martedì 6 ottobre 2015

Sono 4 le università italiane nella classifica top 200 delle aziende mondiali


Sono 26 gli atenei italiani presenti nel QS World University Rankings 2015, la classifica che da anni individua le migliori università del mondo.

Niente di nuovo nella top 10, se si esclude l'ingresso della svizzera Eth Zurich in un vertice dominato dai abituali college anglo-americani. Nell'ordine: Mit, Harvard, Cambridge, Stanford, Caltech, Oxford, University College London, Imperial College, la stessa Eth e Chicago. Qualcosa di diverso si intravede nel resto della classifica, perché il cambio di alcuni parametri ha spinto al ribasso i nostri atenei ma reso più concorrenziali i laureati italiani.

A soffrire di più è stata la ricerca. Per la prima volta in 12 edizioni, il peso delle citazioni scientifiche (citation per faculty, uno dei sei parametri, valido per il 20% del totale) è stato standardizzato tra i dipartimenti. Cioè: redistribuito in maniera uguale tra cinque macro-aree di studio, secondo un criterio che assegna ad ogni gruppo di discipline un'incidenza percentuale identica sul punteggio conclusivo (il 20%).

Il livellamento ha ridimensionato l'influenza di atenei incentrati sui settori come la ricerca medica - più rilevanti nella quantità di pubblicazioni, ma con una popolazione più ristretta di studenti - e restituito peso a quelli improntati a scienze sociali o di area umanistica: atenei come la London School of Economics hanno guadagnato decine di posizioni, dopo essere rimasti schiacciati per anni da un meccanismo che non teneva in considerazione i propri criteri di pubblicazione. «Non è stata una scelta semplice, ma ha contribuito a creare dei ranking più equi in senso generale – come ha sostenuto Simona Bizzozero, responsabile relazioni pubbliche di Qs Quacquarelli Symonds – Anche se precisiamo che si tratta di una classifica per sua natura arbitraria e fondata su nostri criteri».

I dipartimenti italiani, già penalizzati da scarsa presenza internazionale e rapporto numerico docenti-allievi (troppo pochi docenti rispetto agli allievi, ndr), hanno perso per strada fino a 50-100 posizioni tra 2014 e 2015. Tra le prime 200 si salva il solo Politecnico di Milano (187esimo, in crescita dalla 229esima posizione di un anno fa), seguito poco più giù da Università di Bologna (204esima: era 182esima l'anno scorso).

Le buone notizie vengono da uno criteri più sensibili per gli studenti: la reputazione delle università tra le aziende, cioè i datori di lavoro. Quattro italiane compaiono tra le prime 200 e 13 hanno fatto un salto in avanti rispetto alle precedenti rilevazioni. La Bocconi di Milano, neppure classificata nel ranking generale, compare addirittura al 32esimo posto, seguita di nuovo dal Politecnico di Milano (74), Università Cattolica del Sacro Cuore (143) e il Politecnico di Torino (199), mentre resta fuori di pochissimo l'Università di Bologna (207). In questo caso, a far pendere in positivo la bilancia sono due fattori. Il primo è matematico: l'allargamento del pool di datori di lavoro intervistati, passati da meno di 30mila a più di 44mila unità. Il secondo, dice Bizzozero, è «culturale» e testimonia una delle esportazioni italiane: i laureati.

«I nostri laureati e i nostri ricercatori si fanno apprezzare nel mondo, dimostrando un livello di preparazione elevatissimo, se non maggiore della media. E questo testimonia l'ottimo livello delle nostre università». Il calo nella “pagella” generale, comunque, non pregiudica le eccellenze della ricerca italiana anche agli occhi del ranking: nella top 400 compaiono 17 atenei per medicina e scienze della vita (Università di Milano alla posizione 79), 16 nelle scienze naturali (Sapienza 80esima, Politecnico 86esimo), 14 in ingegneria e tecnologia (il Politecnico è 24esimo) e altrettante negli studi umanistici (Università di Bologna, 76esima, e ancora Sapienza, 84esima) e 13 nelle scienze sociali (22esima la Bocconi, 97esima l'Università di Bologna).

Per la quarta volta consecutiva è il Massachusetts Institute of Technology (Mit) il migliore ateneo al mondo. Dopo il Mit c’è Harvard University al secondo posto, Cambridge University e Stanford in terza posizione pari merito. È quanto emerge dalla dodicesima edizione del QS World University Rankings 2015/16, la classifica internazionale delle università più popolare al mondo. Tra le prime 200 università migliori al mondo in questa classifica troviamo solo una italiana: è il Politecnico di Milano che si piazza al 187esimo posto ed entra per la prima volta tra le migliori duecento (nel 2014 si trovava al 229esimo posto). La salita nel ranking mondiale è avvenuta nonostante il Politecnico di Milano non sia di fatto presente in alcune aree disciplinari che pesano sulla valutazione complessiva: tradizioni, scienze della vita e alcune discipline sociali come ad esempio giurisprudenza.
Le novità italiane – Al 204esimo posto troviamo l'Università di Bologna e al 213esimo posto l’Università degli Studi di Roma – La Sapienza. Tra le prime 400 al mondo ci sono poi, tra le italiane, anche l'Università degli Studi di Milano (306), l'Università degli Studi di Padova (309), il Politecnico di Torino (314) e l'Università degli Studi di Pisa (367). Per quanto riguarda la top ten delle migliori università al mondo per la prima volta entra l'elvetica Eth Zurich, che si piazza al nono posto. Da segnalare anche le due principali università di Singapore che scalano la classifica e si posizionano entrambe tra le prime 15.


domenica 4 ottobre 2015

Allattamento: il riposo giornaliero è facoltativo


I riposi giornalieri per l’allattamento sono ore di riposo che possono essere richieste dalle mamme che lavorano, e in alcuni casi anche dai papà che lavorano, per avere il tempo di allattare il loro bambino.

Sono regolamentati per legge, esattamente come il congedo parentale e i congedi per malattia del bambino, e per ottenerli bisogna presentare una domanda apposita.
Le ore di riposo giornaliero per l’allattamento spettano alle mamme e in alcuni casi anche ai papà.

Se ne ha diritto se:
• una lavoratrice dipendente, sia che tu abbia messo al mondo un figlio, sia che tu abbia adottato o avuto in affidamento un bambino,
• una lavoratrice dipendente in aspettativa sindacale,
• una lavoratrice socialmente utile (LSU, LPU e ASU) e lavori a tempo pieno.

Per i riposi giornalieri è dovuta un’indennità pari al 100% della retribuzione. L’indennità è anticipata dal datore di lavoro ma è a carico dell’INPS. Ai fini della pensione, il periodo di congedo viene conteggiato per intero con l’accredito dei contributi figurativi (ossia i contributi accreditati, senza oneri a carico del lavoratore, per periodi durante i quali non ha prestato attività lavorativa). Non è richiesta nessuna anzianità contributiva pregressa.

Il datore di lavoro deve consentire alla lavoratrice madre, durante il primo anno di vita del bambino, due periodi di riposo, anche cumulabili durante la giornata. Il riposo è uno solo quando l’orario giornaliero è inferiore a sei ore ( art.39 del D.lgs.151/2001).

Tali periodi di riposo hanno la durata di un’ora ciascuno.

I periodi di riposo sono di mezz’ora ciascuno quando la lavoratrice fruisca dell’asilo nido o di altra struttura idonea, istituiti dal datore di lavoro nell’unità produttiva o nelle immediate vicinanze di essa.

Gli stessi periodi previsti per la madre sono riconosciuti al padre (art.40 del D.lgs.151/2001):
a) nel caso in cui i figli siano affidati al solo padre;
b) in alternativa alla madre dipendente che non se ne avvalga;
c) nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente;
d) in caso di morte o di grave infermità della madre.

In caso di parto plurimo, i periodi di riposo sono raddoppiati e le ore aggiuntive possono essere utilizzate anche dal padre.

Le disposizioni soprariportate si applicano anche in caso di adozione e di affidamento entro il primo anno dall’ingresso del minore nella famiglia. 

Il Ministero del lavoro nell'interpello 23 del 24 settembre 2015, risponde ai Consulenti del lavoro sui riposi giornalieri per allattamento

Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro ha presentato un quesito al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, in merito alla disciplina dei riposi giornalieri per la lavoratrice madre  - chiamati un tempo permessi per  allattamento  - durante il primo anno di vita del bambino ( D.Lgs. 26/03/2001, n. 151).

In particolare ha chiesto se, nelle ipotesi in cui la lavoratrice madre non intenda usufruire di tali riposi, spontaneamente e per proprie esigenze, al datore di lavoro si applichi la sanzione contemplata dall’art. 46 del d.lgs. 151/2001.

La Direzione Generale per l’Attività Ispettiva del Ministero del Lavoro e con interpello n. 23 del 24 settembre 2015 ha precisato che a differenza di quanto avviene nell’ipotesi di astensione obbligatoria per maternità, la lavoratrice madre può scegliere se esercitare o meno il proprio diritto, fruendo dei riposi; nell’ipotesi in cui decida di esercitarlo e il datore di lavoro non le consenta il godimento dei periodi di riposo troverà applicazione la sanzione amministrativa pecuniaria stabilita dall’art. 46 citato. Diversamente, qualora la lavoratrice madre presenti una preventiva richiesta al datore di lavoro per il godimento dei permessi giornalieri e successivamente, in modo spontaneo e per proprie esigenze non usufruisca degli stessi per alcune giornate, non sembra ravvisabile la violazione dell’art. 39 e di conseguenza non potrà trovare applicazione la misura sanzionatoria ad essa collegata.

Resta ferma la possibilità, da parte degli organi di vigilanza, di effettuare eventuali verifiche in ordine alla spontaneità della rinuncia della lavoratrice circa il godimento dei permessi in questione. Al riguardo appare pertanto opportuno che la suddetta rinuncia sia giustificata da ragioni che rispondano in modo inequivocabile ad un interesse della lavoratrice (ad es. frequenza di un corso di formazione, impossibilità di rientrare in casa in ragione di uno sciopero dei mezzi pubblici ecc.).

Garante della privacy: il datore di lavoro non può spiare le conversazioni dei dipendenti


Con provvedimento del 4 giugno del 2015, l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali ha affermato che “il datore di lavoro non può spiare le conversazioni dei dipendenti”. Il contenuto di comunicazioni di tipo elettronico o telematico scambiate dai dipendenti nell'ambito del rapporto di lavoro godono di garanzie di segretezza tutelate anche a livello costituzionale.

Il principio è stato rinnovato dal Garante privacy nell'accogliere il ricorso proposto da una dipendente che lamentava l'illecita acquisizione di conversazioni, avute con alcuni clienti/fornitori, poste poi alla base del suo licenziamento.

A seguito del provvedimento del Garante, il datore di lavoro non potrà effettuare alcun trattamento dei dati personali contenuti nelle conversazioni ottenute in modo illegittimo, limitandosi alla conservazione di quelli finora raccolti ai fini di una eventuale acquisizione da parte dell'autorità giudiziaria.

Nel caso esaminato, rileva il Garante, il datore di lavoro è in corso in una grave interferenza nelle comunicazioni, attuata, per sua stessa ammissione, attraverso l'installazione di un software sul computer assegnato alla dipendente in grado di visualizzare sia le conversazioni effettuate dalla ricorrente dalla propria postazione di lavoro prima di uscire dall'azienda, sia quelle avvenute successivamente da un computer collocato presso la propria abitazione.

Una procedura, secondo il Garante, in evidente contrasto con le "Linee guida del Garante per posta elettronica e Internet" e con le disposizioni poste dall'ordinamento a tutela della segretezza delle comunicazioni, nonché con la stessa policy aziendale approvata anche dalla competente Direzione territoriale del lavoro. Pur spettando, infatti, al datore di lavoro definire le modalità di utilizzo degli strumenti aziendali, occorre comunque che queste rispettino la libertà e la dignità dei lavoratori, nonché i principi di correttezza (secondo cui le caratteristiche essenziali dei trattamenti di dati devono essere rese note ai lavoratori), di pertinenza e non eccedenza stabiliti dal Codice privacy. Principi questi da tenere ben presenti, in considerazione del fatto che l'esercizio del controllo da parte del datore di lavoro può determinare la raccolta di informazioni personali, anche non pertinenti, di natura sensibile oppure riferite a terzi.

Infatti, afferma il Garante, pur spettando al datore di lavoro definire le modalità di utilizzo degli strumenti aziendali, occorre comunque che queste rispettino la libertà e la dignità dei lavoratori, nonché i principi di correttezza, di pertinenza e non eccedenza stabiliti dal Codice privacy.

A tal fine il Garante per la protezione dei dati personali ha pubblicato, sul proprio sito internet, la Newsletter n. 406 del 28 settembre 2015, con la quale, tra le altre cose, tratta della materia delle conversazioni telefoniche in azienda. Nel documento il Garante della privacy ha sottolineato che il datore di lavoro non può spiare le conversazioni Skype dei propri dipendenti. Il contenuto di comunicazioni di tipo elettronico o telematico scambiate dai dipendenti anche nell’ambito del rapporto di lavoro godono di garanzie di segretezza tutelate anche a livello costituzionale.

Ricordiamo che il tema del trattamento dei dati personale mediante il controllo dei lavoratori viene ulteriormente approfondito dalla nuova normativa del Jobs Act che prevede la integrale sostituzione del vigente art. 4 dello Statuto dei Lavoratori. In particolare, come noto, la nuova formulazione mira a distinguere tra controlli sugli impianti, che dovrebbero restare vietati salvo autorizzazioni particolari, da quelli sugli strumenti di lavoro, i quali, invece, sono stati liberalizzati e comunque sganciati da un’apposita procedura da seguire. In sostanza, i dispositivi aziendali potranno essere oggetto di controlli a distanza senza dover passare attraverso l’accordo con i sindacati o attraverso l’autorizzazione dell’ex ispettorato del lavoro, purché però il datore di lavoro predisponga un’informativa sulla policy di controllo che l’impresa intenda implementare, tale da rendere consapevoli i lavoratori interessati. Si affronta quindi un tema molto rilevante da inquadrare più approfonditamente in quanto fonte di cambiamento rispetto ad abitudini consolidate.
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