domenica 25 ottobre 2015

Riduzione dello stipendio ai lavoratori con il Jobs act è possibile


La riforma del lavoro detta Jobs act non solo ha cambiato il paradigma dei contratti di lavoro per i neoassunti, ma tramite i decreti attuativi finirà per impattare tangibilmente anche sui contratti in essere. Innanzitutto in virtù dei decreti su controllo a distanza dei dipendenti e demansionamento, in quest’ultimo caso con possibilità di diminuzione dello stipendio. La possibilità di tagliare lo stipendio, anche se ancora non è stata adeguatamente valutata dalla giurisprudenza, poiché non sono emerse questioni inerenti, è in realtà uno degli aspetti più rilevanti del decreto, che ha modificato il Codice Civile.

Quindi ha previsto il demansionamento del lavoratore a condizioni che sono nelle mani del datore di lavoro.

Nella peculiarità, il decreto stabilisce che:
“In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore”.
Appare evidente come la modifica degli assetti organizzativi sia un presupposto nelle mani dell’azienda e che abbia un significato molto generale, forse troppo.

L’assegnazione ad una mansione pari al livello contrattuale inferiore non dovrà però intaccare il margine contributivo raggiunto.

E se la discesa del lavoratore sembra decisione facilmente applicabile, non è altrettanto per la salita, ovvero per il passaggio ad una mansione superiore, che potrà avvenire in termini più lunghi. Prima, infatti, l’assegnazione a un livello superiore diventava definitiva dopo tre mesi di lavoro in quell’attività, con il decreto, questo arco di tempo passerà da tre a sei mesi.

Il decreto prevede, inoltre, la possibilità di stipulare accordi individuali di modifica delle mansioni, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione.

Questo significa che il lavoratore in accordo con il datore di lavoro può stipulare livelli inferiori di tutela.

È seppure tale operazione avviene con il consenso del dipendente, che non è lasciato da solo di fronte all’imprenditore, e pur vero che l’azienda può mettere il dipendente di fronte a una scelta: o il lavoratore accetta le condizioni, che possono comprendere riduzione di mansione o di  stipendio, o sarà licenziato con un indennizzo di poche mensilità.

La nuova formulazione del Codice, infatti, non solo ammette il demansionamento, ma aggiunge – previo accordo tra datore e lavoratore in sede protetta – la possibilità di ridurre la retribuzione: possibilità esplicitamente vietata dalla vecchia formulazione del Codice Civile, che prevedeva la nullità di ogni patto di diminuzione della retribuzione. Formulazione fin qui sempre condivisa dai giudici, anche in presenza di accordi privati. Con l’entrata in vigore del decreto attuativo del Jobs act cambia tutto, gli accordi di diminuzione dello stipendio sono validi, anche se individuali, rispettando determinate condizioni.

Ora in sostanza, perché il patto individuale di modifica (sia delle mansioni, che della categoria, dell’inquadramento e della retribuzione) sia valido, devono essere rispettate le seguenti disposizioni:
l’accordo deve essere concluso nelle sedi di conciliazione deputate (le cosiddette sedi protette:

commissioni sindacali, presso la Dtl, commissioni di certificazione dei contratti…);

deve sussistere l’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione;
in alternativa, deve sussistere l’interesse del lavoratore all’acquisizione di una diversa professionalità;

in alternativa, deve sussistere l’interesse del lavoratore al miglioramento delle condizioni di vita.

I minimi retributivi previsti dai Contratti Collettivi, corrispondenti all'inquadramento (livello) del lavoratore, restano in ogni caso inderogabili, anche nei casi in cui non sia applicato alcun Contratto Collettivo, poiché il giudice può utilizzare tali minimali come misura di adeguatezza della remunerazione, in base alla Costituzione.

Inoltre con la legge di stabilità del 2016 è stato inserito un comma che allarga il tetto agli stipendi dei super-manager delle partecipate bello Stato e degli enti locali, anche ai dirigenti e ai dipendenti delle società. Oggi esistono tre tetti alle retribuzioni a seconda delle dimensioni dell’azienda: il più alto di 240 mila euro, uno intermedio di 192 mila euro, e uno più basso di 120 mila euro. La norma attuale fermo restando che il limite massimo di 240 mila euro, i  tetti dovranno diventare cinque. Dunque è probabile che la soglia di 120 mila euro sarà abbassata. Ma la vera novità è che i limiti non si applicheranno più solo agli amministratori delegati e ai presidenti, ma a tutti i dipendenti delle società.

I tetti saranno cumulativi, nel senso che terranno conto di tutti i compensi percepiti, anche da parte di altre società o amministrazioni pubbliche. La stessa norma contiene anche un'altra nota. Quando nei consigli di amministrazione di un'azienda pubblica viene nominato un dipendente dello Stato o di un ente locale, il gettone di presenza incassato per la poltrona nel cda, dovrà obbligatoriamente essere devoluto all'amministrazione di appartenenza.


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