domenica 5 ottobre 2014

Amministratori di condominio: corsi di formazione, requisiti e nomina



Con l'entrata in vigore della legge 220/2012 per potere assumere l'incarico di amministratore di condominio è necessario possedere precisi requisiti.

L'art. 71-bis delle disposizioni per l'attuazione del codice civile, introdotto dalla legge di riforma, dispone infatti che può ricoprire l'incarico di amministratore di condominio solo la persona fisica o giuridica (in tal caso i requisiti devono risultare in capo ai soci, agli amministratori ed ai dipendenti incaricati di svolgere le funzioni di amministratore di condominio) che si trovi in possesso di determinati requisiti.

I requisiti introdotti dall'art. 71 bis delle disposizioni per l'attuazione del codice civile e disposizioni transitorie sono i seguenti:

•    godimento dei diritti civili;

•    assenza di condanne per delitti contro la pubblica amministrazione, l'amministrazione della giustizia, la fede pubblica, il patrimonio o per ogni altro delitto non colposo per il quale la legge commina la pena della reclusione non inferiore, nel minimo, a due anni e, nel massimo, a cinque anni;

•    assenza di misure di prevenzione divenute definitive, salvo che non sia intervenuta la riabilitazione;

•    non essere stati dichiarati interdetti o inabilitati;

•    non risultare protestati;

•    avere conseguito il diploma di scuola secondaria di secondo grado;

•    avere frequentato un corso di formazione iniziale e attività di formazione periodica in materia di amministrazione condominiale.

Si tratta di requisiti che spingono sempre più verso la professionalizzazione dell'amministratore di condominio, figura alla quale sono stai riconosciuti maggiori compiti ed attribuzioni accompagnati, ovviamente, dalle relative maggiori responsabilità.

La legge di riforma riguardo ai corsi di formazione richiedeva  alcune integrazioni e, le norme legislative (legge 21 febbraio 2014, n. 9 (decreto "Destinazione Italia"), il Ministro della giustizia, con il regolamento n. 140/2014, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 222 del 24 settembre 2014 e che entrerà in vigore il 9 ottobre 2014, è intervenuto a dettare le regole relative proprio a quell'obbligo di formazione previsto dall’  art. 71-bis. Il l Decreto Ministeriale è intervenuto, a disciplinare criteri, modalità e contenuti dei corsi di formazione e di aggiornamento obbligatori e i requisiti del responsabile scientifico e dei formatori, al fine di favorire un crescente livello di competenza, aggiornamento e qualità del professionista.

Per quanto riguarda i corsi, dovranno avere la durata di almeno 72 ore, di cui un terzo costituito da esercitazioni pratiche nel caso si tratti di quello iniziale, abilitante all'esercizio della professione, mentre per l'aggiornamento sono richiesti corsi di almeno 15 ore per ogni anno.

Gli ambiti da trattare all'interno del corso dovranno riguardare gli aspetti giuridici, tecnici, contabili, gestionali e relazionali riferibili alla materia condominiale. E' inoltre previsto un esame finale e a tal proposito il regolamento prevedendone in ogni caso l'obbligatorietà presso una sede fisica, pone di fatto un limite al già proliferante mercato di corsi online, più o meno validi e qualificanti.

Altro adempimento obbligatorio riguarda ancora la comunicazione al Ministero entro la data di inizio di ogni corso delle informazioni relative alle modalità di svolgimento, ai formatori e al responsabile scientifico.

Per quanto riguarda queste ultime due categorie, invece, potrà ricoprire il ruolo di responsabile scientifico del corso un docente in materie giuridiche, tecniche o economiche (professore o ricercatore universitario, ma anche docente di scuole secondarie di secondo grado), un avvocato o un magistrato, un professionista dell’area tecnica, che risponda ai soprarichiamati requisiti necessari per poter svolgere la professione di amministratore di condominio.

Suo compito sarà quello di verificare sia che vengano rispettati i contenuti previsti per il corso, sia che risultino documentati dai formatori i requisiti di onorabilità (ancora una volta analoghi a quelli richiesti per l'amministratore) e professionalità (competenza in materia condominiale e alternativamente possesso di laurea anche triennale, abilitazione alla libera professione, docenze o pubblicazioni).

La nomina dell'amministratore con la riforma è obbligatoria quando i condòmini sono più di quattro (attenzione: vale il numero dei proprietari, non degli alloggi). L'incarico va accettato per iscritto dall'amministratore, così come il rinnovo. Il mandato diventa annuale, rinnovabile per un anno (ma non è chiaro se per un anno solo oppure un anno dopo l'altro). Obbligatorio anche il conto corrente condominiale.

La carica è annuale e può essere confermata di anno in anno.

L’assemblea delibera, sia per la nomina che per la revoca dell’amministratore, in prima e seconda convocazione con la presenza di almeno 500 millesimi di proprietà e la maggioranza dei presenti (in ogni caso un terzo dei proprietari).

Su richiesta anche di un solo condomino può essere revocato dall’autorità giudiziaria nei seguenti casi:
 se non informa l’assemblea condominiale di una citazione o di un provvedimento giudiziario che esorbita dalle sue attribuzioni, come da art. 1131, ultimo comma, cod. civ.; se vi sono fondati sospetti di gravi irregolarità;   se per due anni non ha reso il conto della sua gestione.

E’ prevista la revoca senza giusta causa potrà essere decisa in assemblea a maggioranza,  per "gravi irregolarità" come ad esempio :

- omessa convocazione dell'assembla condominiale per il rendiconto annuale;

- la mancata  esecuzione delle delibere dell'assemblea la mancata apertura e utilizzo di un conto corrente condominiale;

- la gestione non trasparente delle entrate e uscite compresa la mancata fornitura della documentazione ai condomini che ne fanno richiesta;

 - la mancata diligenza nelle azioni giudiziarie contro i condomini morosi.

martedì 30 settembre 2014

La ricongiunzione ai fini pensionistici



La ricongiunzione dei contributi è quell’istituto che permette, a chi ha posizioni assicurative in gestioni previdenziali diverse, di riunire, mediante trasferimento, tutti i periodi contributivi presso un’unica gestione, allo scopo di ottenere una sola pensione.

La ricongiunzione retributiva riunisce in un istituto tutte le posizioni maturate in gestioni diverse. La ricongiunzione dei contributi è quell’istituto che permette a chi ha posizioni assicurative in gestioni previdenziali diverse, di riunire tutti i periodi contributivi presso un’unica gestione, allo scopo di ottenere una sola pensione.

La ricongiunzione, avviene a domanda del diretto interessato o dei suoi superstiti e deve comprendere tutti i periodi di contribuzione (obbligatoria, volontaria, figurativa, riscattata) che il lavoratore ha maturato in almeno due diverse forme previdenziali fino al momento della richiesta e che non siano già stati utilizzati per liquidare una pensione. I periodi ricongiunti sono utilizzati come se fossero sempre stati versati nel fondo in cui sono stati unificati e danno quindi diritto a pensione in base ai requisiti previsti dal fondo stesso.

La disciplina della ricongiunzione è regolata dalle seguenti leggi:

la Legge 29/1979 per i  trasferimenti tra INPS, ex INPDAP, ex ENPALS, INPGI, Gestioni speciali INPS per i lavoratori autonomi e i fondi aziendali sostitutivi dell’Assicurazione Generale Obbligatoria;

la legge 45 del 1990 sui trasferimenti di contributi tra Casse dei liberi  professionisti e le gestioni di previdenza obbligatorie.

Il Decreto Legislativo n.184 del 30 aprile 1997 ha poi ampliato la possibilità anche a chi non abbia maturato in alcuna delle predette forme il diritto a pensione, e che scelgano la liquidazione della pensione con il sistema contributivo.

La ricongiunzione, avviene a domanda del diretto interessato o dei suoi superstiti e deve comprendere tutti i periodi di contribuzione (obbligatoria, volontaria, figurativa, riscattata) che il lavoratore ha maturato in almeno due diverse forme previdenziali fino al momento della richiesta e che non siano già stati utilizzati per liquidare una pensione.

I periodi ricongiunti sono utilizzati come se fossero sempre stati versati nel fondo in cui sono stati unificati e danno quindi diritto a pensione in base ai requisiti previsti dal fondo stesso.

La ricongiunzione dei contributi provenienti dalle Gestioni speciali dei lavoratori autonomi avviene sempre con pagamento di un onere da parte del richiedente. In questo caso, la facoltà di ricongiunzione può essere esercitata a condizione che l’interessato possa far valere, successivamente alla cessazione dell’attività come lavoratore autonomo, almeno cinque anni di contribuzione in qualità di lavoratore dipendente, in una o più gestioni pensionistiche obbligatorie.

La ricongiunzione in Fondi diversi dal Fondo pensioni Lavoratori Dipendenti (art.2 della legge n.29/1979

Il lavoratore che possa far valere periodi di iscrizione:

nell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti;

in forme obbligatorie di previdenza sostitutive, esclusive od esonerative dell’assicurazione generale obbligatoria predetta;

nelle gestioni speciali per i lavoratori autonomi gestite dall’Inps si può chiedere in qualsiasi momento, ai fini del diritto e della misura di un’unica pensione, la ricongiunzione di tutti i periodi di contribuzione dei quali sia titolare. L’interessato può esercitare la facoltà di ricongiunzione presso la gestione in cui risulti iscritto all’atto della domanda ovvero nella gestione, diversa da quella di iscrizione, nella quale possa far valere almeno otto anni di contribuzione versata in costanza di effettiva attività lavorativa.

La domanda di ricongiunzione deve essere presentata alla competente sede dell’Istituto, Ente, Cassa, Fondo o gestione previdenziale nella quale si chiede di ricongiungere i diversi periodi.

La facoltà di ricongiunzione dei vari periodi in un’unica gestione può essere esercitata una sola volta. Tale facoltà può essere esercitata una seconda volta:

dopo almeno dieci anni dalla prima, con almeno cinque anni di contribuzione per effettivo lavoro

al momento del pensionamento e solo nella stessa gestione nella quale ha operato la precedente ricongiunzione.

Il trucco sugli 80 euro in busta paga



Una maggiore retribuzione a discapito di una quota di pensione inferiore. Innanzitutto le coperture per tagliare l’Irpef di 80 euro sui redditi più bassi da maggio almeno per il 2014 non sono affatto strutturali (cioè non ci sono tutti i risparmi di spesa necessari

Il datore di lavoro potrà decidere di prelevare il bonus dai contributi previdenziali dei dipendenti: poi lo Stato ripianerà lo sbilancio. Ma per ora non ci sono certezze.

Avere 80 euro in più in busta paga per almeno otto mesi è un bonus che giustifica una pensione più povera? I circa dieci milioni di lavoratori dipendenti che percepiranno la «mancia» del governo Renzi dovrebbero porsi anche questa domanda.

Il taglio del cuneo fiscale, infatti, può trasformarsi in una fastidiosissima partita di giro: si spende oggi per risparmiare domani.

Ma proprio su un capitolo decisivo come quello previdenziale. Il perché è presto spiegato. Il decreto varato dal Consiglio dei ministri, prevede che il tanto ambito bonus di 80 euro sia un «credito» e non una «detrazione». Le parole, in questo caso, sono importanti perché indicano che è compito del datore di lavoro (che in gergo fiscale si chiama «sostituto di imposta») individuare l'area nella quale effettuare il prelievo degli 80 euro da aggiungere alla busta paga.

La norma concede uno spazio di manovra abbastanza largo. Se, infatti, le ritenute Irpef non fossero sufficienti a reperire l'ammontare del bonus, il datore di lavoro potrà «estrapolare» i soldi dai contributi previdenziali, cioè dalla somma che in busta paga viene trattenuta dal reddito lordo e versata all'ente previdenziale (nella maggior parte dei casi l'Inps) per costruire la futura pensione.

Si tratta del dispositivo che era stato studiato anche per il bonus da destinare a incapienti (coloro che hanno un reddito annuo lordo inferiore a 8mila euro e pertanto non pagano tasse, ma i contributi previdenziali li versano ugualmente) e lavoratori autonomi. Con un taglio di 3-4 punti dell'aliquota contributiva gli 80 euro sarebbero pressoché garantiti, ma che ne sarebbe delle pensioni? Le vecchie bozze prevedevano una semplice comunicazione all'Agenzia delle entrate che successivamente avrebbe dovuto provvedere, a sua volta, a notificare la situazione all'Inps o a un altro ente. Questi ultimi constatano solamente che manca all'appello parte dei contributi della posizione del lavoratore. Allo Stato toccherà poi farsi carico di sanare lo sbilancio versando la parte residua.

La difficile situazione patrimoniale dell’INPS è stata soprattutto generata dall'assorbimento dell'Inpdap, il vecchio ente previdenziale dei dipendenti pubblici. Negli anni scorsi lo Stato dichiarava di aver versato i contributi dei propri dipendenti senza, in realtà, provvedervi. Nell'imminenza dell'ingresso nell'euro, quei soldi furono trasformati in anticipazioni di cassa. I contributi «figurativi» si sono così trasformati in un pozzo senza fondo che hanno determinato 25 miliardi di passivo al cui ripianamento contribuiscono i lavoratori parasubordinati cui si chiede sempre un aumento dei versamenti.

Ora se si guarda bene a quegli 80 euro, il rischio non è soltanto quello di una pensione a cui potrebbe mancare qualche «pezzo» ma specialmente quello di vedere che lo Stato prende con una mano ciò che dà con l'altra, ovvero un aumento delle aliquote contributive che generalmente rappresenta il modo più veloce per gestire eventuali «crisi».


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