattazione collettiva nazionale: Stato, Regioni, Enti locali). Vengono eliminati i ruoli specifici risalenti a ciascuna Amministrazione Ministeriale e agli altri enti pubblici.

Restano fuori dal ruolo unico i magistrati, gli avvocati, Il personale militare, delle forze di Polizia, della carriera diplomatica e prefettizia, professori e ricercatori universitari e dirigenza scolastica.

Per accedere alla dirigenza bisogna superare un corso-concorso annuale per ciascuno dei tre ruoli (Stato, Regioni e Enti locali), per un numero fisso di posti definito in relazione al fabbisogno minimo annuale del sistema amministrativo; immissione dei soli vincitori come funzionari per i primi tre anni (salvo riduzione per le esperienze pregresse) e successiva immissione nel ruolo unico da parte delle Commissioni per la dirigenza Statale. Le graduatorie finali comprenderanno soltanto i vincitori e non gli idonei.

La formazione e la valutazione dipenderanno dalla Scuola Nazionale dell’Amministrazione, che diventerà Agenzia ed avrà il compito di garantire la formazione omogenea dei dirigenti. Per ottenere l’incarico bisognerà passare attraverso una selezione, vigilata da un’apposita commissione per ogni livello (statale, regionale, locale), per qualsiasi posizione dirigenziale, eccezion fatta per quelle di vertice, come quella di segretario generale ministeriale, e prima della conferma del ruolo si dovrà superare un periodo di tre anni di prova. Per non rischiare di rimanere estromessi dalla carica, si può scegliere di retrocedere a funzionario.

Gli incarichi avranno la durata massima di 4 anni, con la possibilità di rinnovo per successivi 2 anni; questo limite temporale è stato introdotto per permettere la rotazione e il ricambio dirigenziale.

Quindi incarichi a tempo, deroghe parziali per i dirigenti di prima fascia e valutazione più puntuale. Nel nuovo disegno del decreto i dirigenti pubblici, e gli aspiranti dopo aver superato un corso o un corso concorso annuale, saranno inquadrati nei ruoli unici, dedicati a Stato, regioni, enti locali e autorità indipendenti. Le pubbliche amministrazioni sceglieranno i loro dirigenti da questi ruoli, con selezioni pubbliche, per incarichi quadriennali, rinnovabili una volta sola se il dirigente in questione ha ottenuto una valutazione positiva nello svolgimento del proprio compito.

La retribuzione per i dirigenti pubblici sarà collegata almeno per il 30% al risultato, creando un sistema dirigenziale probabilmente più competitivo e meno legato all'autorevolezza del ruolo. Saranno premiati i dirigenti meritevoli. Penalizzazioni, invece, per coloro che non riusciranno a raggiungere i risultati stabiliti: chi viene revocato dal proprio mandato dirigenziale a seguito di una brutta pagella ha un anno di tempo per procurarsi un nuovo mandato, pena la decadenza dal ruolo, ovvero la licenziabilità, ovvero per chi non ottiene incarichi avrà diritto alla sola retribuzione di base (senza quindi il trattamento accessorio, che vale dal 40 al 70% dello stipendio a seconda dei casi) e che può portare addirittura all’uscita dal ruolo se il dirigente in fermo momentaneo non partecipa a un numero minimo di selezioni oppure rimane senza incarico per sei anni.

Per evitare di uscire dalla Pubblica amministrazione, il dirigente potrà però rinunciare alle proprie funzioni e farsi inquadrare nel ruolo di funzionario. Oltre a cancellare le quote variabili della busta paga, il fermo momentaneo di chi è privo di incarichi limerà nel tempo anche lo stipendio base, che sarà tagliato del 10% per ogni anno nel quale il dirigente resta privo di incarico. A frenare il decollo del decreto è stata la levata di scudi dei dirigenti di prima fascia, e in particolare dei direttori generali di alcuni ministeri, ostili all’idea di partecipare, a partire dai prossimi incarichi, a un “mercato” che li metterebbe alla pari di tutti gli altri aspiranti, perché nei ruoli unici non sono più presenti le due fasce in cui oggi è articolata la dirigenza statale (non quella di regioni ed enti locali).

La versione definitiva di questo meccanismo prevede che le amministrazioni, quando metteranno a bando gli incarichi secondo il nuovo regime, dovranno riservare almeno il 30% dei posti a chi ha già ricoperto nell’amministrazione un ruolo di prima fascia. L’altro 70% dovrà invece partecipare ai bandi senza riserva del posto, ma potrà comunque contare sul proprio curriculum per spuntarla nella selezione.

I principi e i nodi del riordino della dirigenza

I dirigenti della Pa saranno inseriti in «ruoli unici» dedicati a Stato, Regioni ed enti locali, e autorità indipendenti. Da questi ruoli, in cui gli aspiranti dirigenti entreranno tramite concorso o corso-concorso, le amministrazioni dovranno pescare per affidare gli incarichi.

Gli incarichi saranno a tempo, di quattro anni rinnovabili una volta sola nel caso di valutazione positiva dell’interessato. Per chi resta privo d’incarico cadono tutte le voci accessorie della retribuzione e lo stipendio di base viene tagliato del 10% per ogni anno di fermo momentaneo. Definizione di presupposti oggettivi per la revoca, anche in relazione al mancato raggiungimento degli obiettivi, e della procedura di revoca. equilibrio di genere nel conferimento degli incarichi.

Se il dirigente non ha incarichi per sei anni, la prospettiva è il licenziamento, previsto anche per chi durante lo stop non partecipa a un numero minimo di selezioni: per evitare l’uscita, l’interessato potrà scegliere di essere inquadrato come funzionario.

Sulla controversa questione del fatto che i manager pubblici di prima fascia partecipino allo stesso meccanismo dei bandi come gli altri dirigenti, l’ipotesi è aprire una corsia preferenziale per i bandi delle amministrazioni di provenienza.

Dovrebbe trovare spazio un sistema di valutazione delle prestazioni dei dirigenti basato non solo sui risultati ma su una griglia di indicatori relativa a tutti gli aspetti dell’attività del dirigente declinati a seconda dell’amministrazione.

Verso il rinvio l’aspetto della delega che chiede di distinguere la responsabilità per danno erariale dei politici e dei dirigenti, chiedendo alla Corte dei conti di perseguire solo gli ultimi quando il danno nasce dall’attività gestionale.



Chi ha diritto alla qualifica di dirigente?



È dirigente chi può influenzare la gestione d’impresa. La Corte di cassazione ha affermato con la sentenza 18165/2015 che il riconoscimento della qualifica dirigenziale a un funzionario che abbia svolto, in concreto, mansioni di contenuto apicale non può essere condizionato a una formale investitura da parte dei vertici aziendali. Una conclusione differente, infatti, comporterebbe violazione del principio per cui deve esservi corrispondenza tra le mansioni effettivamente svolte dal dipendente e la categoria di inquadramento.

Ha precisato la Corte che, ai fini del riconoscimento della qualifica dirigenziale, deve essere dimostrato, da parte del lavoratore, lo svolgimento di mansioni caratterizzate dalla preposizione, con ampia autonomia decisionale, a uno o più servizi che pongono il dirigente in condizione di influenzare l’attività dell’intera impresa o di una sua area rilevante. Aggiungendo che la qualifica di dirigente compete al lavoratore che, come «alter ego» dell’imprenditore, viene preposto alla direzione dell’intera organizzazione aziendale o, quantomeno, a una branca o settore autonomo di essa ed è investito di responsabilità che, in ragione dei poteri di iniziativa e discrezionalità che ne discendono, gli consente di imprimere un orientamento alla gestione complessiva dell’impresa, sia pure nell'ambito delle direttive programmatiche definite dal datore di lavoro.

In questo contesto, aggiunge la Cassazione, la figura del dirigente si differenzia dalla posizione dell’impiegato con funzioni direttive, in quanto quest’ultimo è preposto a un singolo ramo di servizio, ufficio o reparto, con poteri di iniziativa circoscritti e più limitati, dai quali derivano un corrispondente minor grado di responsabilità e la soggezione al potere di controllo del datore stesso o di un dirigente aziendale.

In tema di riconoscimento di mansioni superiori e in particolare ai fini del riconoscimento della qualifica dirigenziale, è necessario e sufficiente che sia dimostrato lo svolgimento di fatto delle relative mansioni, caratterizzate dalla preposizione ad uno o più servizi con ampia autonomia decisionale, senza che occorra una formale investitura trasfusa in una procura speciale: la richiesta di tale requisito significherebbe subordinare il riconoscimento della qualifica ad un atto discrezionale del datore di lavoro, di per sé insindacabile, con conseguente violazione del principio della corrispondenza della qualifica alle mansioni svolte.

In via teorica è valida la "clausola di riconoscimento formale" o di "investitura" aziendale, finalizzata da parte datoriale a far sì che il conferimento della qualifica di dirigente, a prescindere dalla qualità e responsabilità immanenti alle mansioni disimpegnate dal lavoratore, sia sottoposto al gradimento aziendale, infatti la qualifica non scatta se l'azienda non la riconosce all'aspirante alla categoria dirigenziale con un provvedimento formale (comunicazione, lettera o equipollente), come già sottolineato è necessario e sufficiente che sia dimostrato l'espletamento di fatto delle relative mansioni, caratterizzate dalla preposizione ad uno o più servizi con ampia autonomia decisionale e non occorre anche una formale investitura trasfusa in una procura speciale.

Il dirigente è il lavoratore che si configuri come alter ego dell'imprenditore e che sia preposto alla direzione dell'intera organizzazione aziendale, o di una branca o di un settore autonomo di essa. Inoltre, è necessario che, ai fini del riconoscimento della qualifica in questione, il lavoratore abbia in concreto una serie di attribuzioni che, per la loro ampiezza e per i conseguenti poteri di iniziativa e discrezionalità, gli consentano di imprimere un indirizzo e un orientamento al governo complessivo dell'azienda e alla scelta dei mezzi produttivi. In altre parole il dirigente ha una responsabilità ad alto livello, che gli deriva appunto da quel potere di indirizzo di cui si è appena detto, ed è unicamente sottoposto all'osservanza delle direttive programmatiche del datore di lavoro. Quindi un dirigente non può essere sottoposto a vincoli di subordinazione gerarchica nei confronti di altri dirigenti. Più precisamente, è stato affermato che vi è incompatibilità tra la qualifica di dirigente e l'esercizio di mansioni con vincolo di dipendenza gerarchica, e ciò anche nei casi di aziende caratterizzate da una complessa organizzazione e da una pluralità di dirigenti con graduazione di compiti: per la sussistenza di funzioni dirigenziali, occorre che le mansioni, per il loro corretto svolgimento, siano coordinate con quelle degli altri dirigenti e non già subordinate ad altre.

Tale affermazione preclude la strada a molti lavoratori che intendono ottenere la qualifica di dirigente, può tornare utile a quei lavoratori che, di fatto, hanno ottenuto la qualifica di dirigente, pur senza ricoprire un ruolo apicale nell'ambito della gerarchia aziendale. Infatti, costoro, in caso di licenziamento, potrebbero invocare il principio della incompatibilità tra la qualifica dirigenziale e la subordinazione ad altri dirigenti, e ciò al fine di rivendicare, nei propri confronti, l'applicabilità delle norme di legge che tutelano i licenziamenti privi di giusta causa o giustificato motivo che, come è noto, non si applicano ai dirigenti. Oppure potrebbero lamentare una dequalificazione, con conseguente richiesta di risarcimento del danno professionale.


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