giovedì 22 novembre 2018

Welfare aziendale e sanità integrativa: vantaggi per aziende e lavoratori


Gli strumenti di welfare aziendale offrono oggi alle piccole e medie imprese un’opportunità strategica per intercettare i bisogni dei propri dipendenti e al contempo ottimizzare i costi interni. Eppure, la maggior parte degli attuali sistemi di welfare implementati – non ultimi quelli aziendali – stentano a risultare davvero efficaci nel centrare tali obiettivi.

Welfare alternativo ai premi in denaro
Con “welfare aziendale” ci si riferisce all’ecosistema di prestazioni e servizi che i datori di lavoro possono offrire ai dipendenti in veste di incentivo, volti in generale a migliorare qualità e stili di vita, in alternativa ai più classici premi in denaro. Si tratta di una soluzione vantaggiosa tanto per l’azienda (che risparmia in liquidità e gode di sgravi fiscali) quanto per il dipendente (che ottiene un benefit in grado di rendere più appetibile e concretamente più soddisfacente il proprio rapporto di lavoro.

Esempi di welfare aziendale
Ecco alcune possibili soluzioni di welfare aziendale che possono essere offerte ai dipendenti:

sanità integrativa attraverso contributi aggiuntivi al fondo pensione nazionale di categoria o fondi aziendali gestiti da terzi attori;

agevolazioni economiche per chi ha familiari disabili, anziani e figli a carico;

aiuti diretti come asili e scuole materne aziendali o sconti per i mezzi pubblici;

convenzioni a scopo ricreativo, sportivo e culturale estesi a tutta la famiglia;

corsi di specializzazione per acquisire competenze a costi zero;

formazione legata alla prevenzione e alla sicurezza in azienda.

Sanità integrativa come servizio di welfare
Uno dei servizi di welfare aziendale più ambiti tra i dipendenti è quello della sanità integrativa, ossia tutta quella serie di agevolazioni che consentono ai dipendenti di ottenere i rimborsi sulle spese sanitarie sostenute (spesso estese a coniuge e figli), sfruttando le convenzioni con strutture sanitarie e specialisti privati a cui il proprio datore di lavoro aderisce.

Sanità integrativa: il ruolo delle Mutue Sanitarie
Come si attua in concreto una soluzione di questo tipo? Per prima cosa bisogna rivolgersi ad uno dei soggetti che possono farsi carico dei fondi sanitari per le aziende, come ad esempio le mutue sanitarie, tra cui spiccano realtà con alle spalle una decennale tradizione di fondi aziendali radicata sul territorio italiano. Come la Mutua Sanitaria Cesare Pozzo, oggi aperta a tutti ma nata nel 1877 a per volontà dei macchinisti e fuochisti delle Ferrovie dell’Alta Italia, così da offrire loro assistenza e tutela estesa a tutte le famiglie.

Il mutualismo nasce dunque da una forza comune: dall’adesione volontaria di chi condivide condizioni di lavoro, rischi e necessità. Da qui deriva il concetto di fondo comune a scopo assistenziale: una soluzione concreta per tutelate i lavoratori in caso di infortuni e malattie assistendone al contempo le famiglie nei momenti di difficoltà lavorativa. Oggi lo scenario è ovviamente mutato ma restano radicati i capisaldi di quel modello, così come le dinamiche per cui i lavoratori di ogni settore si trovano a dover affrontare spese sanitarie per sé e le proprie famiglie a fronte di un SSN e sistemi di welfare spesso poco di supporto.

In quale, quindi, le mutue sanitarie possono aiutare in concreto aziende e lavoratori?

Fondi sanitari integrativi: i vantaggi fiscali delle Mutue Sanitarie
Parlando di fondi sanitari ci si riferisce a enti, casse e società di mutuo soccorso che raccolgono contributi di assistenza sanitaria a favore dei lavoratori dipendenti. Questi fondi da una parte tutelano il lavoratore, dall’altra sgravano l’azienda da costi e tasse aggiuntive.

Le mutue hanno il ruolo di gestire i fondi per le aziende. E spesso lo fanno “da una vita”: la più grande in Italia è proprio la Cesare Pozzo, attiva su tutto il territorio da 140 anni ed oggi selezionata da primarie realtà italiane, come ad esempio il fondo sanitario dei lavoratori di Azienda Trasporti Milanesi (ATM), del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) e Fincantieri.

Di fatto, le grandi aziende sono più propense ad attuare politiche di welfare aziendale, mentre le PMI stentano ancora a riconoscere i vantaggi che può offrire sviluppare piani di welfare aziendale strutturati e quindi efficaci. Quel che manca non è la buona volontà ma la conoscenza dei benefici offerti da queste soluzioni. Ed in questo, le società di mutuo soccorso possono intervenire in soccorso delle aziende.

Quali, dunque, i vantaggi in dettaglio di un piano di welfare aziendale per aziende e lavoratori?

Per l’azienda, ai sensi dell’art- 51 Tuir (d.p.r n.917/86), il vantaggio è di avere il solo costo del contributo di solidarietà all’INPS del 10%, versamento deducibile dal reddito di impresa ed escluso dalla retribuzione.

Per il lavoratore, il vantaggio è il rimborso delle spese sanitarie per sé e la propria famiglia. Il versamento del contributo ai fondi sanitari integrativi, inoltre, non è soggetto a tassazione per importi fino a € 3.615,20.

Un altro traguardo importante che tali soluzioni offrono è di natura socio-economica: da una parte l’azienda riesce a risparmiare e premiare i propri lavoratori con un servizio fondamentale come quello sanitario. Dall’altra il lavoratore ottiene importanti agevolazioni svincolandosi dalle lungaggini burocratiche del sistema sanitario, che spesso scoraggiano i cittadini dalla fruizione dei servizi stessi

Anche da questo punto di vista, scegliere la Cesare Pozzo vuol dire poter contare sulla più vasta rete in Italia di strutture di supporto, con diciannove sedi regionali e settanta tra presidi e sportelli, senza contare la fitta rete di centri convenzionati che permette di prenotare prestazioni sanitarie senza dover anticipare alcuna spesa.

In ultima analisi, le mutue sanitarie integrative vantano oggi una piena titolarità nel contribuire fattivamente alla creazione di uno stato sociale presente ed efficace, offrendo un servizio concreto laddove è davvero necessario, senza sprechi e mancanze, per una sostenibilità economica che dall’azienda si estende all’intero sistema.

Il datore di lavoro può detrarre l'IVA sui servizi di welfare ai dipendenti: prima ordinanza di Cassazione ma servono chiarimenti dall'Agenzia delle Entrate.

Nell'ordinanza 22332/18 Cassazione afferma che i costi sostenuti per i servizi di welfare offerti dal datore di  lavoro ai propri dipendenti  assumono  «rilevanza quali spese generali connesse al complesso delle attività economiche del soggetto passivo», per questo è legittima la detrazione dell'IVA. Nel caso specifico la detrazione Iva contestata dall'Agenzia riguardava spese per soggiorni estivi dei figli dei dipendenti, per la formazione e per il trasporto del personale.

L’ordinanza richiama nel dispositivo  due sentenze della Corte Ue che evidenziano il principio della  correlazione tra l’operazione in acquisto e l’insieme delle attività di impresa come giustificazione per  la detraibilità.

Oltre  al diritto di detrazione va anche presa in considerazione  l'eventualità dell' obbligo di assoggettare a Iva l’operazione gratuita nei confronti del dipendente.  che nel caso specifico sembra esclusa. Infatti il terzo comma dell’articolo 3 della legge sull'IVA  non ne richiede l’applicazione su  "somministrazioni nelle mense aziendali e alle prestazioni di trasporto, didattiche, educative e ricreative, di assistenza sociale e sanitaria, a favore del personale dipendente".

In tema di trattamento fiscale del Welfare e dei premi di risultato  l'agenzia ha emanato la corposa circolare 5 E qualche mese fa , ma non ha preso in considerazione il problema dell'Imposta sul valore aggiunto. Visto il recente sviluppo delle iniziative aziendali in questo senso, anche come modalità di erogazione dei premi di risultato, per cui è prevista la detassazione , risulta invece  auspicabile un intervento chiarificatore da parte del Fisco.




sabato 17 novembre 2018

Ferie non godute e indennità: quando si perdono



Se il datore di lavoro invita a fruire delle ferie e il lavoratore non lo fa, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, perde anche il diritto all'indennità sostitutiva, che invece spetta agli eredi: le sentenze della Corte di Giustizia UE.

Niente indennità sostitutiva delle ferie non fruite dal lavoratore, non richieste per sua volontà, in caso di cessazione del rapporto di lavoro. A stabilirlo è stata la Corte di Giustizia UE con le recenti sentenze C-619/16 e C-684/16). Diversamente il diritto del lavoratore a un’indennità finanziaria per le ferie non godute è trasmissibile agli eredi allorché sia deceduto (sentenza C-596/16 della stessa Corte di Giustizia UE).

I principi esposti dalla Corte si applicano sia in caso di occupazione nel settore pubblico sia in quello privato.

La monetizzazione delle ferie non godute per i dipendenti della Pubblica Amministrazione non è una procedura automatica e prevede un iter soggetto a limiti e alla presentazione di documenti specifici che possano motivare la richiesta di indennizzo sostitutivo.

Lo ha affermato da Corte di Cassazione con l’ordinanza 20091 del 30 luglio 2018, decisione che sottolinea come per poter incassare le ferie non godute sia necessario produrre documenti che dichiarino l’esistenza di circostanza e motivazioni specifiche che hanno portato alla necessità di rinunciare ai giorni di vacanza, in particolare definite esigenze di servizio o altre motivazioni inderogabili.

Nel rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, il mero fatto del mancato godimento delle ferie non dà titolo ad un corrispondente ristoro economico se l’interessato non prova che esso è stato cagionato da eccezionali e motivate esigenze di servizio o da cause di forza maggiore.

La Cassazione, in sostanza, pone un limite preciso ai dipendenti pubblici che accumulano un notevole quantitativo di ferie arretrate nella speranza di richiedere, successivamente, un’indennità sostitutiva tale da convertire i giorni di assenza non goduti in denaro percepito attraverso il compenso.

In particolare il diritto alle ferie si estingue quando queste non siano state fruite per volontà del lavoratore, nonostante l’invito dal datore di lavoro a farlo. E questo principio è valido anche con riferimento al periodo minimo legale, pari a quattro settimane di ferie retribuite, generalmente un diritto irrinunciabile e mai monetizzabile se non a fine rapporto di lavoro.

Nel caso esaminato dalla Corte, circa due mesi prima della fine del rapporto, il datore di lavoro aveva invitato il lavoratore a fruire della rimanenza di ferie, senza costringerlo a osservare date prefissate. Il dipendente tuttavia aveva scelto, per ragioni proprie, di fruire di soli due giorni di ferie.

La Corte UE ha dunque chiarito che le norme UE non sono contrarie alla perdita del diritto alle ferie annuali non fruite e, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, alla perdita del correlato diritto a un’indennità sostitutiva per le ferie non godute quando il lavoratore non abbia formulato richiesta di fruizione prima della cessazione del rapporto di lavoro e sia stato posto dal datore di lavoro, con informazione adeguata, in condizione di fruirne in tempo utile.

Questo perché viene ritenuto non legittimo il comportamento del lavoratore che si astenga deliberatamente dal fruire le proprie ferie annuali al fine d’incrementare la propria retribuzione all’atto della cessazione del rapporto.

Diversamente, in caso di decesso del lavoratore che non abbia fruito delle ferie che gli spettavano, il diritto all’indennità per ferie non godute non si estingue ma si trasmette agli eredi.

La Corte ha inoltre affermato che nel caso in cui il diritto nazionale escluda la possibilità per gli eredi di chiedere all’ex datore di lavoro del lavoratore deceduto un’indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite non godute dal congiunto, gli eredi possono invocare direttamente il diritto dell’Unione.



martedì 13 novembre 2018

Pensioni, «quota 100» penalità fino al 30%



La pensione con la quota 100 non prevede penalizzazione, ma i minori contributi per ogni anno di anticipo abbassano l'assegno, fino al 30% per chi si ritira sei anni prima: audizione Upb sulla Legge di Bilancio.

"Chi optasse per quota 100 subirebbe una riduzione della pensione lorda rispetto a quella corrispondente alla prima uscita utile con il regime attuale da circa il 5 per cento in caso di anticipo solo di un anno a oltre il 30 per cento se l'anticipo è di oltre 4 anni". E' il calcolo dell'Upb, illustrato dal presidente Giuseppe Pisauro in audizione sulla manovra, in cui ha sottolineato anche che la platea potenziale per il 2019 sarebbe di "437.000 contribuenti attivi". Se uscissero tutti ci sarebbe un "aumento di spesa lorda per 13 miliardi".

Se «quota 100» equivalesse alla somma di un’età di almeno 62 anni e un'anzianità contributiva di almeno 38 anni, la misura potrebbe potenzialmente riguardare nel 2019 una platea fino a 437mila contribuenti. Lo ha stimato l’Ufficio parlamentare di bilancio nel corso di una audizione dinanzi alle commissioni riunite Bilancio di Camera e Senato.

«Qualora l'intera platea utilizzasse il canale di uscita appena soddisfatti i requisiti potrebbe comportare un aumento della spesa pensionistica lorda stimabile in quasi 13 miliardi nel 2019 sostanzialmente stabile negli anni successivi». Una stima, spiega ancora la relazione, che «non è ovviamente direttamente confrontabile con le risorse stanziate nel Fondo per la revisione del sistema pensionistico per vari fattori: dal tasso di sostituzione dei potenziali pensionati con nuovi lavoratori attivi a valutazioni di carattere soggettivo (condizione di salute o penosità del lavoro) o oggettivo (tasso di sostituzione tra reddito e pensione, divieto di cumulo tra pensione e altri redditi, altre forme di penalizzazione).

Secondo le stime dell’Ufficio parlamentare di bilancio, chi optasse per quota 100 subirebbe una riduzione della pensione lorda rispetto a quella corrispondente alla prima uscita utile con il regime attuale da circa il 5% in caso di anticipo solo di un anno a oltre il 30% se l'anticipo è di oltre 4 anni.

La manovra, spiega ancora l’intervento, peggiora il disavanzo pubblico, sia rispetto al deficit tendenziale sia, per il biennio 2019-2020, rispetto al risultato atteso per il 2018, che verrebbe nuovamente raggiunto solo nel 2021. «La riduzione del disavanzo nel 2020 e nel 2021 si otterrebbe peraltro unicamente grazie al mantenimento di una quota di clausole di salvaguardia su Iva e accise, pari rispettivamente allo 0,7 (13,7 miliardi) e allo 0,8 per cento (15,6 miliardi) del Pil». Le grandezze della finanza pubblica programmate dal Governo appaiono soggette a rischi (indebolimento del quadro macroeconomico e impatto dell'evoluzione recente dei tassi di interesse) e incertezze (l'efficacia delle misure di razionalizzazione della spesa, i tempi di attuazione delle norme sul “reddito di cittadinanza” e sulla riforma del sistema pensionistico, l'effettiva realizzazione dei valori programmatici della spesa per investimenti).

La pace contributiva che accompagna il debutto di “quota 100”, previsto ad aprile per i primi dipendenti privati, avrà una doppia destinazione: la prima per i quotisti che devono raggiungere i 38 anni necessari per l’uscita a 62, la seconda per i più giovani con carriere discontinue alle spalle cui viene data la possibilità di ricostruire la propria carriera contributiva per evitare, in prospettiva, una pensione di vecchiaia a 70 anni e traguardare invece l’anticipo a 41 o più.

C’è poi la proroga fino al 2021 di “opzione donna”: con 58 anni di età e 35 di contributi le lavoratrici (59 se autonome) potranno avere una pensione ricalcolata con il solo criterio contributivo e decorrenza posticipata di 12 mesi (18 per le autonome). Insomma il sistema delle finestre di uscita arriverebbe a totalizzare nove soluzioni diverse per tutte le future pensioni di anzianità, sette delle quali per la sola “quota 100” (4 per i privati, 2 per gli statali e 1 per la scuola). Non potranno invece utilizzare la quota i lavoratori coinvolti in piani di isopensione (articolo 4 legge 92) che prevedono la possibilità di accordi per uscita a carico totale del datore di lavoro. Mentre i fondi di solidarietà aziendali potranno finanziare volontariamente fino a tre anni di assegno straordinario fino a tre anni prima di “quota 100”.

Fra l’altro, bisogna attendere di capire come saranno disegnati i futuri provvedimenti, in particolare, se verranno previste limitazioni (divieto di cumulo con quello da lavoro, finestre di uscita, perdita contributi figurativi, ricalcolo contributivo). Infine, bisogna considerare che l’assegno si riduce con l’anticipo di uscita. A ogni anno di anticipo, in ragione dei minori versamenti contributivi realizzati, corrisponde un minore importo della pensione.



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