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lunedì 23 gennaio 2017

Cessione ramo d'azienda e demansionamento



Ancora sentenza della Corte di Cassazione conferma: l’onere della prova del demansionamento grava sul lavoratore. Nel caso specifico la sentenza n. 1778/2017 ha analizzato un caso di modifica delle mansioni in occasione di una cessione di ramo d’azienda. Nella fattispecie, l’assegnazione di diversa attività aveva  riguardato l’intero personale. Tuttavia, per ottenere un risarcimento, è il singolo lavoratore a dover dimostrare l’effettiva presenza dei presupposti di demansionamento, così da ottenere il risarcimento del relativo danno.

In materia di cessione del ramo d'azienda, la Corte di Cassazione ha chiarito che la stessa deve considerarsi operante qualora, oltre al profilo dipendente, lo stesso riguardi anche i beni materiali. Nello specifico la Suprema Corte, con la Sentenza n. 1316 del 19 gennaio 2017, ha precisato che ai fini dell'operatività del trasferimento/cessione del ramo d'azienda risulta necessario che lo stesso interessi, oltre al profilo dipendente, anche i beni materiali che risultino essenziali e necessari per lo svolgimento dell'attività ceduta. Diversamente non può considerarsi operante l'istituto in parola, cosi? come definito dall'art. 2112 c.c.

Nello specifico caso, dunque, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso del lavoratore in quanto non verificabile il danno professionale lamentato, né il preteso danno alla salute. Nella sentenza, la Corte ricorda comunque che:

“È indubbio che l’assegnazione a mansioni inferiori rappresenti fatto potenzialmente idoneo a produrre una pluralità di conseguenze dannose, sia di natura patrimoniale che di natura non patrimoniale. Ed infatti, l’inadempimento datoriale può comportare un danno da perdita della professionalità di contenuto patrimoniale che può consistere sia nell’impoverimento della capacità professionale del lavoratore e nella mancata acquisizione di un maggior saper fare, sia nel pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali

Ed inoltre, il demansionamento è potenzialmente idoneo a pregiudicare beni di natura immateriale, anche ulteriori rispetto alla salute, atteso che, nella disciplina del rapporto di lavoro, numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata del lavoratore, con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, con la configurabilità di una danno non patrimoniale risarcibile ogni qual volta vengano violati, superando il confine dei sacrifici tollerabili, diritti della persona del lavoratore oggetto di peculiare tutela al più alto livello delle fonti: particolare rilievo assumendo, a questo proposito, la dignità personale del lavoratore che costituisce diritto Corte di Cassazione – copia non ufficiale inviolabile, a norma degli artt. 2, 4 e 32 Cost.

Sicché, la lesione di tale diritto, rappresentata dai pregiudizi alla professionalità da dequalificazione che si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall’impresa, ha attitudine generatrice di danni a contenuto non patrimoniale, in quanto idonea ad alterare la normalità delle relazioni del lavoratore con il contesto aziendale in cui opera, del cittadino con la società in cui vive, dell’uomo con se stesso (Cass. 12 giugno 2015, n. 12253)”.

Tuttavia, chiarita l’astratta potenzialità lesiva dell’assegnazione a mansioni inferiori ad opera del datore di lavoro, i giudici Supremi precisano che:

“La produzione di siffatti pregiudizi è soltanto eventuale, non derivando automaticamente dall’inadempimento datoriale l’esistenza di un danno solo in ragione della potenzialità lesiva dell’atto illegittimo: e pertanto esso non è ravvisabile in re ipsa, ma esige una specifica allegazione dell’esistenza di un pregiudizio, sicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore l’onere di fornire la prova del danno e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale (Cass. s.u. 24 marzo 2006, n. 6572; Cass. 30 settembre 2009, n. 20980; Cass. 26 gennaio 2015, n. 1327).

Il che non esclude che, ferma la dimostrazione del danno da demansionamento in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, la prova possa avvenire anche per presunzioni, per la quale dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionannento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (Cass. 19 settembre 2014, n. 19778; Cass. 10 aprile 2010, n. 8893): purchè, si intende, oggetto di specifica allegazione dal lavoratore (Cass. 23 settembre 2016, n. 18717)”.

Ricordiamo che con sentenza n. 21711, la Cassazione ha precisato che il trasferimento a un altro datore di lavoro di una serie di contratti di lavoro eterogenei, rappresenta cessione di ramo d'azienda solo se prima del negozio tra cedente e cessionario questi contratti configuravano una vera e propria struttura aziendale con autonomia funzionale e produttiva: in mancanza di questi elementi, il trasferimento è una mera esternalizzazione.

La Cassazione, ha inoltre ribadito la natura di retribuzione differita del Tfr, sostiene che in caso di cessione di ramo di azienda assoggettata al regime previsto dall'articolo 2112 del Codice civile, il datore di lavoro cedente rimane obbligato nei confronti del lavoratore suo dipendente, il cui rapporto prosegua con il datore di lavoro cessionario, per la quota di trattamento di fine rapporto maturata durante il periodo di rapporto con lui svolto e calcolato fino alla data del trasferimento d'azienda. Viceversa, il datore di lavoro cessionario è obbligato per questa stessa quota soltanto in ragione e nei limiti del vincolo di solidarietà previsto dall'articolo 2112, comma 2. Infine, conclude l'estensore, quest'ultimo, come datore di lavoro cessionario, è l'unico obbligato al trattamento di fine rapporto quanto alla quota maturata nel periodo del rapporto intercorso dopo il trasferimento di azienda.

giovedì 1 settembre 2016

Lavoratore dequalificato: rivendicazioni, danni e nuove mansioni



La legge stabilisce che il lavoratore deve essere addetto alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero comunque a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte,, senza alcuna diminuzione delle retribuzione. Ciò significa che il lavoratore non può essere adibito a mansioni inferiori e l'eventuale comportamento contrario del datore di lavoro può essere impugnato avanti il Giudice del lavoro per ottenere l'accertamento giudiziale dell'intervenuta dequalificazione e la conseguente riassegnazione a mansioni adeguate e corrispondenti alla professionalità acquisita.

Ovvero chi ritiene di essere utilizzato in modo improprio, in violazione della legge, mediante assegnazione a mansioni che effettivamente siano di contenuto professionale inferiore a quelle precedentemente svolte, può rivolgersi, anche a mezzo di procedura d'urgenza, all'autorità giudiziaria.

Costituisce poi un principio ormai acquisito dalla giurisprudenza il fatto che un demansionamento o una dequalificazione protratta nel tempo si riflette sull'immagine professionale del lavoratore e quindi sul suo valore sul mercato del lavoro e gli determina dei danni, che sono stati ripetutamente ritenuti risarcibile dalla legge.

Si parla espressamente di danni e non di danno perché in caso di dequalificazione o demansionamento potrebbero coesistere diversi tipi di danni che, come spesso accade, potrebbero essere tutte contemporaneamente presenti. Essi sono:

il danno patrimoniale (o professionale);

il danno biologico;

il danno esistenziale;

Il danno patrimoniale (o danno professionale) è probabilmente il più semplice da dimostrare e richiedere. Allorquando un lavoratore è stato ingiustamente inquadrato in un livello inferiore a quello a cui aveva diritto, la parte datoriale è obbligata a risarcire il lavoratore corrispondendogli tutte le differenze retributive ed economiche a cui sarebbe stata obbligata se il lavoratore fosse stato correttamente collocato.

Il danno biologico è sicuramente più complesso in quanto non può prescindere da una valutazione medica e medico-legale. Qualora il lavoratore lamenti di aver subito delle lesioni che si sono riverberate sul suo stato fisico e/o psicologico a causa del demansionamento, può chiedere che un medico accerti tale stato e conseguentemente, sulla base della perizia medico- legale, avanzare la richiesta del relativo risarcimento. Per la quantificazione e liquidazione del danno biologico esistono delle specifiche tabelle adottate da tutti i tribunali.

Nella maggior parte dei casi è stato riconosciuto un risarcimento pari a una somma corrispondente a circa la metà delle retribuzioni percepite dal lavoratore nel corso del periodo di dequalificazione. In alcuni casi poi è stato ritenuto che il protratto demansionamento, traducendosi anche in una sofferenza fisicopsichica, può aver prodotto danni alla salute del dipendente, e nel caso di prova rigorosa del nesso di causalità tra comportamento illegittimo del datore di lavoro e malattia - da accertare in genere mediante apposita consulenza tecnica medica - è stato anche riconosciuto il diritto al risarcimento del danno biologico.

Il lavoratore non ha solo il dovere di svolgere le mansioni di sua competenza, ma anche un vero e proprio diritto di essere messo nelle condizioni di svolgere tali mansioni. Conseguentemente, l’eventuale assegnazione di compiti non attinenti alla sua professionalità, ovvero lo svuotamento delle mansioni da ultimo svolte, costituiscono comportamenti senza dubbio illegittimi.

In tali casi il lavoratore subisce un danno che investe la sfera della sua professionalità, diminuendo progressivamente l’insieme delle sue conoscenze teoriche e delle capacità tecnico-professionali con un conseguente scadimento del livello professionale del lavoratore demansionato. La perdita di competenze professionali, inoltre, compromette anche il valore complessivo del dipendente nel mercato del lavoro. Quindi il lavoratore ingiustamente privato del proprio lavoro, o che si veda costretto a svolgere un lavoro non pertinente con il suo inquadramento e con la sua professionalità, ha diritto al risarcimento del danno subito; risarcimento che, peraltro, risulta non sempre facile da quantificare, e che comunque si dimostra spesso inidoneo a compensare il pregiudizio subito dal lavoratore.

Ne consegue, dunque, che in tale ipotesi il lavoratore ha diritto innanzitutto di essere reintegrato in mansioni compatibili con la propria effettiva professionalità. In secondo luogo, il prestatore di lavoro ha diritto al risarcimento del danno patito che può essere quantificato in via equitativa utilizzando come parametro la retribuzione mensile del lavoratore, o quanto mento una quota significativa della stessa, per tutto il periodo della dequalificazione.

E’ onere del lavoratore fornire la prova del pregiudizio alla professionalità. Il danno professionale, quindi, non sarebbe più, come ritenuto dalla precedente giurisprudenza, peraltro maggioritaria, implicito alla dequalificazione, ma dovrebbe essere provato con specifici fatti ed allegazioni.

E’ bene ricordare che il datore di lavoro può sempre modificare le mansioni del lavoratore, a condizione però che si tratti di mansioni superiori o almeno equivalenti. A tale riguardo, va anche precisato che l'equivalenza della mansione non ricorre necessariamente tra due mansioni di pari livello ; infatti, due mansioni, per essere equivalenti, devono appartenere al medesimo ambito di professionalità: così, sarebbe dequalificante adibire un lavoratore tecnico a mansioni di tipo amministrativo, anche se le due mansioni appartenessero al medesimo livello di inquadramento. può accadere che il datore di lavoro non cambi radicalmente la mansione del proprio dipendente, ma si limiti ad aggiungere una mansione nuova e dequalificante rispetto a quella che veniva precedentemente svolta. In questo caso, si parla di mansioni promiscue.

Il lavoratore non è tenuto a svolgere le mansioni dequalificanti che gli venissero richieste, in quanto si tratterebbe di un ordine illegittimo. Tuttavia, bisogna avvertire che il rifiuto di cui si parla è legittimo a condizione che il lavoratore rispetti il generale principio della buona fede : in altri termini, il lavoratore, che rifiuti lo svolgimento della nuova mansione dequalificante, esplicitamente deve offrire la propria disponibilità ad eseguire la mansione precedente. Si osservi inoltre che la Suprema Corte ha ritenuto che il rifiuto del lavoratore a svolgere mansioni inferiori in modo occasionale o per un periodo meramente transitorio integra un grave inadempimento che può legittimarne il licenziamento da parte del datore di lavoro.

Sussiste dunque nel nostro ordinamento un divieto di variazione in peius, divieto che si ispira al principio di tutela della professionalità acquisita dal prestatore di lavoro, la quale pertanto non deve essere “dispersa”. Secondo la Suprema Corte, anche nel caso in cui una mansione si sia “esaurita” e non sia stata affidata alla esecuzione di altro lavoratore, ugualmente può sussistere un demansionamento ove le mansioni affidate siano inferiori a quelle proprie della qualifica o alle ultime svolte dal lavoratore. Ogni ipotesi di dequalifica va infatti sempre concordata tra le parti del rapporto di lavoro (nei limitati casi in cui è ammessa). Al riguardo occorrerà vedere se tali principi verranno confermati anche in base alla nuova normativa.

Va anche detto che, quand'anche venisse adottata questa precauzione, il lavoratore non sarebbe al riparo da ogni inconveniente. Infatti, non è da escludersi che il datore di lavoro, a fronte del rifiuto, licenzi il lavoratore. Ebbene, la giurisprudenza subordina la dichiarazione di illegittimità di un simile licenziamento al preventivo accertamento che la mansione rifiutata dal lavoratore fosse realmente dequalificante. In caso contrario, il licenziamento sarebbe legittimo.

Si capisce dunque il rischio cui un lavoratore andrebbe incontro qualora rifiutasse di eseguire la nuova mansione ritenuta dequalificante. In primo luogo, la valutazione, compiuta dal lavoratore interessato in ordine alla ricorrenza della dequalificazione, potrebbe essere inesatta. In secondo luogo, quand'anche tale valutazione fosse corretta, il lavoratore correrebbe pur sempre il rischio di non riuscire a provare, davanti al giudice, di aver effettivamente subito una dequalificazione. Pertanto, in simili casi, il lavoratore perderebbe, oltre alla mansione originaria, anche il posto di lavoro.

Per non incorrere in rischi così gravi, è dunque preferibile che il lavoratore, pur manifestando il proprio dissenso in ordine alla assegnazione della nuova mansione, esegua l'ordine impartito dal datore di lavoro, provvedendo al più presto a far accertare in sede giudiziaria la dequalificazione subita. Solo in presenza di una condanna, nei confronti del datore di lavoro, ad adibire il lavoratore a mansioni equivalenti, e a fronte dell'inottemperanza da parte del datore di lavoro, il lavoratore può rifiutare la mansione dequalificante senza incorrere nei rischi sopra indicati.

E’ possibile derogare a il diritto del lavoratore al fine di tutelarne uno superiore, quale ad esempio quello alla conservazione del posto di lavoro. In sostanza, secondo tale orientamento, la dequalificazione del lavoratore è legittima quando costituisce l’unica alternativa al licenziamento; in questo caso, l’attribuzione di mansioni inferiori potrebbe considerarsi giustificata tanto se disposta autonomamente dal datore di lavoro, quanto se attuata a seguito di un accordo sindacale, e comunque indipendentemente dal consenso del lavoratore. A sostegno di tale tesi viene invocata anche una norma di legge che, nell’ambito della procedura che regola il licenziamento collettivo, autorizza il sindacato a firmare accordi che prevedano il riassorbimento di lavoratori ritenuti eccedenti dall’azienda anche in mansioni diverse ed inferiori rispetto a quelle dagli stessi svolte in precedenza.



giovedì 21 luglio 2016

Demansionamento del lavoratore e risarcimento danni come difendersi




Nel diritto del lavoro il demansionamento è un atto che consistente nell'assegnare al lavoratore mansioni inferiori rispetto alla sua qualifica di appartenenza, o anche nel non assegnare alcuna mansione. E' noto come il datore di lavoro abbia la possibilità di modificare le mansioni del lavoratore oltre l'ambito convenuto, nel rispetto del canone generale di buona fede. Quando l'esercizio della mobilità interna del personale da parte del datore di lavoro non viene esercitato correttamente si può verificare un  demansionamento del lavoratore.

Al momento dell’assunzione il datore di lavoro deve far conoscere al lavoratore la categoria e la qualifica che gli sono state assegnate in relazione alle mansioni per cui è assunto. In assenza di un’indicazione specifica occorre far riferimento, al fine di individuare la qualifica, alle mansioni effettivamente svolte in modo stabile all’interno dell’azienda. Alcuni autori tendono poi a precisare la differenza sottile tra demansionamento e dequalificazione: il demansionamento ricorre quando il lavoratore è lasciato in condizioni di forzata inattività e si differenzia dalla dequalificazione professionale, che sussiste nel caso in cui il lavoratore sia impiegato in mansioni inferiori a quelle per le quali è stato assunto. Entrambe le ipotesi concretizzano un inadempimento del datore di lavoro.

Il demansionamento, tuttavia, può essere disposto in presenza di alcune ipotesi eccezionali:

modifica degli assetti organizzativi aziendali, tale da incidere sulla posizione del lavoratore stesso), e/o previste dai contratti collettivi.

In entrambe le ipotesi le mansioni attribuite possono appartenere al livello di inquadramento inferiore nella classificazione contrattuale a patto che rientrino nella medesima categoria legale.

Il declassamento subìto può comportare lesioni alla professionalità, all'integrità psico-fisica e alla dignità del lavoratore degni di essere risarciti.

Ai fini dell'accoglimento di domanda giudiziale atta ad ottenere la condanna del datore di lavoro al risarcimento danni (patrimoniali e non patrimoniali) per l'illegittima dequalificazione del lavoratore è necessario offrire una prova piuttosto stringente del demansionamento subito oltre che del concreto pregiudizio patito e dell'evidente nesso di causalità con la condotta datoriale. E’ necessario provare, per il richiesto risarcimento danni patrimoniale, l'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e la mancata acquisizione di nuove e maggiori capacità legate, ovviamente, al pregiudizio di natura economica subito per la perdita di opportunità ovvero per la perdita di ulteriori possibilità di guadagno. Quanto, invece, al danno non patrimoniale sarà necessario allegare in modo preciso e concreto la lesione all'integrità fisica, alla salute ovvero all'immagine e/o alla vita di relazione del lavoratore con l'ausilio di certificati medico-legali.

Evidenziando sulla richiesta di risarcimento dei danni, bisogna dire che questa può risultare molto complessa e non sempre facile da quantificare, provare e dimostrare.

Si deve subito sottolineare che sta al lavoratore provare tutti i danni subiti.

Si parla espressamente di danni e non di danno perché in caso di dequalificazione o demansionamento potrebbero coesistere diversi tipi di danni che, come spesso accade, potrebbero essere tutte contemporaneamente presenti. Essi sono:

il danno patrimoniale (o professionale);

il danno biologico;

il danno esistenziale;

Il danno patrimoniale (o danno professionale) è probabilmente il più semplice da dimostrare e richiedere. Allorquando un lavoratore è stato ingiustamente inquadrato in un livello inferiore a quello a cui aveva diritto, la parte datoriale è obbligata a risarcire il lavoratore corrispondendogli tutte le differenze retributive ed economiche a cui sarebbe stata obbligata se il lavoratore fosse stato correttamente collocato.

Il danno biologico è sicuramente più complesso in quanto non può prescindere da una valutazione medica e medico-legale. Qualora il lavoratore lamenti di aver subito delle lesioni che si sono riverberate sul suo stato fisico e/o psicologico a causa del demansionamento, può chiedere che un medico accerti tale stato e conseguentemente, sulla base della perizia medico- legale, avanzare la richiesta del relativo risarcimento. Per la quantificazione e liquidazione del danno biologico esistono delle specifiche tabelle adottate da tutti i tribunali.

L’aspetto più problematico e meno noto è il cosiddetto “danno esistenziale” ovvero “danno alla vita di relazione”. In altri termini, il danno esistenziale è il pregiudizio che la dequalificazione od il demansionamento provoca nella sfera personale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno.

Affinché il lavoratore possa pretendere un risarcimento per il danno esistenziale il medesimo dovrà fornire “la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso”. E’ quindi necessario dare la prova che il demansionamento, concretamente, ha inciso in senso negativo alterandone l’equilibrio e le abitudini di vita del lavoratore.

Come è evidente, la cosa non è assolutamente facile.

Il datore di lavoro comunica al lavoratore l’assegnazione a mansioni inferiori in forma scritta a pena di nullità.

In particolare, il demansionamento viene escluso dai giudici nei casi di:

adibizione del lavoratore a mansioni inferiori marginali ed accessorie rispetto a quelle di competenza, purché non comprese nella competenza specifica di altri lavoratori di professionalità meno elevata e a condizione che l’attività prevalente del lavoratore rientri tra quelle previste dalla categoria di appartenenza;

riclassamento del personale (riassetto delle qualifiche e dei rapporti di equivalenza tra mansioni) da parte del nuovo . In tale ipotesi le mansioni devono rimanere immutate;

intervenuta infermità permanente, a patto che tale diversa attività sia utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo stabilito dall'imprenditore.




domenica 10 gennaio 2016

Lavoro: il mobbing secondo la Corte Cassazione


La Corte di Cassazione ha indicato gli elementi necessari per configurare un caso di mobbing durante un rapporto lavorativo: ecco quando può azionarsi la denuncia e il risarcimento dei danni per condotta lesiva. Per ottenere il risarcimento stabiliti i parametri: tutti i requisiti devono essere provati. Si deve trattare di azioni ostili, premeditate e persecutorie.

Appurato che un capo insopportabile giorni alterni e dei colleghi tenacemente molesti sei su sette (senza una corrispettiva voce a parte in busta paga) sono afflizioni comuni alla gran parte dei lavoratori dipendenti, non tutte le prepotenze patite in ufficio da parte di superiori o di pari grado possono qualificarsi come mobbing. E garantire il diritto al risarcimento. Per disincentivare azioni legali avventate di mobbizzati immaginari e offrire ai giudici di merito un prontuario garantito, in mancanza di una normativa specifica, la Corte di cassazione, con sentenza ha individuato delle linee guida ed i parametri per riconoscere il vero mobbing.

Sono 7 i parametri del mobbing secondo la Corte di Cassazione che, con sentenza n.10037/2015 ha individuato delle linee guida per riconoscere il vero mobbing  per provare di essere stati danneggiati sul lavoro:
ambiente, durata, frequenza, tipo di azioni ostili, dislivello tra antagonisti, andamento per fasi successive, intento persecutorio.

Perché si configuri il mobbing devono ricorrere tutti e sette, non uno di meno.

Nel caso per cui si è arrivati alla Corte di Cassazione, che riguardava un impiegato pubblico, i sette elementi chiave c’erano tutti. Il ricorrente era stato demansionato, emarginato, spostato da un ufficio all’altro senza motivo, schiacciato nel ritrovarsi come capo quello che prima era il suo sottoposto, assegnato a un ufficio aperto al pubblico ma privato della possibilità di lavorare. Già nel merito, dopo perizie e testimonianze, era stata riconosciuta l’esistenza del mobbing (verticale, ossia messo in pratica dal superiore, quello orizzontale è tra colleghi), confermato poi anche nel giudizio di legittimità.

Il mobbing è molto più diffuso di quanto non emerga dai dati ufficiali, perché è difficile individuare le cause o gli elementi che possono portare ad una causa in tribunale. Illuminante può essere la sentenza n.87 del 10 gennaio 2012 emessa dalla Corte di Cassazione, che evidenzia i comportamenti che possono essere considerati di mobbing. Una volta che la situazione di disagio si configuri come tale, la condotta lesiva giustifica infatti la causa ed il conseguente risarcimento del danno.

Definizione di mobbing
Come ricorda la Cassazione, il mobbing si definisce come:
«una condotta del datore di lavoro sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del dipendente nell’ambienti di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterarti comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del lavoratore, con effetto lesivo del suo equilibrio fisio-psichico e della sua personalità».

Elementi probatori
Tra gli elementi riconosciuti dalla Corte di Cassazione come mobbing sul lavoro, e quindi necessari affinché si prefiguri un’accusa, sono:
molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio;
evento lesivo della salute;
nesso tra la condotta del datore di lavoro ed il pregiudizio all’integrità psico-fisica;
prova dell’intento persecutorio.

In conclusione possiamo sottolineare questi atteggiamenti:
Le vessazioni devono avvenire sul luogo di lavoro. I contrasti, le mortificazioni o quant’altro devono durare per un congruo periodo di tempo e essere non episodiche ma reiterate e molteplici. Deve trattarsi di più azioni ostili, almeno due di queste:  attacchi alla possibilità di comunicare, isolamento sistematico, cambiamenti delle mansioni lavorative, attacchi alla reputazione, violenze o minacce. Occorre il dislivello tra gli antagonisti, con l’inferiorità manifesta del ricorrente. La vicenda deve procedere per fasi successive come: conflitto mirato, inizio del mobbing, sintomi psicosomatici, errori e abusi, aggravamento della salute, esclusione dal mondo del lavoro. Bisogna che vi sia l’intento persecutorio, ovvero un disegno premeditato per tormentare il dipendente.
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domenica 8 novembre 2015

Diritti del lavoratore: demansionamento e dequalificazione professionale


La sentenza n. 20473 della Corte di Cassazione  sezione lavoro del 29 settembre 2014, ha stabilito che in caso di accertato demansionamento professionale, la liquidazione del danno alla professionalità del lavoratore non può prescindere dalla prova del danno e del relativo nesso causale con l'asserito demansionamento, in quanto va  evitato, trattandosi di danno non patrimoniale, ogni duplicazione con altre voci di danno non patrimoniale accomunate dalla medesima fonte causale.

Quando il dipendente viene declassato e adibito a mansioni inferiori rispetto a quelle di assunzione La recente approvazione della riforma del lavoro, detta Jobs act, ha introdotto fra le altre cose il concetto di demansionamento.

Vediamo di capire meglio se e quando è lecito, e quali siano i margini di manovra delle aziende e dei lavoratori.

Il dipendente non può essere infatti adibito a mansioni inferiori rispetto a quelle per le quali è stato assunto e inquadrato (è il cosiddetto demansionamento): il divieto è volto ad evitare la lesione della professionalità acquisita dal lavoratore.

Al momento dell’assunzione il datore di lavoro deve far conoscere al lavoratore la categoria e la qualifica che gli sono state assegnate in relazione alle mansioni per cui è assunto. In assenza di un’indicazione specifica occorre far riferimento, al fine di individuare la qualifica, alle mansioni effettivamente svolte in modo stabile all’interno dell’azienda. Alcuni autori tendono poi a precisare la differenza sottile tra demansionamento e dequalificazione: il demansionamento ricorre quando il lavoratore è lasciato in condizioni di forzata inattività e si differenzia dalla dequalificazione professionale, che sussiste nel caso in cui il lavoratore sia impiegato in mansioni inferiori a quelle per le quali è stato assunto. Entrambe le ipotesi concretizzano un inadempimento del datore di lavoro.

Il demansionamento, tuttavia, può essere disposto in presenza di alcune ipotesi eccezionali:
– modifica degli assetti organizzativi aziendali, tale da incidere sulla posizione del lavoratore stesso), e/o
– previste dai contratti collettivi.

In entrambe le ipotesi le mansioni attribuite possono appartenere al livello di inquadramento inferiore nella classificazione contrattuale a patto che rientrino nella medesima categoria legale.

Con le recenti modifiche approvate con il Job Act è invece possibile la modifica della categoria in caso di rilevante interesse del lavoratore (come nel caso di conservazione dell’occupazione, acquisizione di una diversa professionalità o miglioramento delle condizioni di vita).

Il datore di lavoro comunica al lavoratore l’assegnazione a mansioni inferiori in forma scritta a pena di nullità.
Per esempio: a un lavoratore con qualifica di vetrinista, classificata al livello terzo del CCNL Terziario Confcommercio, potranno essere assegnate le mansioni di commesso alla vendita al pubblico (qualifica appartenente al quarto livello) in conseguenza di una modifica degli assetti organizzativi che incida sulla posizione del lavoratore. In questo caso, infatti, il lavoratore rimane all’interno della categoria impiegatizia.

La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire numerosi aspetti del demansionamento, soprattutto in materia di onere della prova e del risarcimento del danno. In particolare, secondo i giudici, il demansionamento è escluso nei casi di:

– adibizione del lavoratore a mansioni inferiori marginali ed accessorie rispetto a quelle di competenza, purché non rientranti nella competenza specifica di altri lavoratori di professionalità meno elevata e a condizione che l’attività prevalente e assorbente del lavoratore rientri tra quelle previste dalla categoria di appartenenza;

– riclassamento del personale (riassetto delle qualifiche e dei rapporti di equivalenza tra mansioni) da parte del nuovo CCNL. In tale ipotesi le mansioni devono rimanere immutate e deve essere salvaguardata la professionalità già raggiunta dal lavoratore;

– sopravvenuta infermità permanente, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore.

La dequalificazione del lavoratore sarebbe quindi legittima qualora costituisca l’unica alternativa possibile al licenziamento; in questo senso, l’attribuzione a mansioni inferiori potrebbe considerarsi giustificata tanto se disposta autonomamente dal datore di lavoro, quanto se attuata a seguito di un accordo sindacale.

Inoltre, un eventuale demansionamento non va valutato in rapporto ad un incarico di natura temporanea, bensì alle mansioni originarie e tipiche della qualifica del lavoratore. Per cui, se il lavoratore viene adibito solo temporaneamente a un livello superiore, nel momento in cui ritorna alle sue normali mansioni ciò non significa che sia stato demansionato.

Il lavoratore ha diritto di conservare il livello di inquadramento e il trattamento retributivo riconosciuto prima dell’assegnazione alle mansioni corrispondenti al livello inferiore. Sono tuttavia esclusi gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di esecuzione della prestazione lavorativa precedentemente svolta dal lavoratore (ad esempio, indennità di cassa), che il datore di lavoro non è obbligato a mantenere.

Se il datore di lavoro adibisce il lavoratore a mansioni inferiori in ipotesi diverse da quelle sopra riportate, il demansionamento è da considerarsi illegittimo. Pertanto il lavoratore può agire in tribunale, con una causa di lavoro, e chiedere (anche in via d’urgenza) il riconoscimento della qualifica corretta, nonché, quando il demansionamento presenta una gravità tale da impedire la prosecuzione del rapporto di lavoro – anche provvisoria – recedere dal contratto per giusta causa.

Il ricorso al giudice del lavoro costituisce lo strumento per accertare la violazione del divieto di demansionamento. Accertata la violazione, il giudice può disporre a tutela del lavoratore:

– la condanna del datore di lavoro alla reintegra del lavoratore nella posizione precedente o in una equivalente;

– la condanna al risarcimento del danno patrimoniale, relativo alle retribuzioni eventualmente maturate medio tempore (es. nel caso di attribuzione di mansioni inferiori con conseguente trattamento economico deteriore);

– la condanna al risarcimento del danno non patrimoniale determinato dal demansionamento subito.

Tanto il danno patrimoniale quanto quello non patrimoniale deve essere sempre provato dal lavoratore che deve dimostrare una riduzione dello stipendio e/o le conseguenze sul suo equilibrio psicofisico. In difetto, il giudice, anche qualora rilevi l’avvenuto demansionamento e l’illegittimità della condotta del datore, non può liquidare alcun indennizzo al dipendente.

Ai fini del riconoscimento di un danno patrimoniale, è, infatti, necessario fornire prove o allegazioni del male subito.

In tal senso il danno da dequalificazione o da demansionamento può consistere:

– sia nel danno patrimoniale derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, sia nel pregiudizio (sempre di natura economica) subìto per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno

– sia nella lesione del diritto del lavoratore all’integrità fisica o, più in generale, alla salute ovvero all’immagine o alla vita di relazione.

Il rifiuto di svolgere le nuove mansioni è ritenuto legittimo solo se rappresenta una reazione del lavoratore proporzionata e conforme a buona fede.
Il rifiuto della prestazione lavorativa può considerarsi in buona fede solo se si traduce in un comportamento che, oltre a non contrastare con i principi generali della correttezza e lealtà, risulta oggettivamente ragionevole e logico, cioè deve trovare concreta giustificazione nel raffronto tra prestazioni ineseguite e prestazioni rifiutate. In tal caso, l’inadempimento del lavoratore risulta proporzionato al precedente inadempimento del datore di lavoro.

Comunque sul datore di lavoro grava l’obbligo di comunicare al lavoratore l’assegnazione a mansioni inferiori in forma scritta, pena la nullità. In materia di onere della prova e risarcimento del danno, poi, è intervenuta la giurisprudenza.

In particolare, il demansionamento viene escluso dai giudici nei casi di:

 adibizione del lavoratore a mansioni inferiori marginali ed accessorie rispetto a quelle di competenza, purché non comprese nella competenza specifica di altri lavoratori di professionalità meno elevata e a condizione che l’attività prevalente del lavoratore rientri tra quelle previste dalla categoria di appartenenza;

riclassamento del personale (riassetto delle qualifiche e dei rapporti di equivalenza tra mansioni) da parte del nuovo . In tale ipotesi le mansioni devono rimanere immutate;

 intervenuta infermità permanente, a patto che tale diversa attività sia utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo stabilito dall’imprenditore.


domenica 25 ottobre 2015

Riduzione dello stipendio ai lavoratori con il Jobs act è possibile


La riforma del lavoro detta Jobs act non solo ha cambiato il paradigma dei contratti di lavoro per i neoassunti, ma tramite i decreti attuativi finirà per impattare tangibilmente anche sui contratti in essere. Innanzitutto in virtù dei decreti su controllo a distanza dei dipendenti e demansionamento, in quest’ultimo caso con possibilità di diminuzione dello stipendio. La possibilità di tagliare lo stipendio, anche se ancora non è stata adeguatamente valutata dalla giurisprudenza, poiché non sono emerse questioni inerenti, è in realtà uno degli aspetti più rilevanti del decreto, che ha modificato il Codice Civile.

Quindi ha previsto il demansionamento del lavoratore a condizioni che sono nelle mani del datore di lavoro.

Nella peculiarità, il decreto stabilisce che:
“In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore”.
Appare evidente come la modifica degli assetti organizzativi sia un presupposto nelle mani dell’azienda e che abbia un significato molto generale, forse troppo.

L’assegnazione ad una mansione pari al livello contrattuale inferiore non dovrà però intaccare il margine contributivo raggiunto.

E se la discesa del lavoratore sembra decisione facilmente applicabile, non è altrettanto per la salita, ovvero per il passaggio ad una mansione superiore, che potrà avvenire in termini più lunghi. Prima, infatti, l’assegnazione a un livello superiore diventava definitiva dopo tre mesi di lavoro in quell’attività, con il decreto, questo arco di tempo passerà da tre a sei mesi.

Il decreto prevede, inoltre, la possibilità di stipulare accordi individuali di modifica delle mansioni, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione.

Questo significa che il lavoratore in accordo con il datore di lavoro può stipulare livelli inferiori di tutela.

È seppure tale operazione avviene con il consenso del dipendente, che non è lasciato da solo di fronte all’imprenditore, e pur vero che l’azienda può mettere il dipendente di fronte a una scelta: o il lavoratore accetta le condizioni, che possono comprendere riduzione di mansione o di  stipendio, o sarà licenziato con un indennizzo di poche mensilità.

La nuova formulazione del Codice, infatti, non solo ammette il demansionamento, ma aggiunge – previo accordo tra datore e lavoratore in sede protetta – la possibilità di ridurre la retribuzione: possibilità esplicitamente vietata dalla vecchia formulazione del Codice Civile, che prevedeva la nullità di ogni patto di diminuzione della retribuzione. Formulazione fin qui sempre condivisa dai giudici, anche in presenza di accordi privati. Con l’entrata in vigore del decreto attuativo del Jobs act cambia tutto, gli accordi di diminuzione dello stipendio sono validi, anche se individuali, rispettando determinate condizioni.

Ora in sostanza, perché il patto individuale di modifica (sia delle mansioni, che della categoria, dell’inquadramento e della retribuzione) sia valido, devono essere rispettate le seguenti disposizioni:
l’accordo deve essere concluso nelle sedi di conciliazione deputate (le cosiddette sedi protette:

commissioni sindacali, presso la Dtl, commissioni di certificazione dei contratti…);

deve sussistere l’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione;
in alternativa, deve sussistere l’interesse del lavoratore all’acquisizione di una diversa professionalità;

in alternativa, deve sussistere l’interesse del lavoratore al miglioramento delle condizioni di vita.

I minimi retributivi previsti dai Contratti Collettivi, corrispondenti all'inquadramento (livello) del lavoratore, restano in ogni caso inderogabili, anche nei casi in cui non sia applicato alcun Contratto Collettivo, poiché il giudice può utilizzare tali minimali come misura di adeguatezza della remunerazione, in base alla Costituzione.

Inoltre con la legge di stabilità del 2016 è stato inserito un comma che allarga il tetto agli stipendi dei super-manager delle partecipate bello Stato e degli enti locali, anche ai dirigenti e ai dipendenti delle società. Oggi esistono tre tetti alle retribuzioni a seconda delle dimensioni dell’azienda: il più alto di 240 mila euro, uno intermedio di 192 mila euro, e uno più basso di 120 mila euro. La norma attuale fermo restando che il limite massimo di 240 mila euro, i  tetti dovranno diventare cinque. Dunque è probabile che la soglia di 120 mila euro sarà abbassata. Ma la vera novità è che i limiti non si applicheranno più solo agli amministratori delegati e ai presidenti, ma a tutti i dipendenti delle società.

I tetti saranno cumulativi, nel senso che terranno conto di tutti i compensi percepiti, anche da parte di altre società o amministrazioni pubbliche. La stessa norma contiene anche un'altra nota. Quando nei consigli di amministrazione di un'azienda pubblica viene nominato un dipendente dello Stato o di un ente locale, il gettone di presenza incassato per la poltrona nel cda, dovrà obbligatoriamente essere devoluto all'amministrazione di appartenenza.


sabato 20 giugno 2015

Il datore di lavoro potrà cambiare le mansioni del lavoratore



Il datore di lavoro potrà variare in modo parziale le mansioni del lavoratore in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali (che incide sulla posizione del lavoratore). In questa ipotesi, si potrà assegnare la persona a una nuova mansione riconducibile al livello di inquadramento contrattuale immediatamente inferiore, fermo restando il livello retributivo in godimento, con la sola eccezione delle voci stipendiali legate a particolari modalità della precedente prestazione che non sono più presenti nella nuova mansione (ad esempio, lavoro notturno e trasferte). L’assegnazione a una mansione inferiore potrà essere fatta «soltanto nell’ambito della categoria legale (operaio, impiegato, quadro) di inquadramento del dipendente (si tratta di un limite che prescinde dall’inquadramento unico).

Nella versione ancora (per poco) in vigore, la norma prevede tra l’altro che: “Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione.” In buona sostanza le mansioni devono essere quelle previste nel contratto di lavoro ovvero quelle superiori conseguite nel corso del tempo.

Era prevista altresì la possibilità, per il datore di lavoro, di variare le mansioni del proprio dipendente, tuttavia, senza possibilità alcuna di diminuzione della retribuzione e fermo restando l’equivalenza delle stesse, vale a dire il mantenimento del medesimo livello di inquadramento.

Oggi il datore può assegnare al lavoratore diverse mansioni, purché equivalenti alle ultime effettivamente svolte. Evidenzia il giuslavorista Riccardo Del Punta: “per stabilire se una mansione è equivalente ad un’altra, il giudice guarda di solito a due circostanze: il fatto che la nuova mansione sia ricompresa nello stesso livello di inquadramento contrattuale attribuito al lavoratore, e il fatto che non sia penalizzante in rapporto alla personale carriera dello stesso. Il primo profilo di giudizio è abbastanza prevedibile e gestibile, ma il secondo assai meno. Può succedere, insomma, che le nuove mansioni siano ritenute non equivalenti pur rientrando nel medesimo livello». Invece, sulla base del Jobs act, per stabilire se a un lavoratore possono essere assegnate determinate mansioni, «è sufficiente che esse siano riconducibili al precedente livello di appartenenza come disegnato dai contratti collettivi».

Un’altra novità, come detto, è la possibilità di modificare in pejus le mansioni in caso di modifiche organizzative o in altre ipotesi che possono essere previste dai contratti collettivi, quindi anche a livello aziendale.

Inoltre, è ufficializzata per legge la possibilità di un mutamento consensuale delle mansioni e qui anche del livello e della retribuzione, purché, ha sottolineato Del Punta, «il patto sia giustificato da un rilevante interesse del lavoratore (come quando il demansionamento è concordato in alternativa a un licenziamento economico), e purché sia concluso in sede assistita. Anche questo aspetto, che vede un’apertura all’autonomia individuale assistita, costituisce una significativa novità». E poi, mentre oggi, in caso di assegnazione di fatto di mansioni superiori, il lavoratore acquisisce il livello superiore dopo tre mesi, con l’entrata in vigore delle nuove norme il termine sarà quello fissato dai contratti collettivi, o in mancanza sarà di sei mesi. Per le imprese la nuova disciplina sulle mansioni «è molto positiva – commenta Arturo Maresca, ordinario di diritto del Lavoro alla Sapienza di Roma -. Si garantisce un’ampia flessibilità professionale e ci sarà una forte riduzione delle cause da demansionamento, che solitamente sono fonte di risarcimenti del danno anche cospicui»

Il decreto attuativo (Jobs act) separa le carte e ridisegna profondamente la norma. Viene previsto, infatti, che il lavoratore possa essere assegnato a qualunque mansione inerente il medesimo livello di inquadramento, analogamente a quanto già avviene nel pubblico impiego, tanto è vero che il decreto attuativo richiama espressamente l’art. 52 del D.Lgs. n. 165/2011 “Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. Disciplina delle mansioni”.

Sostanzialmente viene eliminato il principio dell’equivalenza delle mansioni, pertanto, sparisce il riferimento alla competenza professionale specifica acquisita dal dipendente e al suo accrescimento.

L’unico limite rimasto è quello per cui le nuove mansioni dovranno rientrare nella medesima categoria di inquadramento.




lunedì 23 febbraio 2015

Riforma del lavoro per l’anno 2015 come cambiano i contratti dì lavoro



Cambiano i contratti di lavoro con approvazione decreti attuativi del Jobs Act, dal primo marzo sarà ufficialmente in vigore. Per lo meno, lo saranno i primi due decreti che il governo ha portato oggi in Consiglio dei ministri, a conclusione di una maratona parlamentare durata quasi due mesi.

Riforma dei contratti (con la nuova disciplina che apre al demansionamento), via libera definitivo al nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (con le novità in materia di licenziamenti) e ai nuovi ammortizzatori, misure di flessibilità su conciliazione tempi lavoro-famiglia, a partire da congedi di maternità, paternità e parentali.

Via libera al contratto a tutele crescenti, al riordino delle forme contrattuali e all'abolizione dei contratti di collaborazione a progetto, co.co.pro, e restano i contratti a termine per u massimo di 36 mesi. Nel caso dei co.co.pro, resteranno in vita solo quelli in essere e saranno totalmente aboliti dal primo gennaio 2016, sostituiti dal nuovo contratto a tutele crescenti, contratto a tempo indeterminato e che prevede sgravi contributivi per tre anni per le aziende che assumono.

Significa che  nei casi, come riporta il provvedimento, di ‘modifica degli assetti organizzativi’, le imprese potranno decidere di spostare il lavoratore da un ruolo operativo ad un altro, senza però modificarne il livello di inquadramento o la retribuzione che si percepisce al momento del cambio di mansione. Considerando che, come spiegano diversi esperti, in questo momento di crisi le aziende hanno bisogno di flessibilità nella gestione dei propri lavoratori, questa soluzione è quella giusta che permetterà così proprio quella flessibilità organizzativa necessaria.

In realtà resteranno comunque in vigore altre formule di precariato, come il lavoro a chiamata, i voucher, il lavoro interinale, senza contare che rimarranno 5 i rinnovi di contratti a termine nell’arco di 36 mesi, prima di definire l’assunzione a tempo indeterminato.

“Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”. Il vecchio rapporto di assunzione stabile muterà forma, sotto la sigla del neonato contratto a tutele crescenti, che verrà attivato essenzialmente per le nuove assunzioni nel settore privato.

Confermate le modifiche al licenziamento di tipo economico e disciplinare, che costituiranno, secondo precisi criteri, modalità sufficienti a evitare il diritto al reintegro. Rimane inalterato il licenziamento discriminatorio.

Il decreto legislativo elimina quasi definitivamente i contratti di collaborazione a progetto, che a partire dal primo gennaio 2016 si trasformeranno in contratti a tempo indeterminato, restano alcuni tipi di collaborazione coordinata e continuativa, legati a particolari settori (ad esempio i call center) o tipologie professionali (i professionisti iscritti agli Ordini). In estrema sintesi, la regola è la seguente: quando il decreto entrerà definitivamente in vigore (fra un paio di mesi), le imprese non potranno più stipulare nuovi contratti di collaborazione a progetto, mentre quelli in essere proseguiranno fino alla loro scadenza. Poi, dall’1 gennaio 2016, i contratti di collaborazione «con contenuto ripetitivo ed etero-organizzati dal datore di lavoro» dovranno diventare rapporti a tempo indeterminato ai quali si applicheranno quindi le nuove tutele crescenti.

Spariscono il contratto di associazione in partecipazione con apporto di lavoro e il job sarin , mentre resta sostanzialmente il contratto a tempo determinato (che quindi è applicabile per 36 mesi, tre anni, senza causale). È ampliato il contratto di somministrazione a tempo indeterminato (staff leasing), che non necessita più di causali e si può stipulare con un limite fissato al 10% del totale dei contratti a tempo indeterminato esistenti in azienda.

Novità sul part-time: in mancanza di regole precise fissate dai contratti collettivi, vengono stabilite per legge le modalità applicative: il datore di lavoro può chiedere al lavoratore lo svolgimento di lavoro supplementare, le parti possono pattuire clausole elastiche e flessibili in materia ad esempio di orario di lavoro. Viene infine previsto per il lavoratore il diritto a chiedere il part-time per necessità di cura connesse a malattie gravi o in alternativa al congedo parentale.

Lavoro accessorio: elevato a 7mila euro il tetto massimo dell’importo, viene introdotta la tracciabilità con tecnologia sms come per il lavoro a chiamata.

La nuova disciplina delle mansioni introduce la possibilità di demansionamento del lavoratore, vietata dallo Statuto dei Lavoratori, in particolare, in presenza di ristrutturazione aziendale e in altri casi individuati dai contratti collettivi, l’impresa può modificare le mansioni del dipendente, limitatamente a un livello e senza diminuire lo stipendio. È anche possibile contrattare individualmente con il dipendente (in sede protetta, quindi attraverso una specifica procedura) modifica delle mansioni e del livello di inquadramento (e di retribuzione), «nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita».

Un’altra delega interviene sui congedi di maternità, paternità e congedi parentali e introduce novità in materia di telelavoro e donne vittime di violenza di genere. Per quanto riguarda i congedi di maternità, diventa più flessibile la possibilità di godere dei giorni di astensione obbligatoria non goduti in caso di parto prematuro, che possono essere fruiti successivamente, anche superano il limite dei cinque mesi. Prevista la possibilità, per la madre, di sospendere la maternità in caso di ricovero del neonato(previo certificato medico che attesti la buona salute della madre).

Il congedo di paternità è esteso a tutti i lavoratori (ora è previsto solo per i dipendenti): anche gli autonomi quindi possono utilizzarlo, nel caso in cui la madre non usufruisca del congedo di maternità.

Il congedo parentale è esteso ai primi 12 anni di vita del bambino (dagli attuali otto). Ampliati anche il congedo parzialmente retribuito al 30%, dagli attuali tre anni a sei anni di vita del bambino, e quello non retribuito, fino a 12 anni di vita del bambino (dagli attuali sei). Infine, sono introdotte nuove norme per tutelare la genitorialità in caso di adozioni e affidamenti prevedendo estensioni di tutele già previste per i genitori naturali.

In tema di telelavoro, previste agevolazioni per i datori di lavoro privati che lo concedano andando incontro alle esigenze di cure parentali dei dipendenti.

Infine, è previsto un nuovo congedo, di tre mesi, per le donne vittime di violenza di genere e inserite in percorsi di protezione debitamente certificati. La lavoratrice (dipendente o collaboratrice a progetto) mantiene l’intera retribuzione, la maturazione delle ferie e degli altri istituti connessi, e ha il diritto di chiedere la trasformazione del contratto in part-time.



mercoledì 28 novembre 2012

Produttività del lavoro 2013: demansionamento, dequalificazione e mobbing


Con la recente sentenza n. 2711 del /2012 la Corte di Cassazione ha stabilito che, per poter definire lesiva la condotta del datore di lavoro, devono diventare rilevanti: la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o leciti posti in essere in modo sistematico e prolungato nel tempo contro il dipendente con intento vessatorio; che l’evento lesivo incida sulla salute e personalità del lavoratore dipendente, minandone l’integrità psico-fisica; che si evidenzi la volontà persecutoria.

Pertanto, ai fini dell’accertamento del mobbing e del conseguente diritto al risarcimento del danno, il lavoratore deve individuare nominativamente gli autori degli attacchi e descrivere gli episodi che si sono verificati nel tempo e il modo con il quale si sono svolti, in maniera tale che possa essere espletata agli stessi una prova testimoniale. Quindi, ha concluso la sentenza, i singoli comportamenti non avevano in sé, congiuntamente e isolatamente considerati, contenuto mobbizzante, sicché dalla loro somma, mancando una qualsiasi prova dell'esercizio abusivo del diritto, non si poteva desumere un disegno persecutorio, fonte di risarcimento.

Tra i temi che entreranno nella contrattazione collettiva futura c'è anche quello della flessibilità nelle mansioni dei lavoratori dipendenti. Quanto previsto dall'accordo sulla produttività, è doveroso mettere in evidenza il principio sul termine  demansionamento, e come viene inteso nelle aule di giustizia, soprattutto per rappresentarne la linea di delimitazione rispetto al mobbing. Molto spesso, le due figure vengono richiamate insieme, anche se vanno tenute distinte. La differenza tra la dequalificazione professionale e il mobbing si gioca in realtà sul piano della prova. È necessario chiedersi quale può essere l'elemento di distinzione, indispensabile anche per quantificare l'eventuale risarcimento del danno subito.

La giurisprudenza ha precisato che la dequalificazione non è necessariamente mobbing se non si prova l'intento persecutorio dell'azienda. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12770 del 23 luglio 2012, ha affermato che la dequalificazione professionale non è prova certa di una volontà oppressiva e vessatoria del datore di lavoro. Non si può escludere, tuttavia, solo per questo, il riconoscimento di un indennizzo per il danno morale, biologico e professionale subìto, poiché il demansionamento del lavoratore comporta comunque uno svilimento della professionalità acquisita dal dipendente.

Ed inoltre la Corte nel decidere una domanda di risarcimento dei danni alla professionalità e all'immagine, del danno morale e di quello biologico, in conseguenza di lamentati comportamenti del datore di lavoro di dequalificazione e di "mobbing", nonché dei danni scaturenti dal licenziamento, non ha perso l’occasione per richiamare la massima di Cass. sez. lav. n. 19785 del 1779/2010, secondo cui ‘in tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio - dall'esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicchè non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art. 2697 cod. civ. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale’”.
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