Iniziamo a vedere cosa bisogna sapere delle partita IVA.
Se il datore di lavoro vuole farti passare da un contratto di collaborazione alla partita Iva si sa che si perderà ogni tutela e buona parte dello stipendio.
Fino ai 35 anni si può usufruire del regime fiscale dei minimi, che consiste in una tassazione totale di circa il 33% di quello che guadagni, così divisi: 5% di Irpef e 28% di Inps. Questo discorso vale per chi ha la “gestione separata”, cioè tutti quei lavoratori generici che non usufruiscono di casse previdenziali di settore (come giornalisti, avvocati, commercianti) e con la clausola che i ricavi siano entro i 30.000 euro l’anno (per l’anno in corso il limite potrebbe aumentare a 65.000). Superati i 35 anni e i 30.000 euro di reddito l’Irpef sale dal 5% al 23% creando una pressione contributiva totale del 51%.
Alla pressione contributiva devi aggiungere gli acconti sulle tasse dell’anno successivo. Funziona così: tra giugno e agosto di ogni anno si inizieranno a pagare le rate delle tasse relative alla dichiarazione dei redditi dell’anno precedente. Ma assieme a queste si dovrà pagare anche l’acconto sulle tasse dell’anno successivo. Questo acconto consiste nel 50% di quanto si ha appena pagato per le tasse.
In breve: se si ha dichiarato 21.000 euro di ricavi per il 2013 e pagato 7.000 euro (33%) di tasse? Bene, si dovrà pagare subito altri 3.500 euro, come acconto dell’anno successivo. Questa cifra verrà poi scalata dalle tasse che si ritroverà a pagare l’anno successivo. Ma non uno non se ne accorgerà neanche, perché l’anno successivo ci si ritroverà a pagare comunque l’acconto dell’anno dopo ancora.
La partita Iva per essere sostenibile prevede che svolgendo il proprio lavoro si abbia dei costi. La benzina per l’auto, metà di quanto spendi per l’affitto se lavori in casa, i biglietti del treno o di aereo, il ristorante: tutte queste cose si possono detrarre, ma non tutte al 100%. Hai ricavi per 21.000 euro l’anno? Bene, se hai avuto 6.000 euro di costi, il tuo reddito è di 15.000 euro, e su quelli pagherai un terzo di tasse (al regime dei minimi). Se nel tuo lavoro non hai costi aprire una partita Iva è difficilmente sostenibile. Facciamo un esempio: su un reddito lordo di 12.000 euro – i miseri mille euro al mese – ci si trova a dover pagare 4.000 euro di tasse più 2.000 di acconto e 1.000 (circa) di commercialista. Un totale di 7.000 euro di tasse, e in tasca ne rimangono meno della metà, 5.000. Oltre i 35 anni, poi, si paga molto di più.
Se si usufruisce del regime fiscale dei minimi si può detrarre un elenco molto ristretto di costi, diversamente da chi ha più di 35 anni, che paga un 51% di tasse (28% Inps + 23% Irpef) ma può detrarre molte più cose.
La cosa migliore che puoi fare è capire in anticipo, mese per mese, quanti costi si dovrà avere entro la fine dell’anno per abbassare il reddito, e pagare una cifra sostenibile di tasse.
Metti da parte un terzo (o più) dei tuoi guadagni dal primo momento: così facendo eviti il rischio, molto comune, di non rientrare più con le cifre una volta che inizierai a pagare le tasse.
Se per un anno un con partita IVA non lavora ed il fatturato è pari a 0 euro, oltre a non dover pagare il 5% di Irpef visto che sono un “minimo”, cosa dove versare? Se il contribuente è iscritto alla cassa artigiani o commercianti dell’Inps deve pagare il contributo annuale anche se il suo reddito è pari a zero. L’importo è di poco inferiore a 3.000 euro annui.
Se il contribuente è un libero professionista in caso di reddito negativo non deve pagare l’Inps. Se invece è iscritto alla cassa artigiani e/o commercianti deve comunque pagare il contributo sul reddito minimale (in 4 rate per un importo di poco inferiore a 3.000 euro annui). Se i contributi non vengono versati l’Inps applica una sanzione pari a circa il 10% della somma non pagata.
Adesso evidenziamo i dati dell'Inps illustrati a un convegno organizzato dall'Associazione 20 Maggio a raccontarci i veri disperati dalla busta paga pressoché inesistente, che siano collaboratori a progetto o partite Iva.
La media dei compensi di tutti i parasubordinati 2013 (dati Inps) è di 19mila euro lordi annui. E a parità di attività svolta, le donne guadagnano 11mila euro in meno rispetto agli uomini. Gli uomini, infatti, hanno redditi di 23.874 euro mentre le donne hanno una media di reddito di 12.185. Più colpite da questa discriminazione sono le fasce d'età dai 40 a i 49 anni, quindi, proprio le lavoratrici all'apice della carriera.
Con un compenso lordo medio di 18.640 il reddito netto di un lavoratore con partita Iva iscritto alla Gestione separata è di 8.679 euro annui e di soli 723 euro mensili. Va poi sfatato lo stereotipo per cui il lavoro parasubordinato sia un fenomeno solo giovanile e quindi transitorio. Se si osserva la composizione per fascia d'età, emerge che su 1.259mila lavoratori 607.198 hanno tra i 30 e i 49 anni (pari al 48% del totale) e il 33% ha superati i 50 anni. Il lavoro parasubordinato riguarda in prevalenza lavoratrici e lavoratori adulti e con famiglia.
Lo studio analizzato dal direttore dell'Associazione, Patrizio Di Nicola (Università La Sapienza di Roma), mostra anche il crollo degli occupati tra i parasubordinati. Il sito di Adepp, l’associazione degli enti previdenziali privati, riporta nel dettaglio la ricerca. «I collaboratori a progetto diminuiscono di 322mila unità dal 2007 al 2013, e nel solo 2012 passano da 647mila a 502mila, con una flessione di ben 145mila unità. Si tratterebbe di un fenomeno a cui, oltre la crisi, ha contribuito anche la riforma Fornero la quale imponeva, nel tentativo di aumentare il costo di questi contratti e favorire lo spostamento verso il lavoro dipendente, l'introduzione per i collaboratori dei minimi tabellari dei dipendenti».
Le collaborazioni coordinate continuative anche a progetto sono disciplinate dagli articoli da 61 a 69 del decreto legislativo n. 276/2003, che ne disciplinano, tra gli altri, diversi aspetti, quali:
la definizione ed il campo di applicazione;
la forma;
gli obblighi e diritti del lavoratore;
il regime di estinzione del contratto di collaborazione;
previsioni di conversione dei contratti di collaborazione.
All’indomani delle modifiche introdotte dalla L. n. 92/2012, l’art. 63 del D.Lgs. n. 276/2003 dispone:
che il compenso debba essere proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro eseguito in relazione a ciò e alla particolare natura della prestazione e del contratto non può essere inferiore ai minimi stabiliti in modo specifico per ciascun settore di attività, eventualmente articolati per i relativi profili professionali tipici e in ogni caso sulla base dei minimi salariali applicati nel settore medesimo alle mansioni equiparabili svolte dai lavoratori subordinati, dai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale a livello interconfederale o di categoria ovvero, su loro delega, ai livelli decentrati.
Se da più parti tali previsioni hanno destato qualche perplessità, in merito a come identificare i parametri di riferimento per la determinazione del corrispettivo (posto che le collaborazioni coordinate e continuative anche a progetto non costituiscono lavoro subordinato e che, salvo le poche e recentissime eccezioni, non hanno un CCNL) al comma successivo la norma è giunta “in soccorso” prevedendo che:
“in assenza di contrattazione collettiva specifica, il compenso non può essere inferiore, a parità di estensione temporale dell’attività oggetto della prestazione, alle retribuzioni minime previste dai contratti collettivi nazionali di categoria applicati nel settore di riferimento alle figure professionali il cui profilo di competenza e di esperienza sia analogo a quello del collaboratore a progetto”…
Se indubbio è l’interesse che queste previsioni hanno suscitato negli addetti ai lavori, altrettanto interessante è stata la specificazione del Ministero del lavoro (Circ. 22 aprile 2013 n. 7258) che relativamente ai criteri da seguire per la definizione del corrispettivo del collaboratore ha chiarito che il compenso non deve essere parametrato al tempo impiegato per realizzare il progetto, ma che tuttavia “l’elemento temporale rileva ai fini della valutazione circa la congruità dell’importo attribuito al collaboratore sulla base del contratto collettivo di riferimento.”
Ora, nella stessa nota il Ministero ha anche sottolineato il riferimento del nuovo art. 63 “ai minimi salariali applicati nello specifico settore alle mansioni equiparabili svolte dai lavoratori subordinati, in forza dei contratti collettivi sottoscritti dalle Organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, a livello interconfederale o di categoria ovvero, su loro delega, ai livelli decentrati”. Premesso che, a parere di chi scrive, la previsione di un corrispettivo parametrato ai minimi “salariali” parrebbe quanto meno inconsueta per le collaborazioni a progetto, che, di norma, attengono a prestazioni dal contenuto professionale elevato, a chiarimento del punto, la citata nota ricorda che laddove non si rinvenga una contrattazione per lo specifico settore, a parità di estensione temporale (che cos’è l’estensione temporale se non una sorta di orario di lavoro?) dell’attività oggetto della prestazione, si fa riferimento “alle retribuzioni minime previste dai contratti collettivi di categoria applicati nel settore di riferimento alle figure professionali il cui profilo di competenza e di esperienza sia analogo a quello del collaboratore a progetto”.
Se di indubbio interesse risultano le espressioni del legislatore e le precisazioni ministeriali su questi argomenti, non meno meritevoli di attenzione saranno le traduzioni operative da parte degli addetti ai lavori nella redazione pratica dei contratti a progetto, come anche il mantenimento delle collaborazioni a progetto nell’ambito delle prestazioni di carattere autonomo (seppur in coordinamento con il committente), vista la progressiva assimilazione sotto più profili alle forme del lavoro subordinato.