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venerdì 17 novembre 2023

Come calcolare lo stipendio part time: guida al calcolo




Come calcolare lo stipendio di un contratto part time a 20, 24, 30 o 36 ore? La prima cosa che viene da pensare potrebbe essere quella di fare una proporzione rispetto allo stipendio a tempo pieno, a partire dal netto. In realtà è un errore: bisogna impostare una proporzione partendo dal lordo ed inoltre considerare l’eventuale scaglione IRPEF che andrebbe a colpire il reddito.


Vediamo le regole per il passaggio dal lordo al netto senza errori.


Come si calcola lo stipendio netto con un contratto part-time? Le regole sono differenti da quelle del passaggio dal lordo al netto in un contratto full time?


Sono le tipiche domande che si pongono i lavoratori in procinto di passare da un contratto a tempo pieno ad uno a tempo parziale, per capire a quanto corrisponderà di netto in busta paga la RAL (Retribuzione Annua Lorda) proposta dal datore di lavoro:


Effettivamente ci sono alcune variabili da considerare quando si effettua il calcolo dello stipendio netto part-time: non basta fare una proporzione delle ore lavorate in caso di full-time, ma bisogna tenere in considerazione il diverso scaglione IRPEF in cui si andrebbe a ricadere. Vediamo tutto in dettaglio.


Come calcolare lo stipendio netto in part-time?

Come nei contratti a tempo pieno, anche nel part-time il calcolo dello stipendio netto parte andando ad individuare le voci di salario non fisse, che contribuiscono a far variare il reddito netto:


1) aliquota IRPEF in base allo scaglione nel quale si ricade rispetto alla RAL e detrazioni spettanti (tenendo conto che le tasse da versare a fine anno dipendono anche dalla presenza di altri redditi);

2) aliquota contributiva a carico del lavoratore applicata dall’Ente previdenziale di appartenenza;

3) addizionali regionali, provinciali e comunali;

4) bonus IRPEF in busta paga, per i dipendenti;

5) spese in deduzione per autonomi e professionisti (Partite IVA).


Qual è la formula per il calcolo del netto in busta paga?

In caso di contratto di lavoro dipendente part-time, la formula per il calcolo dal lordo al netto mensile rimane la seguente: Retribuzione netta = (Reddito imponibile – Imposta netta)/numero di mensilità + eventuale Bonus IRPEF Laddove:

Reddito imponibile = retribuzione lorda (RAL) – contributi INPS versati dal lavoratore (in media il 9%), al netto del taglio del cuneo fiscale per alcuni redditi, applicati nel 2023 in base alle previsioni della Manovra;


Imposta lorda = IRPEF + addizionali;

Detrazioni = da lavoro dipendente + eventuali carichi di famiglia;

Imposta netta = imposta lorda – detrazioni.


Esempi di calcolo stipendio part-time?

Per calcolare lo stipendi netto con un contratto part-time, possiamo fare il seguente esempio: con RAL di 10.000 euro e contratto di 20 ore a settimana su 14 mensilità, il calcolo dello stipendio netto sarà il seguente:


Reddito imponibile = 10.000 – 900 = 9.100;

IRPEF lorda = 9.100*23% =  2.093;

Imposta lorda = 2.093 + 123 + 80 = 2.296


Stipendio netto mensile part-time = (10.000 –  2.296- 1789.8) /14 +100 = 650 euro circa


Questo ipotizzando le addizionali generiche pari all’1,23% quella regionale e 0,8% quella comunale, senza considerare eventuali carichi di famiglia (diversi da quelli oggi ricadenti nell’Assegno Unico) la cui presenza, grazie alle detrazioni fiscali previste, aiuta a far salire il netto in busta paga.




domenica 11 novembre 2018

Stipendio basso, come rinegoziare l'aumento



La busta paga è il documento necessario per tutti i dipendenti, che attesta la retribuzione netta e lorda del lavoratore e serve per verificare lo stipendio percepito e la sua congruità con quanto stabilito nel CCNL. Sulla busta paga si possono inoltre verificare i contributi pensionistici versati dal datore di lavoro a vantaggio del dipendente.

 Cinque mosse per rinegoziare lo stipendio. Michael Page, specializzato nella selezione di professionisti, middle e top manager, consiglia di verificare prima se la propria retribuzione è il linea con la media nazionale.

In primo luogo avere in mente la situazione aziendale. Per poter fare una richiesta in linea con le possibilità dell'azienda è necessario conoscere la situazione finanziaria della società. Inoltre, è bene sapere se il proprio stipendio, o quello desiderato, è in linea con la retribuzione del mercato.

Riflettere sulle esigenze personali. Prima di effettuare una richiesta bisogna capire quale livello salariale minimo potrebbe essere soddisfacente e quale è invece la retribuzione ideale, in modo da iniziare a negoziare sempre dal valore più alto e lasciare spazio alle proposte. Per identificare nel modo più fattuale possibile queste cifre bisogna pensare al costo della vita attuale, alle tendenze del mercato e alla propria istruzione ed esperienza, senza tralasciare i desideri collegati al proprio percorso professionale per il breve, medio e lungo termine.

Non solo stipendio, le altre proposte da valutare. Quando ci si trova a negoziare bisogna sempre ricordarsi che il pacchetto retributivo non si limita solo al salario. L’offerta aziendale può comprendere formazione, orari flessibili, smart working, benefit etc. Inoltre, è molto importante valutare l'esistenza di un percorso di crescita e promozione chiaro e ben delineato.

Il tempismo è importante. L’ideale è che sia sempre il datore di lavoro ad affrontare per primo il tema del salario. Se un intervistatore cerca di cogliere le aspettative retributive durante un colloquio è bene chiedere più dettagli legati alla potenziale posizione prima di esporsi in tal senso, in modo da poterne discutere una volta conclusa la selezione e già ricevuta un’offerta.

Negoziare in modo deciso ma giusto. All’interno di una negoziazione è fondamentale essere preparati e non perdere di vista i punti sostanziali della propria richiesta. Entrambe le parti auspicano alla situazione più vantaggiosa per loro e, per questo motivo, bisogna sempre rispettare l’interlocutore senza però mostrare indecisioni o insicurezze.

"Negoziare lo stipendio - commenta Adriano Giudici, executive manager divisione engineering & manufacturing - è un momento sfidante, che mette in discussione non solo gli aspetti legati alla propria carriera ma anche quelli più vicini alla vita personale. Per questo motivo, consigliamo sempre di prepararsi seriamente in vista del confronto con il proprio datore di lavoro. Bisogna essere pronti a parlare di aspettative specifiche e realistiche basate sulle proprie capacità, esperienze e tendenze del mercato attuale, senza farsi prendere dall'emotività".




martedì 10 luglio 2018

Se il dipendente che non va al lavoro ha diritto allo stipendio?



L’azienda può sospendere il pagamento dello stipendio nei casi di assenza ingiustificata o di impossibilità del dipendente di svolgere la prestazione lavorativa.

Sia quando il dipendente non può lavorare per sopraggiunte impossibilità, sia quando è lui stesso a non recarsi volontariamente al lavoro (assenza ingiustificata), il datore di lavoro non è tenuto a versargli lo stipendio. Anche nell’ambito lavorativo, infatti, vige il principio, sancito dal codice civile, secondo cui ciascuna delle parti può rifiutarsi di adempiere alla propria prestazione se l’altra non adempie. Procediamo con ordine e cerchiamo di comprendere se e quando il datore deve pagare lo stipendio al dipendente che non va al lavoro.

Quando l’assenza è ingiustificata il datore di lavoro può smettere di pagare al dipendente lo stipendio.

Le ragioni dell’assenza del dipendente
Il dipendente che non può recarsi al lavoro per una valida ragione deve subito comunicarlo al datore. Il caso emblematico è quello della malattia, per la quale è prevista una apposita trafila: visita medica; invio telematico del certificato all’Inps da parte dello stesso medico di base; possibilità per l’azienda di verificare, in via telematica, il certificato medico inviato all’Inps; eventuale richiesta di visita fiscale inoltrata all’Inps dall’azienda. Altra ipotesi tipica sono i permessi e i congedi riconosciuti dalla normativa di settore e dai contratti collettivi. Non in ultimo, ci sono le ferie retribuite che non possono essere negate al dipendente, ma che vanno previamente concordate con il datore.

Entro tali limiti fissati dalla normativa, il dipendente può assentarsi dal lavoro senza subire alcuna conseguenza di tipo sanzionatorio; inoltre quasi sempre il lavoratore assente mantiene il diritto allo stipendio pieno, salvo laddove per l’assenza non venga previsto il diritto alla retribuzione (è il caso,ad esempio, dei permessi non retribuiti).
Laddove invece l’assenza sia ingiustificata, il datore di lavoro può procedere allesanzioni disciplinari le quali possono essere di quattro tipi:

il rimprovero verbale;

la multa di importo pari a non più di quattro ore;

la sospensione dal soldo e dal servizio per non più di 10 giorni: in pratica il dipendente non deve andare a lavorare ma non ottiene neanche la retribuzione;

il licenziamento disciplinare. A seconda che il licenziamento venga intimato con o senza preavviso (a seconda cioè della gravità della condotta), si parlerà di licenziamento «per giustificato motivo soggettivo» e di licenziamento «per giusta causa».

Se il dipendente non è più in grado di lavorare il datore può sospendere il pagamento dello stipendio e, nei casi più gravi, licenziarlo

Veniamo così al capitolo più caldo: quello appunto del licenziamento. In caso di malattia, il licenziamento è vietato se non supera il cosiddetto «periodo di comporto»: si tratta del limite massimo di assenze che il dipendente può fare per malattia e durante il quale mantiene il diritto alla conservazione del posto. Superato il comporto, invece, il lavoratore può essere licenziato.

Una seconda ipotesi in cui il licenziamento è legittimo è quella del cosiddetto «giustificato motivo oggettivo», quello cioè dettato dalla impossibilità della prestazione lavorativa per sopravvenuta incapacità del dipendente (e sempre che lo stesso non possa essere ricollocato in mansioni equivalenti). Si pensi al caso di una persona che, divenuta non vedente, non possa più svolgere funzioni di segreteria; a un addetto alle vendite che non è più in grado di stare in piedi per molte ore; a una donna che, per via di una grave operazione, sia costretta ogni tre ore a prenderne una di riposo, ecc.

Ma il licenziamento non è l’unica soluzione che ha il datore di lavoro: questi può anche disporre la sospensione dello stipendio per i giorni di assenza ingiustificata o determinati da impossibilità della prestazione.

La sospensione dello stipendio
Dopo aver passato in rassegna cosa succede quando il dipendente si assenta dal lavoro, cerchiamo di comprendere se, nei casi di assenza ingiustificata o determinata da una impossibilità fisica a svolgere le mansioni, è possibile sospendere il pagamento della busta paga. In altre parole, se il dipendente non va al lavoro ha diritto allo stipendio?
A riguardo la Cassazione ha affermato che nel contratto di lavoro «ciascuna parte può valersi dell’eccezione di inadempimento prevista dal codice civile» in base alla quale, se una parte non adempie ai propri obblighi l’altra può esimersi dal rispettare i suoi. Alla inadempienza del lavoratore il datore di lavoro non deve necessariamente reagire solo con sanzioni disciplinari o, al limite, con il licenziamento, oppure col rifiuto di ricevere la prestazione parziale e con la richiesta di risarcimento dei danni. Ne consegue che «nel caso di inadempimento della prestazione lavorativa il datore di lavoro non è tenuto al pagamento delle retribuzioni». Detto in parole più semplici, non è dovuta la retribuzione durante il periodo di sospensione del rapporto, salvo che si verta in una delle ipotesi in cui la sospensione è tutelata dalla legge, quale la malattia.

I casi in cui si può non pagare lo stipendio al dipendente che non va al lavoro sono essenzialmente due:

assenza ingiustificata (fuori cioè dai casi di malattia, infortunio, permessi, congedi, gravidanza, puerperio, ecc.);

assenza determinata da impossibilità sopravvenuta allo svolgimento della prestazione lavorativa. Si tratta delle ipotesi che abbiamo esemplificato poc’anzi: un addetto ai trasporti che non può più guidare per una patologia alla schiena, un pilota di aereo che perde la vista, un addetto alla sicurezza che perde l’uso di una gamba, ecc. Si tratta di situazioni collegate alle condizioni fisiche del lavoratore, divenute incompatibili con le mansioni ad esso assegnate. A differenza della prima ipotesi (assenza ingiustificata), qui il dipendente non ha alcuna colpa.

Ciò nonostante, secondo la giurisprudenza, la sospensione dal servizio per impossibilità sopravvenuta allo svolgimento della prestazione non dà diritto alla retribuzione e se prolungata nel tempo autorizza il licenziamento del dipendente qualora non sia possibile ricollocare lo stesso a mansSoni equivalenti.


martedì 19 giugno 2018

Lo stipendio può essere pignorato?



Se un lavoratore ha dei debiti e non ha intenzione di saldarli, ogni creditore potrà chiedere il pignoramento dello stipendio per soddisfare i propri crediti. La normativa, infatti, consente al creditore di aggredire anche quei beni che pur appartenendo al debitore non sono ancora nelle sue disponibilità, quale appunto lo stipendio, ma anche la pensione o il TFR. Con il pignoramento presso terzi, infatti, il creditore - su disposizione del giudice incaricato - si rivolge direttamente al datore di lavoro del debitore, il quale avrà il dovere di corrispondergli una parte di retribuzione del dipendente ai fini del soddisfacimento del credito.

Non tutto lo stipendio può essere pignorato, però, poiché al lavoratore va comunque garantito un minimo vitale. Nel dettaglio il pignoramento dello stipendio può riguardare solamente 1/5 dell'importo mensile netto. Quindi tutti gli stipendi sono pignorabili, ma l'importo varia a seconda della retribuzione percepita. Ad esempio, per uno stipendio mensile di 2.000 euro netti il pignoramento è consentito nel limite di 400 euro, mentre per uno stipendio di 500 euro si scende a 100 euro.

Discorso differente per il pignoramento dello stipendio già accreditato in banca. In questo caso, infatti, la procedura per il pignoramento è la stessa ma a cambiare sono i limiti. Dal momento che non è possibile calcolare nel dettaglio quali redditi presenti su conto corrente derivano dalla retribuzione percepita, il legislatore ha stabilito che sono pignorabili le somme depositate sul conto pari a tre volte l'assegno sociale. Quindi, considerando che questo ha un importo pari a 453 euro, il pignoramento può riguardare solamente gli importi che eccedono i 1359 euro. Sotto questa soglia, il patrimonio del debitore è al sicuro da qualsiasi aggressione.

Il calcolo del TFR è l'importo che il datore di lavoro corrisponde al lavoratore al termine del rapporto di lavoro e a richiesta dopo un periodo (anticipazione del TFR), di solito 8 anni di servizio nella stessa azienda in determinati casi stabiliti dalla legge come, ad esempio, la necessità di affrontare importanti spese medico-sanitarie. L'anticipazione è limitata al 70% dell'importo liquidato in caso di risoluzione del contratto di lavoro.

La cessione del quinto è una tipologia di prestito rivolta ai lavoratori dipendenti (pubblici, statali, di enti parastatali, di aziende private) e da qualche anno a questa parte ai lavoratori in pensione definita cessione del quinto pensionati, ovvero ai soggetti che possono contare su una busta paga o una pensione su cui può essere addebitata la rata del finanziamento.

Nella miriade di offerte che ci sono nella galassia dei prestiti personali un italiano su quattro si affida alla cessione del quinto dello stipendio. Sono questi i risultati di un'indagine svolta dai portali Facile.it e Prestiti.it, secondo cui a richiedere questa forma di prestito sono soprattutto dipendenti e pensionati.

La cessione del quinto della pensione deve essere un prestito personale a tasso fisso e rata costante, da estinguersi mediante cessione pro solvendo di una quota della pensione fino al quinto della stessa, valutato al netto delle ritenute fiscali e fatto salvo l'importo corrispondente al trattamento minimo, per periodi non superiori a dieci anni.



martedì 20 marzo 2018

Regole sul lavoro: le differenze tra pubblico e privato



Per i lavoratori pubblici, la tutela contro i licenziamenti illegittimi non discende più dall’articolo 18, ma da una norma speciale, allargando la distanza con il lavoro privato.

Le differenze ovviamente fra dipendente pubblico o privato ci sono e sono molte, a partire non soltanto dallo stipendio ma anche dalle regole su assunzione e licenziamento.

Se secondo la maggior parte delle persone lavorare come dipendente pubblico permette di guadagnare di più rispetto a quanto previsto per i colleghi del settore privato, è bene fare alcune precisazioni perché non sempre è così.

Quali sono quindi le differenze tra un lavoratore statale dipendente del settore pubblico e cosa cambia invece per chi è assunto nel privato? Cerchiamo di seguito di dare una panoramica complessiva delle due opzioni.

Una delle prime differenze tra statali e lavoratori del settore privato riguarda le modalità di assunzione.

Per diventare dipendente pubblico, secondo quanto previsto dal comma 3 dell’art. 97 della Costituzione, è necessario superare un concorso, aperto a tutti i cittadini italiani che rispettano i requisiti per lavorare nella Pubblica Amministrazione.

I bandi di concorso per diventare dipendente statale vengono periodicamente pubblicati in Gazzetta Ufficiale e, salvo specifici casi in cui sono previste deroghe alla normativa, l’assunzione come dipendente pubblico avviene sulla base della graduatoria di merito relativa all’esito del concorso.

Al contrario, come noto a chi si è imbattuto in qualsiasi offerta di lavoro, per lavorare come dipendente privato è necessario inviare la propria candidatura e il proprio curriculum vitae debitamente compilato presso l’azienda che offre opportunità di lavoro. Sarà il datore di lavoro o il selezionatore responsabile delle risorse umane a scegliere quale dipendente assumere sulla base di valutazioni inerenti ai bisogni dell’azienda.

Una delle differenze maggiori tra il lavoro nella Pubblica Amministrazione e come dipendente di azienda privata riguarda lo stipendio.

I dipendenti statali guadagnano in media 2.000 euro all’anno in più di un dipendente privato, questo secondo il confronto tra gli stipendi di dipendenti pubblici e privati. Se lo stipendio di un dipendente pubblico è pari a 34.289 euro, un dipendente del settore privato può vantare una retribuzione pari a 32.315 euro, una differenza che certamente non è eccessiva.

Ovviamente non tutti i dipendenti statali se la passano meglio dei dipendenti del settore privato e anche nel settore pubblico bisogna fare le opportune differenze. In Italia tra i dipendenti pubblici meno pagati c’è sicuramente il personale della scuola e della sanità, con redditi annui di gran lunga inferiori rispetto a quanto guadagnato dai colleghi europei e pari a poco più di 28.000 euro all’anno.

Situazione simile per vigili del fuoco, polizia e forze armate, mentre sul fronte opposto, gli stipendi più alti sono quelli delle agenzie fiscali, con retribuzioni che per i ruoli di maggior prestigio arrivano fino a 200 mila euro annui, seguiti dai colleghi di Inps, Inail e Ministeri.

Per i dipendenti privati l’ammontare dello stipendio è determinato dal CCNL della propria categoria, messo a punto con l’accordo delle sigle sindacali rappresentati del settore e quindi il guadagno annuo può variare notevolmente sia in base al settore di lavoro che al proprio inquadramento contrattuale.

Non sempre lo stipendio di chi lavora nel settore privato è inferiore a quello di un dipendente pubblico - fatta accezione dei dirigenti della PA - e anzi è proprio nel settore privato che c’è maggiore opportunità di crescita professionale e avanzamento di carriera e, perché no, di ambire a stipendi maggiori rispetto alla media.

Uno dei temi di maggior critica riguarda le regole sui licenziamenti  manuale per i dipendenti pubblici e privati, a seguito delle due diverse discipline introdotte dall’avvento della riforma del lavoro e dall’abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Le regole attualmente in vigore introdotte con la riforma Fornero del 2012 hanno modificato quanto previsto in materia di licenziamenti individuali: in caso di licenziamento illegittimo il lavoratore avrà diritto al risarcimento proporzionale e non più alla reintegra sul posto di lavoro.
Questo tuttavia soltanto per i dipendenti privati: nei confronti degli statali in caso di licenziamento illegittimo vige ancora quanto previsto dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori: come confermato dai giudici della Corte di Cassazione.

Vediamo se è preferibile lavorare nel pubblico o nel privato? Ovviamente non esiste una risposta certa. Spesso per chi lavora nel settore pubblico il rischio è di perdere la motivazione del proprio lavoro. Fare carriera non è semplice e il rischio è di trovarsi incastrati nelle maglie della burocrazia. Mentre il vantaggio per chi lavora nel pubblico è la certezza del posto fisso che, nonostante tutto, sembra essere ancora oggi una delle priorità degli italiani.

Il problema della reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento nullo o annullabile per i dipendenti pubblici torna ad allargare di molto la distanza tra lavoro pubblico e privato, infatti sull’applicabilità o meno dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori al lavoro pubblico, mediante l’introduzione di una norma specifica nel testo unico del pubblico impiego, il legislatore ha risolto tutti i dubbi, prevedendo una norma applicabile esclusivamente ai dipendenti pubblici, secondo la quale “Il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna l’amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, e comunque in misura non superiore alle ventiquattro mensilità, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali”.

La filosofia di fondo, nel pubblico impiego, è rimasta quella della conservazione del posto, vinto dopo una selezione oggettiva. In quest’ottica, ulteriori esempi sono gli istituti della mobilità del personale e della gestione delle eccedenze: diversamente dal privato, qui non si arriva quasi mai alle espulsioni. Si viene ricollocati presso altri uffici. Anche i trasferimenti forzati hanno una serie di garanzie per l’interessato, come gli ambiti territoriali limitati.

Differenti normative esistono, inoltre, per l’utilizzo dei rapporti precari, e autonomi. Il Jobs act ha ridisegnato diverse fattispecie nel duplice tentativo di salvaguardare le esigenze di flessibilità buona delle aziende, e di rilanciare i rapporti stabili (apprendistato incluso). Nel settore pubblico, invece, queste discipline restano ancorate alla temporaneità o eccezionalità del ricorso. Non solo: nella Pa anche i contratti di lavoro autonomo e le collaborazioni ricevono, oggi, una disciplina speciale rispetto al privato.



lunedì 14 novembre 2016

INPS: cumulo stipendio e pensione



L’INPS, con la circolare n. 195/2016, ha fornito chiarimenti per la corresponsione delle mensilità aggiuntive e dell’indennità integrativa speciale sulle pensioni percepite durante lo svolgimento dell’attività lavorativa presso le Pubbliche Amministrazioni. In assenza di un intervento da parte del legislatore, dopo la dichiarazione di incostituzionalità della disciplina previgente, viene così ammesso il cumulo integrale tra pensione e retribuzione.

Quindi è stato riconosciuto integralmente il diritto dei pensionati ex-INPDAP di cumulare la tredicesima mensilità della pensione con i redditi da lavoro dipendente e autonomo.

In particolare l’INPS ha spiegato che, con riferimento alla corresponsione della tredicesima mensilità e/o dell’indennità integrativa speciale su pensioni a carico delle gestioni esclusive percepite in costanza di attività lavorativa presso lo Stato, amministrazioni pubbliche o enti pubblici, le disposizioni di cui al DPR n. 1092/1973, che prevedono la non cumulabilità tra il trattamento stipendiale e la pensione, sono state dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale nel 1989 e nel 1992.

Per questo INPS e Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali adotteranno una soluzione in via amministrativa volta al riconoscimento di tali emolumenti anche a favore di coloro che non hanno presentato ricorso in merito.

Le pensioni decorrenti dal 10 novembre 2016, saranno corrisposti integralmente e dalla stessa data gli interessati potranno richiedere alla sede INPS competente la corresponsione della tredicesima mensilità e/o dell’indennità integrativa speciale su pensione in godimento in costanza di attività lavorativa dipendente.

La circolare INPS fornisce inoltre indicazioni sull’acquisizione della domanda, sulle modalità e quantificazione del ripristino degli importi di indennità integrativa speciale e/o di tredicesima anche in ipotesi di ricorsi amministrativi pendenti o in corso di istruttoria.

Sono previsti limiti alla cumulabilità della pensione con i redditi da lavoro per:

i titolari di assegni di invalidità;

i titolari di pensioni di invalidità;

i pensionati lavoratori che trasformano il rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale.

Il richiedente la pensione di vecchiaia, la pensione di anzianità e la pensione anticipata deve cessare l’attività lavorativa subordinata per poter conseguire il diritto alla pensione. Non è necessario, invece, cessare l’attività di lavoro autonomo.

La trattenuta è effettuata nei casi previsti:
sulla retribuzione, a cura del datore di lavoro, se il pensionato presta attività lavorativa subordinata. Il datore di lavoro deve provvedere al versamento di quanto trattenuto all’INPS che eroga la pensione;

sugli arretrati di pensione, dall’INPS, in caso di tardiva liquidazione della prestazione, se il pensionato presta attività lavorativa subordinata;

sulla pensione, dall’INPS, se il pensionato è in possesso di redditi da lavoro autonomo.

Per i titolari di assegno di invalidità la legge prevede un doppio taglio dell’assegno se il titolare continua a lavorare. La pensione si riduce del 25% se il reddito supera quattro volte il trattamento minimo annuo e del 50% se supera cinque volte.

Se l'assegno ridotto resta comunque superiore al trattamento minimo può subire un secondo taglio.

Ciò dipende dall’anzianità contributiva sulla base della quale è stato calcolato:
con almeno 40 anni di contributi non c'è alcuna trattenuta aggiuntiva, perché in questo caso l'assegno è interamente cumulabile con il reddito da lavoro dipendente o autonomo;
con meno di 40 anni di contributi scatta la seconda trattenuta che varia a seconda che il reddito provenga da lavoro dipendente o autonomo.

Nel primo caso è pari al 50% della quota eccedente il trattamento minimo. Nel secondo caso invece è pari al 30% della quota eccedente il trattamento minimo e comunque non può essere superiore al 30% del reddito prodotto.

In caso di trasformazione dell’assegno in pensione di vecchiaia la pensione è cumulabile con i redditi da lavoro.

PENSIONE DI INVALIDITA’

Se la pensione di invalidità è superiore al trattamento minimo può subire una trattenuta. Ciò dipende dall’anzianità contributiva sulla base della quale è stata calcolata:

con almeno 40 anni di contributi non si effettua la trattenuta, perché in questo caso la pensione di
invalidità è cumulabile con il reddito da lavoro dipendente o autonomo;

con meno di 40 anni di contributi si effettua la trattenuta che varia a seconda che il reddito provenga da lavoro dipendente o autonomo.

Nel primo caso è pari al 50% della quota eccedente il trattamento minimo. Nel secondo caso invece è pari al 30% della quota eccedente il trattamento minimo e comunque non può essere superiore al 30% del reddito prodotto.

In caso di trasformazione della pensione di invalidità in pensione di vecchiaia la pensione è cumulabile con i redditi da lavoro.

Sono altresì applicabili le norme che prevedono per il pensionato di età inferiore a quella prevista per il pensionamento di vecchiaia:

la sospensione della pensione di invalidità se il reddito derivante da lavoro dipendente, autonomo, professionale o di impresa è superiore a 3 volte l’ammontare del trattamento minimo del fondo pensioni lavoratori dipendenti calcolato in misura pari a 13 volte l’importo mensile in vigore al 1° gennaio di ciascun anno.

PENSIONE DI INABILITÀ
La pensione di inabilità è incompatibile

con qualsiasi attività lavorativa sia dipendente sia autonoma svolta in Italia o all'estero;

con l'iscrizione negli elenchi anagrafici degli operai agricoli, con l'iscrizione negli elenchi nominativi dei lavoratori autonomi o in albi professionali e con i trattamenti a carico dell'assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione e con ogni altro trattamento sostitutivo o integrativo della retribuzione.

Se si verifica una delle predette cause di incompatibilità il pensionato è tenuto a darne immediata comunicazione all'Inps che revoca la pensione di inabilità e liquida, se ricorrono le condizioni, l’assegno ordinario di invalidità con decorrenza dal primo giorno del mese successivo al verificarsi dell’incompatibilità stessa.

LA PRESENTAZIONE DELLE DICHIARAZIONI DEI REDDITI DA LAVORO
I titolari di pensione di invalidità e di assegno di invalidità interessati devono presentare la dichiarazione attestante i redditi da lavoro autonomo entro lo stesso termine previsto per la dichiarazione dei redditi ai fini dell'Irpef (mod. UNICO), al fine di determinare l’esatta misura della trattenuta da operare.

In particolare devono presentare:

la dichiarazione attestante i redditi da lavoro autonomo riferiti all'anno precedente.

la dichiarazione "a preventivo" che consenta di effettuare provvisoriamente le trattenute delle quote di pensione non cumulabili con i redditi da lavoro autonomo sulla base della dichiarazione dei redditi che prevedono di conseguire nel corso dell'anno.

I redditi da lavoro autonomo devono essere dichiarati al netto dei contributi previdenziali e assistenziali e al lordo delle ritenute erariali.

Il reddito d'impresa deve essere dichiarato al netto anche delle eventuali perdite deducibili imputabili all'anno di riferimento del reddito.

Devono presentare la dichiarazione reddituale a consuntivo anche i pensionati per i quali la situazione reddituale dichiarata a preventivo non abbia avuto variazioni.

Devono presentare la dichiarazione reddituale a preventivo anche i pensionati per i quali la situazione reddituale dell’anno in corso non è variata rispetto a quella dichiarata a consuntivo per l’anno precedente.


domenica 30 ottobre 2016

Lavorare con busta paga e Partita IVA



In alcune condizioni è possibile avere sia un lavoro dipendente o assimilato che una Partita IVA, questo significa ricevere sia una busta paga aziendale, sia redditi derivanti da lavoro autonomo. La scelta di avere un doppio reddito, da dipendente e da autonomo, può derivare ad esempio dalla necessità o dalla volontà di migliorare la propria condizione economica o anche semplicemente dalla possibilità di guadagnare degli extra facendo fruttare una propria passione o un proprio hobby.

Se si vuole intraprende questa strada, bisogna avere chiari alcuni passaggi:

versamento dei contributi INPS;

obblighi di comunicazione ai datori di lavoro;

cumulo dei redditi.

Il dipendente privato che decide di aprire una partita IVA, come ditta che sia individuale o società o come libero professionista, non deve trasgredire divieti inseriti nel contratto di lavoro. Anche per quanto riguarda la comunicazione con il proprio datore di lavoro, non esistono obblighi espliciti, potrebbe però essere comunque meglio comunicare tutte le eventuali informazioni, evitando così qualsiasi problematica.

Per quanto riguarda le regole previste dalla legge è importante ricordare l'art. 2015 del Codice Civile, che tratta l'obbligo di fedeltà da parte del lavoratore. Per questo motivo il lavoratore non può divulgare notizie riguardanti la propria azienda, o allo stesso tempo non può farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio. In caso di violazione dell'obbligo di fedeltà il dipendente può essere licenziato ed inoltre è tenuto a risarcire il datore di lavoro dei danni subiti. La violazione dell’obbligo di fedeltà costituisce inadempimento contrattuale che dà luogo a responsabilità disciplinare e, nella maggior parte dei casi, integra la giusta causa di licenziamento. Il lavoratore è inoltre tenuto al risarcimento dei danni subiti dal datore di lavoro (Cass. n. 6473/1993).

Infine per quanto riguarda contribuzione previdenziale INPS, per il dipendente a tempo indeterminato full time, che avvia un’attività d’impresa commerciale, non è necessaria l’iscrizione alla Gestione commercianti dell’INPS né il versamento di ulteriori contributi. Per un lavoratore dipendente che avvia un’attività da libero professionista, è previsto l’obbligo di iscriversi alla Gestione separata INPS versando il contributo proporzionale del 18%.

Un dipendente privato può aprire una partita IVA, come ditta individuale/società o come libero professionista, senza problemi di compatibilità, ovvero può aprire una propria attività conservando il proprio lavoro alle dipendenze di un’azienda privata a patto che non vi sia concorrenza tra lavoro svolto come dipendente e quello a partita IVA, se il contratto lo vieta espressamente. Se non vi è esplicito divieto non vi è alcun problema di coesistenza tra le due attività. In generale non vige alcun obbligo di comunicazione al datore di lavoro, anche se è generalmente conveniente informare l’azienda per non incorrere in problematiche che potrebbero portare ad un licenziamento per giusta causa.

Per quanto riguarda la contribuzione previdenziale INPS:

in caso di lavoratore dipendente a tempo indeterminato a tempo pieno (ovvero con almeno 26 ore lavorative settimanali) che avvia un’attività d’impresa commerciale, se è possibile qualificare il lavoro in azienda come prevalente sia in termini di tempo che in termini reddituali (reddito annuo come lavoratore dipendente maggiore del reddito derivante dall'attività commerciale), non è necessaria l’iscrizione alla Gestione commercianti dell’INPS né il versamento di ulteriori contributi.

Una volta avviata l’attività l’INPS invierà al lavoratore comunque una comunicazione in merito all'iscrizione del soggetto alla Gestione commercianti, tuttavia sarà sufficiente rispondere spiegando i motivi che prevedono la cancellazione dell’iscrizione e provando l’esistenza del rapporto di lavoro dipendente allegando una copia dell’ultima busta paga percepita.

Nel caso di lavoratore dipendente che avvia un’attività da libero professionista, è previsto l’obbligo di iscriversi alla Gestione separata INPS versando il contributo proporzionale del 18%;

in caso di contratto di lavoro a tempo determinato bisogna valutare se complessivamente nel corso dell’anno il periodo trascorso come lavoratore dipendente può essere o meno considerato prevalente rispetto all'attività commerciale esercitata.




venerdì 18 marzo 2016

Calcolo stipendi per lavoratori dipendenti, collaboratori e Partite IVA


Per avere un'idea più precisa della vostra retribuzione netta dovete sapere che il calcolo esatto è influenzato dai seguenti fattori detrattivi, ovvero i famosi contributi previdenziali quali IRPEF (imposta sul reddito delle persone fisiche), IVS (per l'invalidità, vecchiaia e superstiti, ovvero imposte per la pensione da versare all'INPS) e le imposte dovute per l'addizionale regionale e comunale. Al contrario, vi sono fattori che possono ridurre le detrazioni previste dal sistema contributivo: l'avere a carico una moglie, avere a carico figli, più o meno grandi e/o figli portatori di handicap sono fattori che influenzano positivamente la remunerazione mensile.

Per definire la busta paga mensile si parte dal trattamento economico annuale del personale, che è solitamente composto da 12 mensilità di uguale importo, da corrispondere posticipatamente al mese di riferimento. Per definire la retribuzione base, in base a esperienza, grado di responsabilità e autonomia, i lavoratori vengono associati a un livello (solitamente dal 1° al quadro) cui corrisponde una determinata indennità. I contratti collettivi di lavoro (CCNL) stabiliscono le retribuzioni minime relative ad ogni singolo livello di inquadramento.

In fase di contrattazione, al momento della stipula di un nuovo contratto, datore di lavoro e assunti concordano la retribuzione annua e solitamente si parla di lordo (RAL) ma ad essere concordato può essere anche il netto mensile; altre volte ad essere concordato è un aumento in busta paga, netto o lordo. In tutte queste situazioni, la corrispondenza tra stipendio netto e lordo segue precise regole, che cambiano in base a diversi elementi, ad esempio a seconda del rapporto instaurato: dipendente, di collaborazione o a partita IVA.

Per prima cosa definiamo le voci di salario non fisse, che contribuiscono a far variare il reddito netto:
aliquota IRPEF in base allo scaglione nel quale si ricade rispetto a lordo annuo e detrazioni spettanti;

aliquota contributiva applicata dall’Ente previdenziale di appartenenza;

addizionali  regionali, provinciali e comunali;

eventuale bonus in busta paga, per i dipendenti;

eventuali spese in deduzione per autonomi e professionisti (Partite IVA).

Tra gli altri elementi da considerare:

il regime fiscale nel quale rientra il collaboratore a partita IVA (contabilità ordinaria o Regime dei Minimi);

la quota INPS a carico del lavoratore, che in caso di contratto a progetto è pari ad 1/3 e in caso di  dipendente al 9,19% del lordo.

Dunque, per calcolare in maniera esatta il netto in busta paga è necessario conoscere tutti gli elementi specifici legati ai singoli contratti o inquadramenti particolari per autonomi e professionisti.

Sottolineiamo poi che, per il calcolo effettivo delle tasse che il lavoratore dovrà versare a fine anno, devono essere considerati anche gli altri eventuali altri redditi percepiti.

In ogni caso, per avere un’idea di massima di quello che sarà il netto in busta paga del collaboratore o del dipendente, è possibile calcolare una percentuale di ritenute (IRPEF, previdenza, TFR, etc.) che va dal 25% al 40%, crescente progressivamente con l’aumentare del reddito totale annuo del lavoratore.

Tra gli elementi variabili della busta paga rientrano: straordinari, indennità: per turni, per notturno, di disagiata sede, trasferta, sussidi e assegni per familiari a carico, tredicesima e quattordicesima, lavoro festivo, giorni malattia retribuiti, rimborsi e conguagli, premi.

La quota retribuzione per lavoro notturno, per esempio, nel 2016 è di nuovo tassata con l’imposta sostitutiva del 10% in luogo dell’ordinaria tassazione ad aliquote IRPEF progressive, indipendentemente dalla frequenza con cui il lavoratore viene impiegato nei turni di notte. Per premio di produzione si intende l’incentivo offerto ai dipendenti allo scopo di migliorare servizio e competitività dell’azienda. Vengono definiti obiettivi e programmi a carattere aziendale, di gruppo o individuali. Gli obiettivi, solitamente annuali, devono essere consegnati in tempo utile affinché si possa predisporre un’adeguata programmazione.

giovedì 8 ottobre 2015

I congedi di maternità, paternità e parentali come cambiano


Per quest’anno i genitori possono chiedere il congedo non più fino a 8 ma fino a 12 anni di vita del bambino. Inoltre, il Jobs Act alza anche da 3 a 6 anni i limiti temporali di indennizzo, nel quale il genitore in congedo percepisce il 30% dello stipendio. La stessa norma si applica ai casi di adozione o affidamento. La riforma  consente ai genitori lavoratori o lavoratrici dipendenti di fruire dei periodi di congedo parentale residui fino a 12 anni di vita del figlio oppure fino ai 12 anni dall’ingresso in famiglia del minore adottato o affidato. Tale estensione è possibile per i periodi di congedo fruiti dal 25 giugno 2015 al 31 dicembre 2015.

Inoltre i periodi congedo parentale fruiti da 3 a 6 anni di vita del figlio oppure da 3 a 6 anni dall’ingresso in famiglia del minore adottato o affidato sono indennizzati, entro il limite massimo complessivo tra i due genitori di 6 mesi, nella misura del 30% della retribuzione media giornaliera, a prescindere dalle condizioni di reddito del genitore richiedente.

I periodi di congedo parentale fruiti tra gli 8 anni ed i 12 anni di vita del bambino, oppure tra gli 8 anni ed i 12 anni dall’ingresso in famiglia del minore adottato o affidato, non sono in ogni caso indennizzabili.

Resta possibile estendere l’indennizzo per periodi di congedo ulteriori rispetto ai 6 mesi, oppure fra i 6 e gli 8 anni del bambino, se il reddito individuale del genitore richiedente è inferiore a 2,5 volte il trattamento minimo di pensione a carico dell’assicurazione generale obbligatoria. Tale limite di reddito, annualmente rivalutato, è pari per l’anno 2015 ad euro 6mila 531,07. I periodi che vanno dagli 8 ai 12 anni di vita del figlio, non sono mai indennizzabili. La fruizione del congedo parentale è sempre coperta da contribuzione figurativa fino ai 12 anni del figlio (quindi anche per i periodi non indennizzati).

Nel caso in cui i genitori abbiano già fruito solo in parte del congedo parentale nei primi 8 anni di vita del figlio, possono utilizzare i giorni rimanenti fino al compimento del 12esimo anno di età, a partire dal 25 giugno. In questo caso, come spiegato dall’INPS per il solo mese di luglio si presenta domanda cartacea usando l’apposito modulo INPS, per consentire l’adeguamento del sistema informatico per la richiesta online (che continua a funzionare per le richieste relative ai primi 8 anni di vita del bambino). La norma si applica anche per i casi di adozione e affidamento, in questo caso i 12 anni partono dall’ingresso del minore in famiglia (i congedi non possono comunque essere fruiti quando il figlio diventa maggiorenne).

Durata del congedo

limite individuale pari a 6 mesi, elevabile a 7 nel caso in cui il padre lavoratore dipendente fruisca di almeno 3 mesi di congedo parentale;

limite complessivo tra i genitori pari a 10 mesi, elevabili a 11 nel caso in cui il padre fruisca di congedo parentale per un periodo non inferiore a 3 mesi;

limite per il genitore solo pari a 10 mesi;

periodi di congedo parentale fruiti nell’arco temporale dagli 8 anni ai 12 anni di vita del bambino, oppure dagli 8 anni ai 12 anni dall’ingresso in famiglia del minore adottato o affidato non sono in alcun caso indennizzati.

Rispetto alla disciplina previgente - che individuava negli 8 anni di vita del bambino, oppure negli 8 anni dall’ingresso in famiglia del minore adottato o affidato, il limite temporale oltre il quale non era più possibile fruire del congedo parentale – l’attuale disciplina estende l’arco temporale di fruibilità del congedo dagli 8 ai 12 anni.

Esempio: genitore “solo” di un figlio che ha già 11 anni di vita, per il quale residuino ancora 10 mesi di congedo parentale. Il congedo è fruibile fino ai 12 anni di vita ma non è indennizzabile.
genitore, lavoratrice o lavoratore dipendente, ha diritto all’indennità di congedo parentale, pari al 30% della retribuzione media giornaliera, per un periodo massimo complessivo tra i genitori di 6 mesi, fruiti entro i 6 anni di vita del bambino oppure entro i 6 anni dall’ingresso in famiglia del minore adottato o affidato.

Quindi, rispetto alla disciplina precedente - che prevedeva l’indennizzo del 30% per un periodo complessivo di sei mesi di congedo parentale fruito fino a 3 anni di vita del bambino, oppure fino a 3 anni dall’ingresso in famiglia del minore adottato o affidato – l’attuale disciplina comporta che anche i periodi di congedo parentale fruiti dai 3 a 6 anni siano indennizzati a prescindere dal reddito del genitore richiedente.

Esempio 1: genitore di un figlio che ha 5 anni, per il quale residuino ancora periodi di congedo parentale. Questi periodi residui, se fruiti tra il 25 giugno ed il 31 dicembre 2015, danno diritto all’indennità al 30% purché i periodi di congedo fruiti da entrambi i genitori non superino i 6 mesi.

Se la fruizione dei periodi supera i 6 mesi complessivi tra i genitori, il congedo è indennizzabile subordinatamente alle condizioni di reddito.

Le finalità delle misure del provvedimento sono quelle precipue di tutelare la maternità delle lavoratrici – ma in verità le norme guardano con attenzione anche alla tutela della paternità dei lavoratori – e favorire le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per la generalità dei lavoratori.

sabato 15 marzo 2014

Irpef e detrazioni: ecco come dovrebbe aumentare la busta paga




Taglio lineare dell'Irap con sforbiciata alle aliquote; detrazione Irpef che passa da 1.880 a 2.400 euro e si allarga a tutti i redditi fino a 20mila euro, contro gli 8mila attuali, per modularsi poi in discesa man mano che i redditi salgono e azzerarsi a quota 55mila euro, come accade adesso. All'aumentare del reddito, invece, lo sconto fiscale per i dipendenti si abbassa progressivamente, per annullarsi poi una volta raggiunta la soglia dei 55mila euro di retribuzione lorda annua.

Quindi si potrebbe verificare un aumento delle detrazioni per lavoro dipendente, allo scopo di far scendere l'irpef e far salire gli stipendi. È la soluzione che il governo e i tecnici stanno studiando, per tener fede alla promessa di Matteo Renzi di aumentare i salari netti di circa 80-85 euro al mese, per chi ne guadagna meno di 1.500.

Il percorso più facile per arrivare a questo esito consiste appunto in un aumento delle detrazioni, cioè della somme che ogni anno i contribuenti possono sottrarre dall'importo dell'Irpef (imposta sui redditi delle persone fisiche ) dovuta all'erario. Di detrazioni Irpef nel nostro sistema fiscale ne esistono diverse: ci sono per esempio quelle per i carichi di famiglia, cioè per i coniugi o i figli a carico, quelle per le spese sanitarie e ci sono anche quelle che derivano dalla situazione professionale del contribuente.

In pratica, una volta calcolata l'imposta lorda, i pensionati possono detrarre dall'importo dovuto una cifra fino a 1.783 euro, mentre i lavoratori autonomi beneficiano di uno sconto massimo di 1.100 euro circa. Un po' più fortunati sono invece i lavoratori dipendenti che, con le regole attuali stabilite dal governo Letta, hanno diritto a una detrazione massima di 1.880 euro, riconosciuta a chi guadagna poco più di 8mila euro lordi l'anno.

Per abbassare la tassa Irpef soltanto ai lavoratori dipendenti, basta agire proprio sulle detrazioni a loro identificate, escludendo i pensionati e gli autonomi. Per chi guadagna tra 20mila e 25mila euro lordi all'anno (tra 1.250 e 1.500 netti al mese) la detrazione per lavoro dipendente aumenterebbe (rispetto a quella fissata oggi) di una cifra tra 1.020 e 1.060 euro annui, facendo scendere l'irpef dovuta (e crescere lo stipendio) di circa 80 euro al mese, considerando anche la tredicesima. E' in questa fascia di reddito, compresa appunto tra 20mila e 25mila euro annui, che si concentreranno i benefici maggiori.

Discorso diverso, invece, per i dipendenti che guadagnano meno di 20mila euro all'anno. Se le ipotesi in circolazione saranno confermate, questi lavoratori devono aspettarsi un taglio dell'irpef e un aumento di stipendio minori rispetto a quelli calcolati sopra (o addirittura, in certi casi, non ci sarà nessun aumento). Esempio: chi guadagna meno di 8mila euro lordi annui (poco più di 600 euro netti al mese), già oggi non paga nulla di irpef e dunque non vedrà la busta paga salire neppure di un centesimo per effetto dell'aumento delle detrazioni. Un po' più fortunato è in teoria un lavoratore con una retribuzione lorda di 16mila euro ogni 12 mesi, che corrispondono a poco più di mille euro netti. In questo caso, la manovra del governo farà crescere il reddito di quasi 880 euro all'anno che, sempre tenendo conto anche della tredicesima, corrispondono a un aumento medio superiore a 70 euro al mese.

Se però lo stesso contribuente ha un coniuge e due figli a carico, rischia paradossalmente di rimanere beffato. Oggi, infatti, con le detrazioni per i carichi di famiglia che già esistono, anche questo lavoratore non paga nulla di irpef e riceve uno stipendio netto ben più alto di un suo collega single (1.200 euro circa al mese, contro i mille dell'altro). Dunque, la retribuzione netta del contribuente con i familiari a carico, a differenza di quella del collega single, rimarrà ferma anche dopo la manovra di Renzi.

Per conoscere i dettagli reali della riduzione delle tasse per lavoratori e imprese si dovrà comunque aspettare la stesura del decreto legge che, vista la data fissata da Renzi con gli aumenti delle buste paga di fine maggio, andrà definito e approvato dal Governo entro la fine di marzo 2014.

mercoledì 12 febbraio 2014

La busta paga virtuale delle casalinghe quanto vale ? 7mila euro al mese



Le banche, gli istituti di credito e gli enti finanziari hanno qualche difficoltà a concedere prestiti a casalinghe senza reddito. L’assenza di una busta paga percepita mensilmente, infatti, corrisponde ad una mancata garanzia di pagamento. Tuttavia, esistono dei prestiti personali a tassi particolarmente agevolati pensati proprio per le casalinghe senza reddito.

La casalinga che ha bisogno di una certa somma per fare acquisti inerenti alla propria abitazione o per pagare i lavori di restauro o di messa a norma degli impianti, può rivolgersi alle banche, agli istituti di credito o alle finanziarie per ottenere un prestito di circa tremila euro, da poter restituire in un lasso di tempo prestabilito con interessi agevolati.

Se la cifra di cui ha bisogno è più alta, la casalinga può presentare la firma di un garante, una terza persona che si impegni a restituire personalmente le rate qualora lei fosse impossibilitata a farlo.

I prestiti alle casalinghe senza busta paga rientrano nella categoria dei prestiti personali. Si tratta di prestiti considerati “rischiosi” dalle Banche proprio perché i richiedenti non godono di un reddito assicurato da un regolare contratto di lavoro.


Cuoca, insegnante, addetta alle pulizie, lavandaia, babysitter. Molte professioni per una sola casalinga ma, ufficialmente,non si lavora en no si guadagna. Stipendio effettivo? Zero euro. Retribuzione teorica ai prezzi di mercato? Quasi 7mila euro al mese. Circa 83 mila euro l’anno. Non una cifra a caso, ma il risultato di un preciso algoritmo — calcolato da una ricerca del sito americano Salary. com che monetizza la rivincita delle donne che stanno in casa .

Gli esperti hanno intervistato oltre sei mila donne, indagando sul tempo che dedicano ai dieci fondamentali lavori domestici ogni settimana. Una casalinga avrebbe cucinato per 14 ore settimanali a 10 euro l’ora. Si sarebbe trasformata in autista, per figli grandi e piccoli, per 8 ore alla settimana a 10 euro l’ora. Avrebbe impartito ripetizioni per 13 ore la settimana, alla stessa cifra. Non solo. Per tamponare le varie crisi familiari si sarebbe trasformata in psicologa almeno 7 ore alla settimana, a 28 euro l’ora, e in manager a 40 euro l’ora.

A quanto ammonterebbe dunque lo stipendio di una super mamma? Il risultato si ottiene moltiplicando il numero di ore trascorse, tra una lavatrice e una corsa per portare i figli in piscina, con le tariffe medie delle diverse categorie professionali. La somma finale, niente affatto trascurabile, è pari a quella di un quadro di un’azienda o di un manager di buon livello: 6.971 euro al mese. Faticando una media di 94 ore alla settimana, le “non lavoratrici” raggiungerebbero così un reddito annuo di 83 mila euro.

Le casalinghe italiane, secondo i dati Istat, sono 4 milioni 879 mila. Una donna su sei. In parecchi casi sotto i 35 anni. Per tutte loro, considerate ingiustamente non produttive dal punto di vista economico, il sondaggio di Salary. com rivoluziona le cose e regala una bella gratificazione. «Se non ci fossero le mamme come farebbero molte famiglie a conciliare i vari impegni? Chi andrebbe a prendere i bimbi a scuola visto che gli orari non si conciliano mai con quelli degli uffici? La realtà è che fanno risparmiare parecchi soldi allo Stato», ama commentare Tina Leonzi, fondatrice del Moica, Movimento italiano casalinghe

Come tutelare dunque il lavoro reale rispetto al non lavoro percepito? «Sicuramente un’ipotesi pensionistica sarebbe auspicabile, noi abbiamo più volte avanzato la richiesta che nell’età della pensione di ogni lavoratrice fosse riconosciuto uno sconto per ogni figlio avuto, ma anche un reddito minimo per quelle che non hanno un impiego sarebbe un segno di civiltà ». In attesa che le cose cambino le donne fanno fronte comune. Oltre al Moica o a Federcasalinghe, è nato il portale la Casalinga Ideale.it. «Ottimizzare il tempo e pianificare» è il mantra della fondatrice Giorgia Giorgi, lo stesso dei responsabili delle aziende di tutto il mondo. Peccato però che per la casalinga ideale non ci siano stipendi e neppure bonus. Almeno fino a oggi.

Per stabilire quale sia il prestito personale per casalinghe senza busta paga più adeguato al proprio caso è opportuno confrontare il maggior numero di preventivi possibile, prestando grande attenzione alle condizioni di restituzione e all’entità dei tassi di interesse che vengono applicati.

Richiedere i preventivi è un procedimento semplice e veloce che può essere eseguito online. Collegandosi ai siti specifici della banca, dell’istituto di credito o dell’ente finanziario al quale si è interessati si può accedere alla sezione dedicata ai prestiti personali senza busta paga.

martedì 7 gennaio 2014

Scuola dal 2014, professori perdono 150 euro al mese in busta paga


Rientro in classe acre per gli insegnanti italiani. Alla ripresa delle lezioni, dopo la pausa natalizia 2013, si sono trovati di fronte alla sorpresa di un taglio di 150 euro mensili in busta paga.

Il ministero dell'Economia, chiede la restituzione degli scatti stipendiali già percepiti nel 2013 con una trattenuta appunto di 150 euro mensili, a partire da gennaio 2014. Un'iniziativa che ha incendiato gli animi.

I sindacati, infuriati, minacciano lo sciopero. E il ministro dell'Istruzione, Maria Chiara Carrozza, si é schierata al loro fianco scrivendo a Fabrizio Saccomanni. Al titolare del dicastero dell'Economia ha chiesto di sospendere la procedura di recupero degli "scatti" stipendiali per il 2013 segnalando,, l'urgenza di un intervento in questo senso dal momento - ha spiegato nella missiva - che nei prossimi giorni si procederà ai conteggi per gli stipendi di gennaio e quindi a operare le trattenute per il recupero della tranche prevista.

Ma il ministero dell'Economia ha fatto notare che "il recupero delle somme é un atto dovuto da parte dell'amministrazione perché il Dpr n.122 entrato in vigore il 9 novembre ha esteso il blocco degli scatti a tutto il 2013". Poi - spiegano al Mef - "se all'interno del ministero dell'Istruzione si riescono a individuare economie, razionalizzazioni di spesa che consentono di recuperare una cifra sufficiente da utilizzare per il pagamento dello scatto in questione ovviamente questo si farà".

I sindacati già da giorni protestano con forza. "Le istruzioni impartite dal Ministero dell'Economia per un graduale recupero degli scatti maturati nel 2012 costituiscono una decisione inaccettabile che va bloccata, una vera e propria provocazione che se attuata non potrà rimanere senza risposta" ha tuonato il segretario generale della Cisl Scuola Francesco Scrima. E dalla Gilda é arrivato un aut aut: "Siamo stanchi di aspettare: vengano restituiti ai docenti gli scatti degli stipendi 2012 o sarà sciopero generale". Per la Flc-Cgil si assiste "ancora una volta a un pesante intervento sui diritti acquisiti dei lavoratori della scuola, che saranno costretti a restituire le somme legittimamente e giustamente percepite".

"La scuola - ricorda il sindacato guidato da Mimmo Pantaleo - ha già contribuito pesantemente al risanamento dei conti pubblici, finanziandolo con i tagli di personale (8 miliardi di euro), con il blocco del contratto di lavoro, con il taglio del salario e con l'aumento dei carichi di lavoro". Il segretario generale della Uil scuola, Massimo Di Menna, parla di "situazione gravissima, mai accaduta prima". La nota del ministero dell'Economia del 27 dicembre - ricorda - "produce come effetto che, senza che nessuno sia stato avvertito, senza che sia stata fornita nessuna spiegazione, si procede con il prelievo nello stipendio. Come a dire, poiché la scuola è centrale nelle scelte di Governo, apriamo il nuovo anno togliendo parte della retribuzione di quelli che l'avevano legittimamente percepita, perché le regole sono cambiate. Il decreto, che viene interpretato in modo retroattivo, è di novembre e decide di togliere gli aumenti maturati a gennaio. Ed è qui il pasticcio vero, con un Governo che, in questa vicenda, infila un errore dopo l'altro, trattando il personale della scuola anziché come lavoratori titolari di diritti, come sudditi".

Il segretario generale della Uil scuola, Massimo Di Menna, parla di «situazione gravissima, mai accaduta prima». La nota del ministero dell'Economia del 27 dicembre - ricorda - «produce come effetto che, senza che nessuno sia stato avvertito, senza che sia stata fornita nessuna spiegazione, si procede con il prelievo nello stipendio. Come a dire, poichè la scuola è centrale nelle scelte di Governo, apriamo il nuovo anno togliendo parte della retribuzione di quelli che l'avevano legittimamente percepita, perchè le regole sono cambiate. Il decreto, che viene interpretato in modo retroattivo, è di novembre e decide di togliere gli aumenti maturati a gennaio. Ed è qui il pasticcio vero, con un Governo che, in questa vicenda, infila un errore dopo l'altro, trattando il personale della scuola anziché come lavoratori titolari di diritti, come sudditi».

«Le istruzioni impartite dal Ministero dell'Economia per un graduale recupero degli scatti maturati nel 2012 costituiscono una decisione inaccettabile che va bloccata, una vera e propria provocazione che se attuata non potrà rimanere senza risposta» ha tuonato il segretario generale della Cisl Scuola Francesco Scrima.

domenica 24 febbraio 2013

Motivazione del personale e l’aspetto retributivo


I lavoratori devono essere motivati per fornire buone prestazioni. Una retribuzione appropriata, oltre a valori immateriali quali le possibilità di formazione e di sviluppo nonché impegni accattivanti, sono fondamentali.
Non esistono regolamentazioni circa gli stipendi minimi nell'ambito dei rapporti di lavoro privati, a meno che non sussista un contratto collettivo di lavoro (CCNL) che lo preveda. Lo stipendio è dunque soprattutto una questione che va negoziata.

Un stipendio corretto dovrebbe almeno:
corrispondere alle prestazioni del collaboratore
considerare gli sforzi richiesti dalla posizione
essere in conformità col mercato
rientrare nell'ambito delle possibilità dell'impresa
rispettare diritto ed etica (ad es. stipendi minimi che assicurino l'esistenza)

Il sistema salariale inoltre dovrebbe essere privo di contraddizioni e apparire corretto.
Mentre molti lavoratori in passato erano suddivisi per classi salariali fisse, oggi vengono impiegate sempre di più fasce salariali individuali. Questo significa che il stipendio iniziale e lo stipendio massimo sono definiti per ciascuna fascia. Lo stipendio viene stabilito individualmente entro queste fasce.

Sempre più datori di lavoro versano inoltre quote salariali variabili e questo non solo ai dirigenti. Una determinata parte del stipendio dipende dunque dal successo dell'impresa, del team o del singolo collaboratore.

Se un datore di lavoro decide di versare i bonus deve prestare particolare attenzione ai seguenti punti:

a quanto ammonta l'importo complessivo da versare?

qual è la base di valutazione? (utile, soddisfazione dei clienti ecc.)

com'è la chiave di distribuzione? (anzianità di servizio, scala gerarchica, sistema a punti ecc.)

cosa comprende il bonus? (denaro contante, azioni ecc.)

Lo stipendio di base deve garantire una retribuzione commisurata agli impegni. A questo si aggiunge l'esperienza con cui si premia il collaboratore o la collaboratrice. La parte relativa alla prestazione viene valutata con la qualifica e una retribuzione corrispondente.

Un'ulteriore parte del stipendio è quella sociale che comprende assegni per i figli, assegni familiari e contributi alle assicurazioni sociali. Infine, vi si possono aggiungere anche gratifiche, provvigioni o prestazioni accessorie al stipendio, i cosiddetti fringe benefits (ad es. ferie gratuite nella casa di vacanza della ditta).

Lo stipendio a tempo è la forma più frequente di retribuzione. Altre forme sono il stipendio a cottimo o il stipendio a premi. Indipendentemente dalla forma scelta, per ogni versamento va sempre allestito un conteggio del stipendio che indichi:
stipendio e eventuali provvigioni (ad es. stipendio mensile, da cui risulta il stipendio lordo)
deduzioni sociali (AVS, AD, cassa pensioni, assicurazione contro gli infortuni non professionali ecc., da cui risulta il stipendio netto)
spese (secondo conteggio o forfait)
assegni (ad es. assegni per figli)
saldo ferie
eventuali prestazioni pro rata (ad es. 13esima mensilità in caso di partenza nel corso dell'anno)
importo da versare e conto

Le spese sono una questione che riguarda il datore di lavoro. Stando alla legge, i lavoratori hanno diritto al rimborso di tutte le spese, al più tardi col versamento del stipendio.

Tuttavia, sussiste una certa libertà d'interpretazione circa cosa si possa definire come spese e cosa no. Le spese di tragitto casa-lavoro e viceversa ad esempio sono a carico del collaboratore, a condizione che non sia stato stabilito diversamente. Se un dipendente deve utilizzare la propria automobile durante il lavoro, ha diritto a un risarcimento, a patto che l'uso dell'automobile privata sia stato discusso prima col datore di lavoro. Il datore di lavoro può anche versare ai lavoratori un importo forfetario per le spese, il quale dovrà coprire mediamente le spese.

I bonus e le gratificazioni si differenziano nel modo seguente: i bonus (e anche la 13ma mensilità) sono componenti salariali stabiliti da un contratto, le gratificazioni invece no. Quindi le imprese devono definire in maniera corretta il tipo di gratificazione al momento di redigere il contratto di lavoro.

Una gratificazione può diventare parte salariale fissa quando l'impresa retribuisce di sua spontanea volontà e senza riserve un importo sempre uguale nel corso di più anni. I tribunali del lavoro considerano questo tipo di retribuzione un "accordo contrattuale tacito" e quindi vincolante.

sabato 2 febbraio 2013

Busta paga 2013: come leggere le voci retributive

La busta paga è il documento necessario per tutti i dipendenti, che attesta la retribuzione netta e lorda del lavoratore e serve per verificare lo stipendio percepito e la sua congruità con quanto stabilito nel contratto di lavoro. Sulla busta paga si possono inoltre verificare i contributi pensionistici versati dal datore di lavoro a vantaggio del dipendente.

In busta paga dovrà essere indicato: nome della società e del dipendente, livello e qualifica in cui questi è inquadrato, periodo di riferimento, assegni per il nucleo familiare, quantità di ferie disponibili e accantonamento per il TRF applicato. Le voci che concorrono alla formazione della base imponibile del reddito di lavoro dipendente sono: stipendio, superminimo, anzianità di servizio, indennità ad personam, premi ed incentivi.

La busta paga è un prospetto che si compone di varie parti: la testata, il corpo e il piede del prospetto.

Vediamo la testata della busta dove sono riportati i dati circa la ragione sociale, la sede e il codice fiscale dell'azienda. L’anagrafica del dipendente e il suo codice fiscale, il numero di matricola Inps e il numero posizione Inail, nonché il numero di cartellino del dipendente e la data di assunzione ed eventuale data di cessazione, nonché la qualifica del lavoratore.

Mentre la parte centrale contiene sei colonne o più, che servono per comprendere nei dettagli i dati riportati nella testata, concernenti lo stipendio e il versamento delle tasse. A sinistra sono menzionati i codici relativi alle singole voci che sono presenti nella colonna a fianco e accanto ad ogni voce compare l'importo base e i giorni o le ore lavorati.

Tutte le voci riguardanti la retribuzione sono riportati nel corpo del cedolino, nella colonna competenze e nella colonna trattenute.

Nella parte inferiore del documento retributivo, vengono riportati nel dettaglio i dati relativi all’ammontare dello stipendio, lordo e netto, l’imponibile Irpef, le detrazioni da lavoro dipendente e quelle per familiari a carico, ed infine tutte le indicazioni relative alle ferie, le ferie residue dell'anno precedente, quelle maturate nell'anno in corso e quelle godute, nonché le ferie restanti.

L’importo tabellare o minimo sindacale è la parte fissa dello stipendio, ossia la parte della retribuzione sancita da precedenti accordi sindacali e inserita nel Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro CCNL. La parte variabile è quella comprensiva di straordinari, assegni di indennità, assegni familiari, tredicesima e quattordicesima (laddove prevista) mensilità.

Riguardo i contributi, ossia parte dei soldi che vengono versati ogni mese dal dipendente e dal datore di lavoro per finanziare l'INPS, nei casi di dipendenti privati l’istituto di riferimento è l’INPS, mentre per i dipendenti pubblici è l’INPDAP. La differenza è che i contributi versati dal datore di lavoro non sono visibili sulla busta; al contrario, i contributi versati dal lavoratore sono indicati nell’apposita casella.

I contributi costituiscono il finanziamento delle prestazioni previdenziali e assistenziali, finanziamento che viene attuato mediante l'applicazione di una percentuale sulla retribuzione che il lavoratore percepisce. L’imponibile contributivo sia contributivo che fiscale, è un vero e proprio contenitore di valori che servono esclusivamente allo scopo di poter attuare una corretta tassazione da parte del datore di lavoro.

Il lavoratore è soggetto a due tipologie di trattenute, riconducibili nei contributi che finanziano l'Inps e nell’ Irpef che va allo Stato.

L’addizionale comunale viene fissata entro il 15 dicembre di ogni anno in misura fissa, tuttavia ciascun comune può stabilirla a propria discrezione. Ecco come comprendere quale aliquota è stata applicata al vostro reddito complessivo

La rata addizionale regionale. Riguardo a quale regione fare riferimento per il pagamento delle addizionali, si prenderà in considerazione la regione relativa al domicilio al 31 dicembre dell’anno per cui si versa l’addizionale.

Tra gli elementi variabili della busta paga rientrano: straordinari, indennità: per turni, per notturno, di disagiata sede, trasferta, sussidi e assegni familiari a carico, tredicesima e quattordicesima, lavoro festivo, giorni malattia retribuiti, rimborsi e conguagli, premi.

Per premio di produzione si intende un incentivo offerto ai dipendenti allo scopo di migliorare il servizio e la competitività dell’azienda. Vengono definiti obiettivi e programmi a carattere aziendale, di gruppo o individuali. Gli obiettivi, solitamente annuali, devono essere consegnati in tempo utile affinché si possa predisporre un’adeguata programmazione.

I fringe benefit sono i compensi in natura, cioè quei compensi che non sono di denaro ma di fruizione di un servizio o di un oggetto: si pensi ad esempio alla mensa aziendale, ad un auto, ad un telefonino, al vitto o all'alloggio. Questi valori possono o meno apparire nelle buste paghe, ma di certo non sfuggono alla definizione di retribuzione previdenziale e tributaria viste sopra, anche se con delle eccezioni che verranno trattate nell'apposito capitolo.

La Legge 4/1953 impone al datore di lavoro l’obbligo di consegnare la busta paga, indicando i contenuti obbligatori, tuttavia non ne fornisce un modello, pertanto ogni azienda può utilizzarne uno schema personalizzato. E’ necessario possederla per poter richiedere un mutuo bancario o un finanziamento, per rilevare elementi importanti come la retribuzione spettante al lavoratore e rivendicare eventuali differenze sull’applicazione del CCNL, e per fini pensionistici.

mercoledì 25 aprile 2012

Ocse: Italia 23ma per tasse sulle retribuzioni

Secondo i dati rilevati circa il 46% del stipendio percepito dai lavoratori finisce nelle casse del fisco e degli enti previdenziali. La diminuzione dello stipendio è in parte attribuibile, sottolineano all’Ocse, all’inflazione, cresciuta del 2% nel 2007. L’aumento effettivo delle tasse quindi avrebbe inciso sulla retribuzione degli italiani per uno 0,6%, cui tuttavia ha fatto fronte un aumento medio del livello di tassazione dello 0,2%.

La situazione reddituale migliora nel caso delle famiglie monoreddito con due figli a carico, per cui il cuneo si attesta al 33,8% (per i single si attesta sul 45,9%), comunque in aumento dal 33,3% del 2006. E' quindi superiore alla media Ocse (27,3%), dell'Europa a 15 (31,9%) e della Ue a 19 (31,8%).

L'Italia scivola dal 22° al 23° posto nella classifica dei 34 Paesi membri dell'Ocse relativa al peso delle tasse sui salari. E' quanto emerge dal rapporto Taxis wages, secondo il quale il cosiddetto cuneo fiscale nel nostro Paese è al 47,6%. L'Italia finisce dietro a Spagna, Irlanda e a tutti i grandi Stati europei, come Francia, Germania e Gran Bretagna, e viene superata dall'Ungheria.

Restando in Europa, dalla classifica Ocse emerge comunque che un inglese guadagna quasi il doppio (l'87,8% in più) di un italiano, un tedesco il 43,1% e un francese il 28,6% in più. L'Italia è nettamente sotto la media Ocse (24.660 dollari), Ue a 15 (26.434) e Ue a 19 (23.282).
L'Italia è quindi sesta nella classifica dei paesi Ocse per il peso delle tasse sui salari: il cuneo fiscale sale al 47,6% nel 2011 dal 47,2% del 2010, sopra la media del 35,3%. E' quanto emerge da un rapporto dell'organizzazione di Parigi.

domenica 4 marzo 2012

Dipendenti statali e il contributo 2% illegittimo



Per i dipendenti statali è illegittima la trattenuta del 2% dopo il passaggio da buonuscita a Tfr. Il Tar della Calabria con sentenza n.564/2012 ha dato torto alla Pubblica Amministrazione coinvolte e quindi vanno restituite ai dipendenti pubblici le somme accantonate dallo scorso anno.

Ricordiamo che dal primo gennaio del 2011 lo Stato sta trattenendo in modo illegittimo il 2 per cento dello stipendio a circa due milioni di dipendenti pubblici. E' quanto ha affermato il Tar con la sentenza di cui sopra con la quale ha condannato l’amministrazione a restituire le relative somme, con gli interessi, ai dipendenti che avevano presentato ricorso, aprendo così la strada ad azioni dello stesso tipo in tutte le Regioni di Italia.

La legge n. 122 del 2010 prescrive che oltre a bloccare il rinnovo dei contratti e a congelare per tre anni le retribuzioni dei dipendenti pubblici, cambiava il meccanismo della liquidazione, trasformando la vecchia indennità di buonuscita in un trattamento di fine rapporto (Tfr) del tutto simile a quello in vigore per i privati, secondo quanto previsto dal Codice civile. La differenza tra i due meccanismi è consistente. Per la buonuscita venivano accantonati contributi pari al 9,60 per cento sull’80 per cento della retribuzione; il 2,5 per cento (di fatto quindi il 2 sull’intero stipendio) era a carico del lavoratore. Con il Tfr invece l’accantonamento è del 6,91 sull’intera retribuzione, interamente a carico del datore di lavoro.

Come è giuridicamente noto l’art. 12, comma 10, del D.L. n. 78 del 2010 –convertito in L. n. 122 del 2010– prescrive che il computo dei trattamenti di fine servizio per i lavoratori alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, con riferimento alle anzianità contributive maturate a decorrere dal 1 gennaio del 2011, avvenga secondo la disciplina di cui all’art. 2120 Cod. Civ., con l’applicazione di un’aliquota del 6,91% sull’intera retribuzione.
Ricordiamo inoltre che le regole previste dalla legge sopra citata prevedono: l’abolizione della vecchia disciplina, in generale più vantaggiosa rispetto al Tfr, avrebbe dovuto comportare la cancellazione della trattenuta del 2,5 per cento, che i dipendenti vedono sul cedolino dello stipendio alla voce Opera di previdenza. Invece le cose sono andate diversamente. Le pubbliche amministrazioni, confortate anche da una circolare dell’Inpdap, hanno continuato a regolarsi come prima, trattenendo ogni mese quella somma (in media tra i 35-40 euro) dallo stipendio di circa due milioni di dipendenti pubblici, che avranno però al momento di lasciare il servizio una liquidazione meno favorevole. Per di più - come ha precisato l'Inpdap - nonostante il passaggio al Tfr, che per i privati si calcola su tutto lo stipendio, la base retributiva per la liquidazione dei dipendenti pubblici resterà l’80 per cento del totale: è un ulteriore elemento di disparità.

La novità normativa non riguarda tutti gli statali: sono esclusi i lavoratori assunti dal 2001 in poi, che in base ad una legge di riforma hanno già il Tfr e non la buonuscita. A loro la trattenuta non viene fatta, perché la retribuzione è stata ridotta in proporzione dal momento in cui sono stati assunti.
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