martedì 10 luglio 2018

Se il dipendente che non va al lavoro ha diritto allo stipendio?



L’azienda può sospendere il pagamento dello stipendio nei casi di assenza ingiustificata o di impossibilità del dipendente di svolgere la prestazione lavorativa.

Sia quando il dipendente non può lavorare per sopraggiunte impossibilità, sia quando è lui stesso a non recarsi volontariamente al lavoro (assenza ingiustificata), il datore di lavoro non è tenuto a versargli lo stipendio. Anche nell’ambito lavorativo, infatti, vige il principio, sancito dal codice civile, secondo cui ciascuna delle parti può rifiutarsi di adempiere alla propria prestazione se l’altra non adempie. Procediamo con ordine e cerchiamo di comprendere se e quando il datore deve pagare lo stipendio al dipendente che non va al lavoro.

Quando l’assenza è ingiustificata il datore di lavoro può smettere di pagare al dipendente lo stipendio.

Le ragioni dell’assenza del dipendente
Il dipendente che non può recarsi al lavoro per una valida ragione deve subito comunicarlo al datore. Il caso emblematico è quello della malattia, per la quale è prevista una apposita trafila: visita medica; invio telematico del certificato all’Inps da parte dello stesso medico di base; possibilità per l’azienda di verificare, in via telematica, il certificato medico inviato all’Inps; eventuale richiesta di visita fiscale inoltrata all’Inps dall’azienda. Altra ipotesi tipica sono i permessi e i congedi riconosciuti dalla normativa di settore e dai contratti collettivi. Non in ultimo, ci sono le ferie retribuite che non possono essere negate al dipendente, ma che vanno previamente concordate con il datore.

Entro tali limiti fissati dalla normativa, il dipendente può assentarsi dal lavoro senza subire alcuna conseguenza di tipo sanzionatorio; inoltre quasi sempre il lavoratore assente mantiene il diritto allo stipendio pieno, salvo laddove per l’assenza non venga previsto il diritto alla retribuzione (è il caso,ad esempio, dei permessi non retribuiti).
Laddove invece l’assenza sia ingiustificata, il datore di lavoro può procedere allesanzioni disciplinari le quali possono essere di quattro tipi:

il rimprovero verbale;

la multa di importo pari a non più di quattro ore;

la sospensione dal soldo e dal servizio per non più di 10 giorni: in pratica il dipendente non deve andare a lavorare ma non ottiene neanche la retribuzione;

il licenziamento disciplinare. A seconda che il licenziamento venga intimato con o senza preavviso (a seconda cioè della gravità della condotta), si parlerà di licenziamento «per giustificato motivo soggettivo» e di licenziamento «per giusta causa».

Se il dipendente non è più in grado di lavorare il datore può sospendere il pagamento dello stipendio e, nei casi più gravi, licenziarlo

Veniamo così al capitolo più caldo: quello appunto del licenziamento. In caso di malattia, il licenziamento è vietato se non supera il cosiddetto «periodo di comporto»: si tratta del limite massimo di assenze che il dipendente può fare per malattia e durante il quale mantiene il diritto alla conservazione del posto. Superato il comporto, invece, il lavoratore può essere licenziato.

Una seconda ipotesi in cui il licenziamento è legittimo è quella del cosiddetto «giustificato motivo oggettivo», quello cioè dettato dalla impossibilità della prestazione lavorativa per sopravvenuta incapacità del dipendente (e sempre che lo stesso non possa essere ricollocato in mansioni equivalenti). Si pensi al caso di una persona che, divenuta non vedente, non possa più svolgere funzioni di segreteria; a un addetto alle vendite che non è più in grado di stare in piedi per molte ore; a una donna che, per via di una grave operazione, sia costretta ogni tre ore a prenderne una di riposo, ecc.

Ma il licenziamento non è l’unica soluzione che ha il datore di lavoro: questi può anche disporre la sospensione dello stipendio per i giorni di assenza ingiustificata o determinati da impossibilità della prestazione.

La sospensione dello stipendio
Dopo aver passato in rassegna cosa succede quando il dipendente si assenta dal lavoro, cerchiamo di comprendere se, nei casi di assenza ingiustificata o determinata da una impossibilità fisica a svolgere le mansioni, è possibile sospendere il pagamento della busta paga. In altre parole, se il dipendente non va al lavoro ha diritto allo stipendio?
A riguardo la Cassazione ha affermato che nel contratto di lavoro «ciascuna parte può valersi dell’eccezione di inadempimento prevista dal codice civile» in base alla quale, se una parte non adempie ai propri obblighi l’altra può esimersi dal rispettare i suoi. Alla inadempienza del lavoratore il datore di lavoro non deve necessariamente reagire solo con sanzioni disciplinari o, al limite, con il licenziamento, oppure col rifiuto di ricevere la prestazione parziale e con la richiesta di risarcimento dei danni. Ne consegue che «nel caso di inadempimento della prestazione lavorativa il datore di lavoro non è tenuto al pagamento delle retribuzioni». Detto in parole più semplici, non è dovuta la retribuzione durante il periodo di sospensione del rapporto, salvo che si verta in una delle ipotesi in cui la sospensione è tutelata dalla legge, quale la malattia.

I casi in cui si può non pagare lo stipendio al dipendente che non va al lavoro sono essenzialmente due:

assenza ingiustificata (fuori cioè dai casi di malattia, infortunio, permessi, congedi, gravidanza, puerperio, ecc.);

assenza determinata da impossibilità sopravvenuta allo svolgimento della prestazione lavorativa. Si tratta delle ipotesi che abbiamo esemplificato poc’anzi: un addetto ai trasporti che non può più guidare per una patologia alla schiena, un pilota di aereo che perde la vista, un addetto alla sicurezza che perde l’uso di una gamba, ecc. Si tratta di situazioni collegate alle condizioni fisiche del lavoratore, divenute incompatibili con le mansioni ad esso assegnate. A differenza della prima ipotesi (assenza ingiustificata), qui il dipendente non ha alcuna colpa.

Ciò nonostante, secondo la giurisprudenza, la sospensione dal servizio per impossibilità sopravvenuta allo svolgimento della prestazione non dà diritto alla retribuzione e se prolungata nel tempo autorizza il licenziamento del dipendente qualora non sia possibile ricollocare lo stesso a mansSoni equivalenti.


giovedì 5 luglio 2018

Cessione del TFR: nuovo servizio INPS



È disponibile il nuovo servizio INPS "Notifica cessione TFR in garanzia", che consente di ricevere le notifiche da parte degli utenti esterni.

Nuovo archivio INPS dei contratti di finanziamento garantiti da TFR ad uso delle aziende e delle società finanziarie , banche e assicurazioni- Le modalità nel messaggio n. 2506 2018

L'INPS ha pubblicato nel messaggio n. 2506/2018 le informazioni su un nuovo servizio disponibile sul sito dell'Istituto relativo alla gestione dei contratti di finanziamento con cessione del TFR a garanzia, inviati da banche e società finanziarie. Si tratta di uno specifico archivio informatico che raccoglierà le notifiche sia digitali che cartacee da parte degli operatori e delle strutture territoriali.

Il servizio è rivolto a società finanziarie, banche ed assicurazioni; le informazioni contenute nella banca dati per individuare il legittimo titolare della prestazione di TFR e nei casi di :

intervento del Fondo di Garanzia del TFR (art. 2 della legge n. 297/82) in caso di insolvenza del datore di lavoro;

pagamento diretto della quota di TFR versata al Fondo di Tesoreria, in caso di incapienza dei contributi dovuti nel mese dal datore di lavoro rispetto al TFR da erogare (cfr. la circolare n. 70/2007, par. 7.3);

residui casi di liquidazione della quota di TFR maturata durante il periodo di fruizione del trattamento straordinario di integrazione salariale (cfr. la circolare n. 24/2017).

Gli utenti possono decidere quando e se notificare i contratti di finanziamento con garanzia del TFR ed è possibile utilizzare il servizio anche per notificare contratti già inviati all’INPS mediante canali diversi.

L’accesso al servizio è consentito previa autenticazione tramite:

PIN dispositivo dell’INPS (cfr. la circolare n. 50 del 15/2011);

CNS (Carta Nazionale dei Servizi) rilasciata da una Pubblica Amministrazione ai sensi del D.P.R. n. 117/04 o mediante altro dispositivo (smart card, chiavetta USB) contenente il “certificato digitale di autenticazione personale” rilasciato da apposito ente certificatore rispondente agli standard definiti per la CNS;

credenziali SPID (Sistema Pubblico di Identità Digitale) almeno di livello 2, rilasciate da uno dei gestori accreditati da AgID (www.spid.gov.it).

Per accedere al servizio, i soggetti incaricati con procura dalle aziende dovranno richiedere l’abilitazione presentando il modulo “MV61” ad una qualsiasi Struttura territoriale dell’INPS.

Tale modulo è reperibile nel sito Istituzionale al seguente percorso: “Prestazioni e servizi” > “Tutti i moduli”, digitando nel campo “Cerca” il nome del modulo.

Cessione TFR in garanzia: quando è di competenza INPS
Generalmente nel settore privato il TFR è di competenza del datore di lavoro. Esistono però alcune fattispecie che obbligano l’INPS ad intervenire per gestire tale istituto, ossia:
in caso di insolvenza del datore di lavoro mediante l’intervento del Fondo di Garanzia del TFR;

in caso di incapienza dei contributi dovuti nel mese dal datore di lavoro rispetto al TFR da erogare mediante il pagamento diretto della quota di TFR versata al Fondo di Tesoreria;

nei residui casi di liquidazione della quota di TFR maturata durante il periodo di fruizione del trattamento straordinario di integrazione salariale.

Notifica contratti di cessione del TFR: come accedere al servizio
Per accedere al nuovo servizio di notifica dei contratti di cessione del TFR l’utente deve premunirsi di una delle seguenti credenziali:

PIN dispositivo dell’INPS;

CNS (Carta Nazionale dei Servizi) o firma digitale;

credenziali SPID (Sistema Pubblico di Identità Digitale) almeno di livello 2.

Per quanto riguarda i soggetti incaricati tramite specifica procura dalle aziende è necessario richiedere l’abilitazione presentando il modulo “MV61” ad una qualsiasi Struttura territoriale dell’INPS.

Cosa inserire nella banca dati INPS
Effettuato l’accesso, l’utente potrà inserire nella banca dati determinate informazioni riguardanti il lavoratore cedente e il datore di lavoro, quali:

la data di stipula del contratto;

la data di scadenza del finanziamento;

i soggetti che hanno prestato l’assicurazione rischio vita e la garanzia rischio impiego;

nonché copia in formato elettronico del contratto.



lunedì 25 giugno 2018

Pensione dal 2019 domanda e calcolo



L’età per la pensione di vecchiaia nel 2019 salirà a 67 anni, mentre per la pensione anticipata saranno necessari 43 anni e tre mesi per gli uomini e 42 anni e tre mesi per le donne: è la conseguenza dell’innalzamento dell’aspettativa di vita di cinque mesi confermata dall’ISTAT, ci sarà il conseguente scatto di aumento dei requisiti per andare in pensione, previsto per il 2019, pari appunto a cinque mesi.

Ecco come cambia l’età pensionabile dal 2019:

pensione di vecchiaia: 67 anni per tutti (dipendenti, autonomi, uomini e donne). Attualmente il requisito è pari a 66 anni e sette mesi;

pensione anticipata: 43 anni e tre mesi per gli uomini (che attualmente vanno in pensione a 42 anni e dieci mesi), e 42 anni e tre mesi per le donne (che al momento si ritirano con 41 anni e dieci mesi);

pensione anticipata precoci: passa a 41 anni e cinque mesi. Attualmente il requisito è pari a 41 anni. Ricordiamo che è necessario possedere tutti gli altri requisiti per essere considerati lavoratori precoci, in base a quanto previsto dalla finanziaria dell’anno scorso;

assegno sociale: 67 anni (attualmente il requisito è a 65 anni e sette mesi, ma salirà di un anno nel 2018);

pensione lavoratori usuranti: requisito invariato, la finanziaria 2017 congela gli scatti alle aspettative di vita fino al 2026. Quindi, quota 97,6 per i lavoratori dipendenti, 98,6 per i lavoratori autonomi, da 98,6 a 100,6 per i lavoratori notturni.

Si avvicina per i lavoratori addetti a mansioni gravose o usuranti la domanda di pensione senza applicare i cinque mesi di scatto dell’età pensionabile 2019: le procedure sono definite dal decreto del ministero del Lavoro del 18 aprile 2018. Regolamenta la possibilità di pensione prevista dal comma 147 della legge 205/2017 (Bilancio 2018). Ora, si attendono i documenti di prassi dell’INPS.

Possono andare in pensione senza far scattare i cinque mesi di aspettative di vita i lavoratori dipendenti con un’anzianità contributiva di almeno 30 anni che svolgono da almeno sette anni nei dieci precedenti il pensionamento una delle 15 professioni gravose di cui all’allegato B della manovra, ovvero:

operai dell’industria estrattiva, dell’edilizia e della manutenzione degli edifici;

conduttori di gru o di macchinari mobili per la perforazione nelle costruzioni;

conciatori di pelli e di pellicce;

conduttori di convogli ferroviari e personale viaggiante;

conduttori di mezzi pesanti e camion;

personale delle professioni sanitarie infermieristiche ed ostetriche ospedaliere con lavoro organizzato in turni;

addetti all’assistenza personale di persone in condizioni di non autosufficienza;

insegnanti della scuola dell’infanzia e educatori degli asili nido;

facchini, addetti allo spostamento merci e assimilati;

personale non qualificato addetto ai servizi di pulizia;

operatori ecologici e altri raccoglitori e separatori di rifiuti;

operai dell’agricoltura, della zootecnia e della pesca;

pescatori della pesca costiera, in acque interne, in alto mare, dipendenti o soci di cooperative;

lavoratori del settore siderurgico di prima e seconda fusione e lavoratori del vetro addetti a lavori ad alte temperature non già ricompresi nella normativa del decreto legislativo n. 67 del 2011 Q.

marittimi imbarcati a bordo e personale viaggiante dei trasporti.

Gli addetti a lavori usuranti previsti da dlgs 67/2011 (catena di montaggio, turni notturni, conducenti di veicoli pesanti), anche in questo caso con almeno 30 anni di contributi.

Attenzione: applicano invece i cinque mesi di aumento delle aspettative di vita coloro che decidono di utilizzare nel 2019 la pensione precoci per svolgimento di mansioni gravose.

La domanda si presenta all’INPS in via telematica, utilizzando apposito modello, insieme alla dichiarazione del datore di lavoro sui periodi di svolgimento delle professioni gravose, contratto collettivo applicato, livello di inquadramento attribuito, mansioni svolte, codice professionale ISTAT.

In mancanza delle comunicazioni obbligatorie del datore di lavoro e della dichiarazione di attività svolta, ad esempio per cessazione dell’attività, il lavoratore presenta una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà attestante i periodi di svolgimento delle professioni gravose, il contratto collettivo applicato, le mansioni svolte, il livello di inquadramento, il codice professionale ISTAT ove previsto. L’INPS trasmette la pratica all’Ispettorato nazionale del lavoro, che effettua le verifiche. La domanda viene comunque istruita se entro 30 giorni non ci sono rilievi da parte dell’INL.

La pratica rappresenta automaticamente domanda di pensionamento, che l’INPS concede previo accertamento della conformità delle dichiarazioni del lavoratore e del datore di lavoro, con i dati dei propri archivi.

Ribasso in vista, dal 2019, dei coefficienti per il calcolo dell’assegno previdenziale: con lo scatto dell’età pensionabile viene adeguato anche il coefficiente di trasformazione  sulla parte contributiva della pensione, per incamerare il fatto che, a parità di uscita dal lavoro, si percepirà l’assegno per più tempo. In soldoni l’assegno sarà di importo inferiore.

I nuovi moltiplicatori saranno applicati ai trattamenti previdenziale con decorrenza dal primo gennaio 2019 e sono individuati dal Decreto 15 maggio 2018 del Ministero del Lavoro (“Revisione triennale dei coefficienti di trasformazione del montante contributivo”) pubblicato in Gazzetta Ufficiale, che in pratica stabilisce pensioni più basse a parità di età e contributi versati.

I nuovi coefficienti di trasformazione per il triennio 2019-2021 riguardano coloro che maturano i requisiti per la pensione nei tre anni indicati e non hanno effetto su chi è già pensione.

Il coefficiente di trasformazione del montante contributivo della pensione scenderà di una percentuale fra l’1 e il 2,5%. Il calcolo riguarda solo la parte contributiva della pensione, quindi penalizza maggiormente coloro che hanno l’assegno completamente calcolato con il metodo contributivo. I lavoratori che avevano già 18 anni di contributi alla fine del 1995 hanno la pensione calcolata con il retributivo fino alla fine del 2012, e solo per la parte maturata successivamente al primo gennaio 2012 il calcolo contributivo (sul quale incide quindi il coefficiente di trasformazione).

Il meccanismo prevede che il coefficiente salga con l’allungarsi della permanenza al lavoro, quindi favorisce chi va in pensione più tardi. Di fatto, quindi, per controbilanciare l’impatto della revisione sull’assegno previdenziale, conviene restare per più tempo al lavoro.

Coefficienti 2019-2021
57 anni: divisore 23,812 e coefficiente 4,2%
58 anni: divisore 23,236 e coefficiente 4,304%
59 anni: divisore 22,654 e coefficiente 4,414%
60 anni: divisore 22,067 e coefficiente 4,532%
61 anni: divisore 21,475 e coefficiente 4,657%
62 anni: divisore 20,878 e coefficiente 4,79%
63 anni: divisore 20,276 e coefficiente 4,932%
64 anni: divisore 19,672 e coefficiente 5,083%
65 anni: divisore 19,064 e coefficiente 5,245%
66 anni: divisore 18,455 e coefficiente 5,419%
67 anni: divisore 17,844 e coefficiente 5,604%
68 anni: divisore 17,231 e coefficiente 5,804%
69 anni: divisore 16,609 e coefficiente 6,021%
70 anni: divisore 15,982 e coefficiente 6,257%
71 anni: divisore 15,353 e coefficiente 6,513%

Questo innalzamento dei coefficienti va tenuto presente in particolare da coloro che maturano un diritto a pensione entro il 31 dicembre 2018: nel momento in cui si fermano di più al lavoro, rischiano di avere una pensione più bassa perché il coefficiente per calcolare l’assegno è più basso.




Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...
BlogItalia - La directory italiana dei blog