Il lavoratori italiani sono rassegnati a lavorare più a lungo e sembrano molto preoccupati per la propria vecchiaia sul fronte economico. E' il quadro che emerge da uno studio del Censis commissionato dalla Covip presentato oggi secondo il quale circa un lavoratore su tre vorrebbe andare in pensione prima dei 60 anni, a fronte di appena il 3,7% che ritiene che sia possibile un'uscita così precoce dal lavoro.
Il 24,7% dei lavoratori paventa che dovrà aspettare di compiere 70 anni prima di andare in pensione (oltre l'80% ritiene che dovrà aspettare almeno di avere 64 anni) a fronte di oltre il 72% degli intervistati che vorrebbe andare entro i 60. L'84% degli intervistati è convinto che le regole sulla previdenza cambieranno ancora mentre appena l'8,1% pensa che "finalmente" ci siano regole stabili. Quasi la metà dei lavoratori (il 46%) prevede una vecchiaia di ristrettezze con assegni pensionistici di poco superiori alla metà dello stipendio e "senza grandi risorse da spendere". mentre solo l'8,2% pensa che potrà avere una vecchiaia serena dal punto di vista economico grazie a buoni redditi. il 24,5% pensa che non potrà vivere nell'agiatezza, anche se qualche sfizio potrà toglierselo mentre il 21,5% afferma che la situazione è molto incerta e non riesce a immaginare come sarà la propria vecchiaia.
Gli assegni previdenziali sono bassi con oltre il 35% dei pensionati di vecchiaia con importi inferiori a 1.000 euro (quattro milioni di persone). I lavoratori italiani considerano che quando andranno in pensione riceveranno un assegno pari in media al 55% del proprio reddito attuale. I giovani (18-34 anni) si aspettano un importo pari al 53,6% del proprio reddito mentre coloro che ora hanno tra i 55 e i 64 anni si aspettano che l'assegno pensionistico arrivi al 60,1% del loro reddito da lavoro. I dipendenti pubblici sono chiaramente più ottimisti rispetto al proprio reddito da pensione e si aspettano un assegno pari al 62% del loro reddito a fronte del 55% atteso dai dipendenti privati e il 51% dagli autonomi. L'insicurezza, sottolinea il Censis, riguarda anche il percorso previdenziale personale: il 34% dei lavoratori (percentuale che sale al 41% tra i dipendenti privati) teme di perdere il lavoro e di rimanere senza contribuzione, il 25% di dover affrontare una fase di precarietà con una contribuzione intermittente, il 19% di avere difficoltà a costruirsi, oltre la pensione pubblica, fonti integrative di reddito, come ad esempio la previdenza complementare.
La paura di perdere il lavoro si estende anche ai lavoratori pubblici (il 21,4% degli intervistati). Nella crisi la previdenza, come sistema e come percorso personale, catalizza paure e incertezze, creando ansia piuttosto che sicurezza. Come fonte di reddito per integrare la pensione pubblica,sottolinea ancora il Censis, il 70% dei lavoratori indica forme di risparmio diverse dalla previdenza complementare (acquisto diretto di strumenti finanziari, investimenti immobiliari, polizze assicurative) mentre solo il 16,5% dichiara di preferire una forma di previdenza complementare. La previdenza complementare, poco conosciuta, non suscita tra i lavoratori la fiducia necessaria a far sì che vi investano i loro risparmi. Tra i motivi della scelta di non aderire alla previdenza complementare, si legge nella ricerca, al primo posto emergono quelli economici: il 41% dichiara di non poterselo permettere, il 28% non si fida degli strumenti di previdenza complementare, il 19% si ritiene troppo giovane per pensare alla pensione, il 9% preferisce lasciare il Tfr in azienda.
Mentre sul problema degli esodati. Il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, "non è stato informato" su eventuali nuovi esodati, così come pubblicato dal quotidiano Il Messaggero. Il quale ha sostenuto che, secondo alcuni calcoli dell'Inps, oltre ai 140 mila salvaguardati dal governo rispetto alle nuove regole della riforma Fornero, ci sarebbero altri 150 mila esodati per i quali cercare una soluzione. "E' una fonte Inps, dovete chiedere all'Inps - ha detto Fornero - visto che ci sono conti dei quali il ministro ancora una volta non viene informato". A maggio l'Inps aveva inviato una lettera al ministero nella quale si calcolava in 390 mila il totale dei lavoratori che, avendo perso o lasciato il lavoro, con la riforma Fornero si sarebbe potuto trovare per un periodo senza stipendio e senza pensione. "Per conto mio - ha detto Fornero - abbiamo salvaguardato 140 mila persone". L'Inps dovrebbe mandare nei prossimi giorni le prime lettere di salvaguardia alle persone che rientrano nel decreto sui primi 65 mila salvaguardati. Dopo questi, è previsto che si lavorino le domande per il decreto appena pubblicato in Gazzetta ufficiale, che prevede altri 55 mila salvaguardati. Oltre questi, ci sono 10 mila posti per gli esodati della riforma Sacconi e 10 mila per i quali sono stati inseriti fondi nella legge di stabilità. Per questi 140 mila esodati da salvaguardare sono previsti nel complesso 9,3 miliardi.
La vicenda inizia nel dicembre del 2011. Approvando una drastica riforma delle pensioni, che per molti lavoratori spostava in avanti il traguardo anche di 4-5 anni, l’esecutivo tecnico si era posto il problema di tutelare coloro che avevano lasciato il lavoro facendo conto sui requisiti precedentemente in vigore e che si trovavano in mobilità oppure versavano contributi volontari. Non si fissava un numero ma venivano stanziate risorse finanziarie per 5,1 miliardi complessivi, tra il 2013 e il 2019, sufficienti a salvare 65 mila persone.
Poco tempo dopo i criteri erano stati poi allargati, senza però modificare la copertura. Quindi in luglio, con la cosiddetta “spending review”, la platea è stata decisamente allargata - in particolare a coloro che a dicembre 2011 non avevano ancora lasciato il lavoro - e di conseguenza sono stati resi disponibili altri 4,1 miliardi tra 2014 e 2020. Venivano quindi aggiunte, in modo esplicito, altre 55 mila persone.
L'Inps dovrebbe mandare nei prossimi giorni le prime lettere di salvaguardia alle persone che rientrano nel decreto sui primi 65 mila salvaguardati. Dopo questi, è previsto che si lavorino le domande per il decreto appena pubblicato in Gazzetta ufficiale, che prevede altri 55 mila salvaguardati. Oltre questi, ci sono 10 mila posti per gli esodati della riforma Sacconi e 10 mila per i quali sono stati inseriti fondi nella legge di stabilità.
Per questi 140 mila esodati da salvaguardare sono previsti nel complesso 9,3 miliardi.
Ricordiamo che il nodo degli esodati si era riaperto con nella legge di Stabilità, che grazie alla legge venivano stabilite tutele per ulteriori 10 mila soggetti. Alla relativa spesa si sarà fronte con 100 milioni più se necessario i risparmi derivanti dal mancato adeguamento all’inflazione, dal 2014, delle pensioni al di sopra dei 3.000 euro al mese circa (già attualmente deindicizzate). Aggiungendo al conto altri 10 mila lavoratori già tutelati rispetto alla meno dirompente riforma del 2010, quella che introduceva le cosiddette finestre di uscita di un anno, si arriva ad un totale di 140 mila salvaguardati.
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mercoledì 23 gennaio 2013
Esodati 2013 continua la polemica e la guerra dei dati per i salvaguardati
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domenica 7 ottobre 2012
Occupazione femminile: difficile trovare lavoro in meridione
Per le ragazze –donne del Mezzogiorno lavorare è l'eccezione: secondo i dati dell'Istat, infatti, nel secondo trimestre del 2012 il tasso d'occupazione tra le under 30 è appena al 16,9%. Un livello così basso non si era mai registrato sin dall'inizio delle serie storiche trimestrali, ovvero dal secondo trimestre 2004.
Un minimo che evidenzia come l'occupazione per le ragazze al Sud abbia toccato il fondo. E' da tenere presente che nella fascia d'età 15-29 anni è molto elevata la quota di studenti, soprattutto tra i più giovani.
Guardando alle 18-29enni meridionali, il tasso di occupazione presenta un lieve miglioramento, al 20,7%. E' evidente il divario con il Nord, dove la quota di giovani occupate tra i 18 e i 29 anni sale al 45,7%, e con la media nazionale (pari al 34,0%).
Meno di due giovani su dieci ha un posto di lavoro. Il Censis ha elaborato una sintesi simbolica, ma efficace: "Segregazione occupazionale". L'odierno studio dell'Istat non fa che confermare la rilevazione Censis, contabilizzando questa espressione. L'esito è da far tremare i polsi per tutte le considerazioni riguardanti le pari opportunità e le problematiche inerenti il fattore D: «Nel Mezzogiorno la probabilità di lavorare per le ragazze è quasi azzerata: la crisi ha eroso ancora di più le opportunità, con il tasso di occupazione sceso tra aprile e giugno a un minimo del 16,9% per le giovani tra i 15 e i 29 anni, vale a dire che meno di due su dieci ha un posto». Scrive l'Istat che una quota così bassa non si registrava dal secondo trimestre del 2004, ovvero dall'inizio delle relative serie storiche. Un nuovo record negativo.
L'economista Innocenzo Cipolletta, presidente di Ubs Italia, ha sostenuto che è l'ennesima conferma della q
uestione meridionale, sulla quale si confrontano da un secolo e mezzo tutte le classi dirigenti italiane. E aggiunge che in questi ultimi venti anni il problema si è ulteriormente accentuato per lo scarso utilizzo dei fondi europei (sui quali l'attuale ministro per la Coesione Territoriale, Fabrizio Barca, si sta spendendo per renderli effettivamente utilizzabili e rilanciare in parte l'occupazione senza la logica degli "investimenti a pioggia").
«Per anni li abbiamo sotto-utilizzati - ha detto Cipolletta - perché la nostra capacità negoziale nell'Unione Europea era ridotta dato l'alto indebitamento. Ora è arrivato il momento di invertire la tendenza, coinvolgendo le regioni ad abbassare l'Irap alle aziende e incoraggiandole a fare nuove assunzioni». Una fiscalità di vantaggio, in realtà già tentata diverse volte, che ora però si confronta con quello che il Censis ha chiamato il rischio "desertificazione industriale" che si staglierebbe dietro l'angolo per tutte le regioni meridionali, se non si rilancia anche tutto il sistema infrastrutturale del Sud - necessario per la logistica, ad esempio - con lo sblocco dei fondi Cipe.
Certo è che la rilevazione Istat testimonia ancor più le difficoltà per le under 30, che da sempre viaggiano su tassi molto bassi di occupazione. Resta così evidente il divario con il Nord, dove la quota di giovani occupate tra i 18 e i 29 anni sale al 45,7%, e con la media nazionale per la componente femminile (pari al 34%).
Tesi suggestiva è quella secondo la quale le donne del Sud rifiuterebbero un'occupazione perché gravate di tutti gli oneri familiari: dalla cura e l'assistenza ai bimbi e agli anziani a tutto ciò che concerne i lavori domestici. Rileva Cipolletta che evidentemente c'è anche una questione culturale, che spinge le donne del Sud ad evitare il "pendolarismo" verso nord alla ricerca di lavoro, perché fondamentali nell'economia familiare. Forse allora incentivare la nascita al Sud di centri di assistenza per anziani non autosufficienti e asili nido (pubblici) può quanto meno mitigare la condizione "segregata" delle donne meridionali. Per rilanciare il sistema-Paese nel suo complesso.
Un minimo che evidenzia come l'occupazione per le ragazze al Sud abbia toccato il fondo. E' da tenere presente che nella fascia d'età 15-29 anni è molto elevata la quota di studenti, soprattutto tra i più giovani.
Guardando alle 18-29enni meridionali, il tasso di occupazione presenta un lieve miglioramento, al 20,7%. E' evidente il divario con il Nord, dove la quota di giovani occupate tra i 18 e i 29 anni sale al 45,7%, e con la media nazionale (pari al 34,0%).
Meno di due giovani su dieci ha un posto di lavoro. Il Censis ha elaborato una sintesi simbolica, ma efficace: "Segregazione occupazionale". L'odierno studio dell'Istat non fa che confermare la rilevazione Censis, contabilizzando questa espressione. L'esito è da far tremare i polsi per tutte le considerazioni riguardanti le pari opportunità e le problematiche inerenti il fattore D: «Nel Mezzogiorno la probabilità di lavorare per le ragazze è quasi azzerata: la crisi ha eroso ancora di più le opportunità, con il tasso di occupazione sceso tra aprile e giugno a un minimo del 16,9% per le giovani tra i 15 e i 29 anni, vale a dire che meno di due su dieci ha un posto». Scrive l'Istat che una quota così bassa non si registrava dal secondo trimestre del 2004, ovvero dall'inizio delle relative serie storiche. Un nuovo record negativo.
L'economista Innocenzo Cipolletta, presidente di Ubs Italia, ha sostenuto che è l'ennesima conferma della q
uestione meridionale, sulla quale si confrontano da un secolo e mezzo tutte le classi dirigenti italiane. E aggiunge che in questi ultimi venti anni il problema si è ulteriormente accentuato per lo scarso utilizzo dei fondi europei (sui quali l'attuale ministro per la Coesione Territoriale, Fabrizio Barca, si sta spendendo per renderli effettivamente utilizzabili e rilanciare in parte l'occupazione senza la logica degli "investimenti a pioggia").
«Per anni li abbiamo sotto-utilizzati - ha detto Cipolletta - perché la nostra capacità negoziale nell'Unione Europea era ridotta dato l'alto indebitamento. Ora è arrivato il momento di invertire la tendenza, coinvolgendo le regioni ad abbassare l'Irap alle aziende e incoraggiandole a fare nuove assunzioni». Una fiscalità di vantaggio, in realtà già tentata diverse volte, che ora però si confronta con quello che il Censis ha chiamato il rischio "desertificazione industriale" che si staglierebbe dietro l'angolo per tutte le regioni meridionali, se non si rilancia anche tutto il sistema infrastrutturale del Sud - necessario per la logistica, ad esempio - con lo sblocco dei fondi Cipe.
Certo è che la rilevazione Istat testimonia ancor più le difficoltà per le under 30, che da sempre viaggiano su tassi molto bassi di occupazione. Resta così evidente il divario con il Nord, dove la quota di giovani occupate tra i 18 e i 29 anni sale al 45,7%, e con la media nazionale per la componente femminile (pari al 34%).
Tesi suggestiva è quella secondo la quale le donne del Sud rifiuterebbero un'occupazione perché gravate di tutti gli oneri familiari: dalla cura e l'assistenza ai bimbi e agli anziani a tutto ciò che concerne i lavori domestici. Rileva Cipolletta che evidentemente c'è anche una questione culturale, che spinge le donne del Sud ad evitare il "pendolarismo" verso nord alla ricerca di lavoro, perché fondamentali nell'economia familiare. Forse allora incentivare la nascita al Sud di centri di assistenza per anziani non autosufficienti e asili nido (pubblici) può quanto meno mitigare la condizione "segregata" delle donne meridionali. Per rilanciare il sistema-Paese nel suo complesso.
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