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lunedì 19 giugno 2017

Pensioni: domande INPS aperte per APe sociale e pensione precoci



Decreti APe sociale e pensione precoci nella Gazzetta Ufficiale n.138 del 16 giugno, contemporaneamente alle istruzioni INPS (circolare INPS n. 99 che disciplina l’applicazione della pensione anticipata dei lavoratori precoci e la circolare n.100 che disciplina l’applicazione dell’APE sociale), che sanciscono quindi il via libera alle domande per i nuovi canali di flessibilità in uscita . Il presidente dell’INPS, Tito Boeri, ha confermato l’apertura dei termini per la domanda a partire dalla  mezzanotte del 17 giugno del 2017: «siamo in grado di raccogliere le domande di Ape sociale».


Secondo il Ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, con la pubblicazione dei decreti: «i lavoratori in condizioni di difficoltà, per quest’anno stimati in circa 60mila, possono anticipare fino a tre anni e sette mesi l’età di pensionamento, con potenziali effetti positivi sul ricambio generazionale in azienda».

Si stimano 35mila soggetti con i requisiti APE e 20mila precoci. Il nuovo ammortizzatore sociale (anticipo pensionistico APE) è riservato a chi ha più di 63 anni e si trova in condizioni di disagio lavorativo e sociale.

Per i Precoci si apre una finestra di uscita con 41 anni di contributi  purché rientrino in una delle quattro categorie di disagio valide per l’APE sociale: disoccupazione da almeno 3 mesi, familiari disabili a carico, invalidità pari o superiore al 75%, lavoro usuranti per almeno 6 anni negli ultimi 7.

I termini per la presentazione delle domande preliminari si chiudono il 15 luglio per chi matura i requisiti entro fine 2017. Le domande di APE saranno accolte nel limite di spesa di 300 milioni di euro per quest’anno. Quelle per i lavoratori precoci fino a 360 milioni.

il conto alla rovescia è partito per presentare le domande all’INPS di accesso all’Ape sociale o al pensionamento anticipato da parte dei lavoratori precoci, ovvero chi ha lavorato almeno un anno prima di compierne 19.

Chi può accedere
Con qualche mese di ritardo sulla tabella di marcia (i nuovi sono in vigore dal 1° maggio) si attiva dunque il nuovo ammortizzatore sociale per gli over 63enni in condizione di bisogno che non hanno ancora l’età per la pensione di vecchiaia. Mentre per i precoci si apre una finestra di uscita alla pensione con 41 anni di contributi versati (contro i 41 anni e 10 mesi per gli uomini e i 42 e 10 mesi se donne) a patto di rientrare in una delle quattro categorie di disagio valide per l’Ape sociale: disoccupazione da almeno 3 mesi, familiari disabili a carico, una invalidità pari o superiore al 75%, aver svolto un lavoro usurante per almeno 6 anni negli ultimi 7.

Assegno massimo di 1.500 euro lordi
L’Ape sociale è una vera e propria indennità ponte verso la pensione. Il suo importo è commisurato alla pensione attesa, con un massimo di 1.500 euro lordi mensili per 12 mensilità (circa 1.325 netti) fino a un massimo di 43 mesi, ma il termine potrebbe allungarsi di qualche mese se dal 2019 cambieranno i requisiti di pensionamento per l’adeguamento alla nuova aspettativa di vita (si parla di un allungamento possibile di 3 o 5 mesi). L’Ape sociale è inoltre tassata come reddito da lavoro dipendente e gode quindi di tutte le detrazioni e i crediti d’imposta spettanti a tali redditi, compreso quindi il “bonus” 80 euro che i pensionati non hanno. È inoltre compatibile con redditi da lavoro dipendente o da collaborazione coordinata e continuativa, fino al limite di 8mila euro annui, e da lavoro autonomo fino al limite di 4.800 euro annui. Per accedere si terrà conto di tutta la contribuzione versata, compresi i contributi figurativi cumulati in caso di cassa integrazione, per esempio, principio attualmente non previsto per l’accesso alla pensione anticipata. «L’Ape sociale - ha spiegato Stefano Patriarca, uno dei consiglieri economici di palazzo Chigi che più ha lavorato a questa misura - è una rilevante innovazione nel nostro welfare».

Domande entro il 15 luglio
I termini per la presentazione delle domande si chiudono il 15 luglio per chi matura i requisiti entro quest’anno ed entro il 31 marzo del 2018 per chi li matura l’anno venturo (si veda l’altro articolo in pagina) sia per l’Ape sociale sia per usufruire della finestra di anticipo precoci. Le due misure sono sperimentali e restano in vigore nella versione attuale per due anni. Dovrebbero intercettare domande per circa 35mila che usufruiranno dell’Ape e 20mila precoci nel primo anno di applicazione secondo stime governative e dell’Inps. Le domande di Ape sociale saranno accolte nel limite di spesa di 300 milioni di euro per quest’anno e fino a 609 milioni di euro per il 2018. Quelle per i precoci fino a 360 milioni quest’anno e 505 l’anno prossimo.



domenica 20 novembre 2016

Partite Iva, ecco come difendersi



Aprire la Partita Iva può generare dei costi annuali sia di apertura sia di gestione, fissi o variabili, oltre a far porre una serie di domande sul regime fiscale più conveniente da scegliere tra quelli attualmente a disposizione dei professionisti nel diritto tributario.

I 22 articoli della nuova legge introducono una serie di nuove tutele e di welfare per gli oltre due milioni tra professionisti iscritti a Ordini professionali e i cosiddetti «senza Albo» (quelli che, invece, non appartengono a un Ordine). A cominciare dalla possibilità di poter “scaricare” fiscalmente gli oneri sostenuti per la garanzia contro il mancato pagamento delle prestazioni. Viene infatti prevista la deducibilità integrale dei costi sostenuti per la garanzia contro il mancato pagamento delle prestazioni di lavoro autonomo, fornita da forme assicurative o di solidarietà.

In ogni caso diventano abusive tutte quelle clausole che concordano termini per saldare superiori a 60 giorni dalla consegna della fattura al cliente. Si rafforzano, pure, le tutele nelle transazioni commerciali, e viene estesa ai lavoratori autonomi (in quanto compatibile) la disciplina per difendersi dall'abuso di dipendenza economica. Ma ci sono anche altre modifiche in arrivo, vediamole nel dettaglio.

Spese di vitto e alloggio

Il Ddl autonomi punta all'esclusione dalla base imponibile Irpef e dal calcolo dei contributi di tutte le spese relative all'esecuzione di un incarico conferito e sostenute direttamente dal committente. Un'esclusione che vale già ora per i costi di albergo, pasti e bevande sostenute direttamente da chi commissiona l'incarico al lavoratore autonomo. Niente tassazione anche per le spese di alloggio e vitto pagate dal professionista per l'esecuzione di un incarico e poi addebitate in modo «analitico» al cliente che gli ha richiesto un lavoro. Non saranno, invece, toccate le regole per le altre spese di vitto e alloggio sostenute da autonomi con la deducibilità al 75% per un importo non superiore al 2% dei compensi percepiti nel periodo d'imposta. Modifiche che si dovrebbero applicare già dall'anno d'imposta in corso (quindi dalle dichiarazioni da presentare nel 2017), quindi non sarà un particolare irrilevante quando il testo diventerà definitivamente legge.

Spese di formazione e per iscrizione a master

Anche sulle formazione il Jobs act autonomi punta a riformare il quadro attuale che consente la deduzione delle spese di partecipazione a convegni, congressi e simili o a corsi di aggiornamento professionale - incluse quelle di viaggio e soggiorno - nella misura del 50% del loro importo. Le modifiche puntano, invece, a intervenire su tre diversi profili. In primo luogo, diventerebbero integralmente deducibili entro un tetto annuo di 10mila euro le spese per l'iscrizione a master e a corsi di formazione o di aggiornamento professionale ma anche quelle sostenute per convegni e congressi con l'esclusione, però, della deducibilità delle spese di viaggio e di soggiorno o comunque delle spese di partecipazione diverse dall'iscrizione. Inoltre, sarebbero deducibili dall'imponibile entro un limite annuo di 5mila euro le spese per i servizi personalizzati di certificazione delle competenze, orientamento, ricerca e sostegno all'auto-imprenditorialità erogati dai centri per l'impiego o dai soggetti accreditati a svolgere funzioni e compiti in materia di politiche attive per il lavoro: spese che dovrebbero essere mirate a sbocchi occupazionali effettivamente esistenti e appropriati in relazione alle condizioni del mercato del lavoro. Infine, diventerebbero deducibili integralmente i costi per l'assicurazione contro il mancato pagamento delle prestazioni di lavoro effettuato.

Maternità e malattia
Novità in arrivo per professionisti e partite Iva anche sul fronte del lavoro: se nasce un figlio si avrà la possibilità di ricevere l'indennità pur continuando a lavorare (non scatta l'astensione obbligatoria). Per gli iscritti alla gestione separata Inps i congedi parentali salgono da 3 a 6 mesi entro i primi tre anni di vita del bambino. Se poi ci si ammala o si subisce un infortunio, su richiesta dell'interessato si potrà sospendere la prestazione (salvo che venga meno l'interesse del committente).

La previdenza

Sul fronte previdenziale si profila il tentativo di muoversi in modo in un certo senso allineato con un primo intervento presente nel Ddl di bilancio appena trasmesso alla Camera. La manovra riduce a regime l'aliquota contributiva per i professionisti freelance non iscritti a Casse private al 25% a partire dal 2017, disinnescando così una volta per tutte l'aumento progressivo disposto dalla riforma Fornero del mercato del lavoro e poi congelato mantenendo l'aliquota al 27% negli ultimi anni. A questo si aggiunge l’ordine del giorno (prima firmataria Annamaria Parente, capogruppo Pd in commissione Lavoro a Palazzo Madama) approvato dal Senato. Quest’ultimo impegna il Governo a una revisione complessiva del sistema previdenziale dell'intero comparto del lavoro autonomo (artigiani, commercianti, agricoltori e professionisti non ordinisti) suddividendo la gestione separata tra professionisti (circa 205mila) e parasubordinati. Un intervento pensato in chiave semplificazione con la creazione di due gestioni Inps: una relativa ai lavoratori dipendenti e parasubordinati e l'altra relativa all'unificazione di artigiani, commercianti, agricoltori e professionisti. E questo secondo i senatori Pd potrebbe garantire «un'uniformità di rendimenti e prestazioni uguali per aree omogenee e si risolverebbe la problematica di equilibrio finanziario tra le varie gestioni che oggi esiste».

Poniamo alcune domande

Un Contribuente minimo con 12 fatture per prestazioni di servizi, che opera solo sul territorio italiano, e non sostiene molti acquisti nel corso dell’anno, non è soggetto a comunicazioni periodiche, registri iva e altri adempimenti che contraddistinguerebbero un professionista in regime ordinario, potrete stimare un onorario sui 500-750 euro l’anno (apertura, gestione della contabilità, adempimenti periodici e tenuta delle scritture contabili e dichiarazione dei redditi) anche se so che dicendo questo attirerò le antipatie di alcuni professionisti che applicano parcelle ben maggiori e altri che al contrario applicano parcelle ancora più basse.

Ovviamente il discorso cambia per quello che concerne l’apertura e la gestione della partita Iva per le società (srl o spa per esempio): in realtà per l’apertura in questo caso provvedere spesso direttamente il notaio ed il costo non cambia rispetto ad un libero professionista in quanto la procedura è la medesima.

Potrei gestire da solo la partita Iva?

Questa è una domanda che molti si pongono nel tentativo disperato di abbattere il più possibile i costi di gestione della propria attività di lavoro autonomo (per le società sarebbe abbastanza impensabile). Per esperienza vi dico che è meglio che non ci proviate perché vi ruba molto tempo e vi fa commettere molti errori, soprattutto nella parte iniziale dell’apertura di Partita Iva e fatturazione nonché i primi adempimenti. E poi ci sono le modifiche normative che intervengono di frequente a cui dovreste stare appresso per cui i soldi del commercialista, credetemi sono spesi bene. Unica cosa trovatene uno di fiducia e che non costi molto.

Smarcato l’aspetto dei costi potete leggere l’articolo dedicati ai passi da seguire per l’apertura della partita IVA.

Quale regime agevolato scegliere?

Potete leggere a tal proposito l’articolo dedicato alla scelta del regime fiscale anche se vi anticipo che il nuovo regime forfettario dei contribuenti minimi è quello preferibile se si rispettano i requisiti di accesso. Leggete l’articolo dedicato al NUOVO regime forfettario dei contribuenti minimi

Come chiudere la partita Iva

Se invece la dovete solo chiudere allora potete leggere l’articolo dedicato alla chiusura della partita Iva.
Da una parte poi vi segnalo gli articoli dedicati alla prestazione occasionale e l’altro all'apertura della Partita Iva.



domenica 29 maggio 2016

Pensioni, tutte le regole taglia-assegni e la novità del riscatto della laurea



Trovato l’acronimo, l’anticipo pensionistico cosiddetto Ape, è allo studio del gruppo di esperti coordinato dal sottosegretario Tommaso Nannicini, dell’Ape finora sono state fissate solo le coordinate principali. L’anticipo rispetto al pensionamento di vecchiaia sarà al massimo di tre anni sull’età fissata dalla riforma Fornero.

Dunque il meccanismo, se approvato con la prossima legge di Stabilità, dovrebbe interessare, per primi, i nati nel 1951 (da maggio in poi), nel 1952 e nel 1953. Si tratta dei lavoratori che, alla vigilia della pensione, hanno subito - per la riforma Fornero - un rinvio dell’assegno anche di quattro/cinque anni. Per questi lavoratori non ha operato neppure la salvaguardia introdotta dai decreti correttivi del Dl 201/11, cioè la possibilità di andare in pensione anticipata a 64 anni (cui va aggiunta l’aspettativa di vita) per quanti entro il 31 dicembre 2012 avessero maturato quota 96, con almeno 60 anni di età e 35 anni di contributi oltre ai resti. Residuale, finora, la possibilità di andare in pensione di vecchiaia a 63 anni (oltre all'aspettativa di vita) con la pensione totalmente contributiva (con almeno 20 anni di contributi versati tutti dal 1996).

Per quanto riguarda le donne del privato (lavoratrici subordinate) l’Ape potrebbe - all'inizio - avere un impatto limitato. Le nate nel 1951, dipendenti del settore privato, infatti, hanno potuto andare in pensione con 20 anni di contributi e 60 anni di età alla fine del 2011. Inoltre, fino allo scorso anno era aperta l’opzione per la pensione di anzianità con l’assegno contributivo, a patto che le lavoratrici dipendenti maturassero 57 anni di età e 35 di contributi, oltre alla speranza di vita (58 e 35 per le autonome).

Il meccanismo di anticipo dell’Ape è strutturale e, in base allo sconto massimo di tre anni rispetto al‎ pensionamento ordinario di vecchiaia, interesserà a scorrere gli anni successivi rispetto al triennio di prima applicazione.

Come anticipato la penalizzazione percentuale per ogni anno di anticipo della pensione dovrebbe interessare la quota retributiva dell’assegno, quella, cioè, relativa ai contributi versati fino al 1995 (per quanti al 31 dicembre 1995 avevano meno di 18 anni di contributi) o fino al 2011 (per coloro che al 31 dicembre 1995 avevano almeno 18 anni di contributi). Il taglio percentuale potrebbe essere più alto per gli assegni oltre tre volte il trattamento minimo (superiori, nel 2016, a 1.505 euro mensili): fino a questo limite la penalità potrebbe essere del 2-3% per ogni anno di anticipo, oltre potrebbe arrivare al 5-8 per cento. Si tratta naturalmente di ipotesi che andranno vagliate alla luce dei costi e della compatibilità dei conti pubblici.

Per quanto riguarda la quota contributiva della pensione non dovrebbero esserci penalizzazioni, ma occorrerà stabilire se il coefficiente di trasformazione della dote di contributi sarà quello dell’età anticipata di pensionamento o quello dell’età da legge. Nel primo caso occorrerà prevedere una copertura figurativa che, come ipotizza Pier Paolo Baretta, sottosegretario all’Economia, potrebbe essere offerta dalla banche o dalle assicurazioni. L’intervento di banche e assicurazioni, in questo caso, avrà una doppia valenza, in quanto dovrà assicurare anche il finanziamento per l’anticipo della pensione, così da non caricare l’operazione sulle finanze statali e non incidere sul fabbisogno. Il conto di banche e assicurazioni, in questo modo, rincarerà.

Una prima stima dei costi, ma solo per quanto riguarda l’anticipo della pensione (e non in relazione all’utilizzo del coefficiente di trasformazione più vantaggioso) è stato fatto dalla Uil. Con un tasso di interesse del 3,5% - pari a quello applicato dall’Inps per i prestiti pluriennali ai dipendenti pubblici - per una pensione lorda di 1.500 euro mensili l’anticipo di un anno potrebbe costare al pensionato 1.700 euro; con una pensione di 3mila euro lordi il conto salirebbe a oltre 3.400 euro. La restituzione avverrà una volta raggiunta l’età della vecchiaia e potrà essere dilazionata in più anni. Occorrerà comunque prevedere una garanzia statale a favore di banche e assicurazioni in caso di mancata restituzione del prestito.

Uno degli aspetti fondamentali da chiarire è quello se l’Ape interesserà anche i pubblici dipendenti, finora non toccati dagli ammorbidimenti della legge Fornero.

Allo studio c’è anche il riscatto della laurea, cioè il versamento dei contributi per gli anni passati all’università in modo da avvicinare il momento della pensione. L’idea è rendere flessibile anche il riscatto: potendo scegliere non solo il numero degli anni da recuperare, cosa possibile già oggi. Ma anche la somma da versare e quindi l’effetto sull’assegno futuro. Perché una mossa del genere? Chi oggi è vicino dalla pensione e chiede il riscatto della laurea di solito si vede presentare un conto parecchio salato. E questo perché il calcolo viene fatto sulla base del suo stipendio attuale che, a fine carriera, tende a essere più alto. Chi chiede il conteggio, quindi, spesso rinuncia all’operazione e resta al lavoro fino alla scadenza naturale. Rendere flessibile il riscatto significa slegare la somma da pagare dallo stipendio attuale, considerarla un versamento volontario di contributi.



Pensioni novità: quando andare in pensione? Le proposte




Sono previsti dei percorsi alternativi, anche se non sempre facilmente attuabili, alla pensione di vecchiaia ordinaria, i cui requisiti anagrafici per il 2016 sono di 66 anni e 7 mesi per gli uomini indipendentemente dal settore lavorativo e per le donne dipendenti della pubblica amministrazione, di 65 anni e 7 mesi per le dipendenti del settore privato e di 66 anni e 1 mese per le autonome e le iscritte alla gestione separata dell'Inps. La riforma previdenziale di fine 2011 oltre alla vecchiaia ha regolato la pensione anticipata, che si raggiunge quest'anno con 42 anni e 10 mesi di contributi (un anno in meno per le donne) indipendentemente dall'età. Garantisce un vantaggio, rispetto alla “vecchiaia” a chi ha iniziato a lavorare non troppo dopo i venti anni di età e non ha buchi contributivi.

Sempre legata all'ultima riforma c'è la pensione anticipata con il sistema contributivo, a cui può accedere solo chi ha iniziato a versare dal 1996 e quindi è soggetto al calcolo della pensione interamente con il sistema contributivo. Sono necessari 20 anni di contributi (quindi proprio quest'anno diventa effettivamente fruibile), 63 anni e 7 mesi di età e l'importo dell'assegno previdenziale deve essere almeno 2,8 volte il valore di quello sociale, quindi deve essere pari almeno a 1.254,60 euro lordi.

Sono ancora in vigore le agevolazioni per i lavoratori soggetti ad attività usuranti o svolte di notte, a cui si applica ancora il sistema delle “quote” (somma di età e anni di contributi) ma aggiornato all'aspettativa di vita. I requisiti minimi per i dipendenti sono quota 97,6 con un minimo di 61 anni e 7 mesi di età e 35 anni di contributi e, per gli autonomi, quota 98,6 con un minimo di 62 anni e 7 mesi di età e 35 anni di contributi (per i notturnisti si possono aggiungere 1-2 anni in relazione al numero di notti lavorate).

Per le donne dipendenti che hanno maturato 57 anni e 3 mesi di età e 35 di contributi (58 anni e 3 mesi per le autonome) entro il 2015, è ancora aperta l'opzione donna, cioè la possibilità di andare in pensione trascorsi la finestra mobile o anche successivamente a fronte però del calcolo dell'assegno con il metodo contributivo che comporta in media una penalizzazione del 25-30% rispetto al sistema misto a cui avrebbero diritto.

Ci sono poi delle alternative che prevedono il coinvolgimento del datore di lavoro e non si basano quindi sulla sola scelta del lavoratore. Sempre con la riforma del 2011 è stata introdotta la possibilità di gestire i dipendenti in esubero a cui manchino non più di 4 anni alla pensione erogando una sorta di pre pensione interamente a carico dell'azienda. Una volta raggiunti i requisiti minimi, scatterà la pensione vera e propria.

Fa convivere la pensione con il lavoro il part time introdotto con la legge di Stabilità 2016, destinato a chi, dipendente a tempo indeterminato, ha già almeno 20 anni di contributi ed entro il 2018 raggiungerà i requisiti per la pensione di vecchiaia. In accordo con l'azienda possono ridurre l'orario dal 40 al 60% e incassare oltre a quanto dovuto, la parte di contributi a carico dell'azienda per le ore non lavorate.

Infine c'è il mix di part time e pensione di più complessa attuazione. Previsto dal Jobs act attende ancora le indicazioni operative, ma può scattare solo nell'ambito di contratti di solidarietà espansivi (riduzione generalizzata di orario a fronte di nuove assunzioni): in questa situazione i dipendenti a cui mancano non più di 2 anni alla pensione si possono ridurre l'orario almeno per oltre la metà e percepire in anticipo una parte della pensione fino a incassare complessivamente quanto avrebbero preso continuando a lavorare a tempo pieno. Ulteriori misure ad hoc sono riservate ai lavoratori coinvolti nelle bonifiche dell'amianto e per i nati nel 1952.

La proposta di Damiano per la flessibilità delle pensioni prevede un pensionamento flessibile a partire dai 62 anni e 7 mesi di età e 35 anni di contributi con una penalità del 2% per ogni anno di anticipo rispetto all’età di 66 anni e 7 mesi, mentre per i lavoratori precoci si garantirebbe un’uscita unica a 41 anni di contributi. Nella petizione, inoltre, c’è la volontà di ulteriori interventi per rendere più equa la previdenza italiana con:

1) l’ottava e ultima salvaguardia degli esodati;

2) il monitoraggio di opzione donna per l’inclusione di altre lavoratrici;

3) un meccanismo adeguato di indicizzazione per le pensioni medio basse. Intanto, i lavoratori precoci sono tornati a chiedere con forza l’introduzione di quota 41 senza penalizzazioni sia sui palchi delle organizzazioni sindacali che negli studi di programma che da sempre si occupano di pensionati e della flessibilità in uscita.


domenica 31 maggio 2015

Pensioni, decreto ingiuntivo: l’Inps ripaghi l’indicizzazione



I giudici hanno accolto il ricorso di un pensionato partenopeo presentato prima il governo annunciasse il decreto sui rimborsi delle pensioni.

Le sentenze della Corte Costituzionale «producono la cessazione di efficacia della norma stessa dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione» e gli organi politici possono adottare, «ove lo ritengano», «i provvedimenti del caso nelle forme costituzionali».

Un'ingiunzione di pagamento di 3.074 euro a titolo di arretrati dopo la bocciatura del blocco delle indicizzazioni delle pensioni da parte della Corte Costituzionale. Lo ha stabilito in un decreto ingiuntivo del 29 maggio dal Tribunale di Napoli, sezione Lavoro, che ha accolto il ricorso di un pensionato partenopeo presentato prima il governo annunciasse il decreto sui rimborsi delle pensioni. Lo ha riferito l'avvocato Vincenzo Ferrò, che ha assistito il pensionato.

I cittadini che ritengano di vedere leso un proprio diritto hanno pieno titolo fare ricorso, «ma i ricorsi dovranno tenere conto del decreto del governo», ha ricordato il ministero del Lavoro, ribadendo quanto già affermato dal ministro Giuliano Poletti sulla possibilità di ricorrere contro i rimborsi parziali previsti dopo la sentenza della Consulta sulle pensioni. «Dal punto di vista della legittimità - aveva sottolineato il ministro del Lavoro - noi siamo convintissimi di aver pienamente ottemperato a quanto la Corte ha in qualche modo sottolineato come limiti della normativa precedente per cui ha scelto di cassare quella parte della norma».

Con il decreto del 13 maggio il governo ha previsto che dal primo agosto i pensionati ricevano un rimborso che varierà a seconda della pensione percepita. Per il 2012-13 il provvedimento riconosce la rivalutazione del 40%” per gli assegni tra 3 e 4 volte il minimo, del 20% per quelli tra 4 e 5 volte il minimo e del 10% per quelli tra 5 e 6 volte il minimo. Per il 2014-15 sarà rimborsato il 20% di quanto previsto per il biennio precedente. Diversa l'opinione dell'avvocato Vincenzo Ferrò, che ha assistito il pensionato napoletano che, il 29 maggio, si è visto accogliere il ricorso. “Si tratta del primo decreto ingiuntivo di questo tipo.

Abbiamo sempre nutrito la massima fiducia nella Magistratura ed il nostro non facile lavoro è stato ripagato. Questo è solo il primo di una serie di ricorsi volti ad ottenere il riconoscimento del diritto alla rivalutazione delle pensioni”, ha spiegato all'Ansa Ferrò. Il suo assistito percepisce una pensione di circa 2mila euro lordi e rientra, perciò, nella fascia di pensionati alla quale arriverà, ad agosto, il bonus di massimo 750 euro.

Dello stesso avviso il Codacons che ritiene che il provvedimento del governo non valga per il pregresso e secondo il quale si apre la strada a “migliaia di ricorsi analoghi” L'Inps, si legge intanto nell'ingiunzione del tribunale di Napoli, ha ora 40 giorni per opporsi davanti al giudice: un'opposizione che, una volta entrato in vigore, potrà probabilmente basarsi anche sul decreto del governo.

Ricordiamo che la sentenza della Corte Costituzionale che ha 'bocciato' il blocco degli adeguamenti pensionistici.

La soluzione è complessa. Le possibili ripercussioni sui conti pubblici sono enormi. L'applicazione della sentenza sul totale dei pensionati interessati è stato quantificato dai tecnici del Mef in oltre 17 miliardi lordi. Il Governo sta lavorando a «misure che minimizzino l'impatto sui conti pubblici, nel pieno rispetto della Corte».

Intanto il sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti dopo aver definito apertamente «impossibile» la restituzione a tutti i pensionati degli adeguamenti all'inflazione bloccati, è tornato sul tema, proponendo «una soglia di 5 mila euro che potrebbe rappresentare una misura giusta» oltre la quale non scatterebbe il rimborso, perché «non è giusto pensare di rimborsare tutte le pensioni, anche quelle più alte».

Il segretario generale dello Spi-Cgil, Carla Cantone, ha sostenuto che la sentenza deve essere applicata immediatamente». Ma ha aggiunto: «Siamo disponibili a ragionare con il governo sulle modalità e sulle tempistiche della restituzione degli arretrati».



lunedì 1 dicembre 2014

Pensioni per il 2015 aumenti saranno una chimera


Gli incrementi sulle pensioni che in genere scattano ogni inizio dell’anno, per essere queste adeguate all'inflazione, quest’anno saranno impercettibili e anzi per i primi mesi del 2015, le rate seppure di qualche euro si abbasseranno

Un’altra brutta notizia per i pensionati: l’inflazione tiene al palo gli assegni. Per il 2015 non ci sarà alcun aumento. Anzi, nei primi due mesi dell’anno – secondo quanto scrive Il Messaggero – l’importo potrà risultare leggermente più basso di quello del 2014, per il recupero di una piccola somma che era stata percepita in più”.

Un'inflazione dannosamente vicina allo zero non è una buona notizia, visto che si associa ad un'economia che non riesce a uscire dalla recessione. Ma gli incrementi ai minimi storici rilevati quest'anno dall'Istat porteranno dal prossimo gennaio 2015 una sorpresa poco gradita per i pensionati: la rivalutazione dei loro assegni sarà quasi impercettibile. Anzi, nei primi due mesi dell'anno l'importo potrà risultare leggermente più basso di quello del 2014, per il recupero di una piccola somma che era stata percepita in più.

Per capire esattamente cosa accadrà bisogna ricordare come funziona il meccanismo di adeguamento annuale delle pensioni, chiamato perequazione. Ogni anno gli importi vengono rivalutati sulla base dell'indice dei prezzi al consumo rilevato dall'Istat per l'anno precedente. Siccome l'Inps effettua i relativi calcoli più o meno a partire dal mese di novembre, viene stimato un indice provvisorio sulla base di quello dei primi nove mesi. Il relativo decreto del ministero dell'Economia sta per essere formalizzato, ma dati gli andamenti recenti si stima un incremento limitato allo 0,3 per cento, livello storicamente bassissimo (nel 2009 si arrivò allo 0,7 per cento).

Gli incrementi da "zero virgola" dell'inflazione, rilevati dall'Istat, porteranno dal prossimo gennaio una sorpresa poco gradita per i pensionati, perché la rivalutazione dei loro assegni sarà quasi impercettibile.

È vero che questi ritocchi, praticamente nulli, corrispondono a un livello dei prezzi di fatto congelato, per cui sulla carta non c'è perdita di potere d'acquisto. Ma per i pensionati, esclusi dal bonus da 80 euro, è un altro duro colpo.

All'inizio di quest'anno, sulla base dell'inflazione 2013, era stato riconosciuto un incremento provvisorio dell'1,2 per cento, che però con i dati definitivi è risultato leggermente più alto di quello effettivo, pari all'1,1. Di conseguenza l'Inps dovrà limare di quello 0,1 per cento gli aumenti dello scorso anno, ed anche recuperare con le prime due rate del 2015 i pochi euro percepiti in più dai pensionati.

L'effetto pratico è gli incrementi saranno quasi inesistenti, anche ragionando sulle cifre lorde. Una pensione pari all'importo del trattamento minimo, originariamente stimato per il 2014 a 501,38 euro al mese, viene rivista a 500,88 e su questa base portata a 502,38. L'aumento è quindi di un euro al mese.

Ma con tutta probabilità, gli interessati vedranno nella propria busta paga una somma ancora più bassa, perché l'Inps dovrà anche recuperare i poco più di 6 euro che non erano dovuti: se, come di consuetudine, lo farà tramite trattenute sulle rate di gennaio e febbraio il totale effettivo risulterà ancora più basso, circa 499 euro.

Su importi un po' più consistenti, più o meno al di sopra dei 600 euro mensili, inizia ad entrare in gioco il fisco. Che per la sua natura progressiva, ed in particolare a causa della detrazione decrescente riconosciuta ai pensionati, va ad intaccare anche i circa 2 euro al mese di aumento effettivo che spettano intorno ai mille euro di pensione o i poco meno di 4 che sarebbero riconosciuti per un assegno di valore doppio. E poi c'è sempre da restituire la manciata di euro in più percepiti nel corso del 2014.

Per ironia della sorte, su un livello di adeguamento all'inflazione già così basso operano anche le decurtazioni stabilite con la precedente legge di Stabilità. Per cui al di sopra di tre volte il trattamento minimo (circa 1.500 euro al mese), quell'esiguo 0,3 per cento teorico va applicato al 95 per cento; al di sopra delle quattro volte al 75 per cento; oltre le cinque volte il minimo al 50 per cento e infine al 45 per cento se l'importo della pensione è superiore a sei volte il trattamento minimo.

In pratica anche quell'esiguo incremento dovuto all'adeguamento alla pur bassa inflazione non ci sarà, anzi le prime due buste paga gennaio 2015 e febbraio 2015 risulteranno ancora più bassi dell’anno precedente proprio per il recupero che l’Inps si accinge a fare. Per fare un esempio una pensione di 501,38 euro al mese con molta probabilità per i primi due mesi del 2015 sarà di circa 499 euro per poi essere rivista e portata a 502,38 euro per il resto dell’anno.



domenica 20 luglio 2014

Pensione, effetto crisi sul calcolo dell'assegno




Per conseguire un assegno previdenziale più consistente un lavoratore può ritardare l'età del pensionamento, può trarre beneficio da un incremento dello stipendio o del reddito e conseguentemente dei contributi versati, può in alcuni casi effettuare versamenti aggiuntivi e può ricorrere al secondo pilastro.

Pensioni, importi in picchiata: ecco quanti soldi si possono perdere.

Professionisti, statali: ecco chi ci perde e chi ci guadagna La pensione? Non dipende solo dal lavoratore, dall'età fino a cui lavora e dalla sua retribuzione. L'assegno che un lavoratore percepirà dipende anche dalle condizioni economiche del Paese perché il Pil può incidere fino al 20-25% sulla misura del trattamento previdenziale. La rivalutazione dei contributi versati è legata alla variazione annua del Pil. Con il sistema contributivo, infatti, il montante individuale viene rivalutato su base composta a un tasso di capitalizzazione che è pari alla variazione media quinquiennale del Pil nominale calcolata dall'Istat. Ne consegue che se il Pil cresce poco o per nulla, dopo 20 o 30 anni gli importi messi da parte varranno meno rispetto a una situazione economica di crescita. E il valore del primo assegno pensionistico si ridurrà rispetto all'ultima retribuzione.

Chi andrà in pensione dopo il 2020, dovrà "pagare il conto" delle riforme previdenziali che hanno introdotto la revisione prima triennale poi biennale dei coefficienti di trasformazione: il Sole 24 Ore ricorda che la Ragioneria generale dello Stato ha calcolato che dal 2020 in poi il tasso di sostituzione netto passerà dall'84% al 77% e che dopo il 2035 si ridurrà fino al 71% e questo accade per il passaggio dal pensionamento di vecchiaia del regime misto a quello anticipato del regime contributivo. Andrà peggio per gli autonomi: per loro il salto avverrà prima dal momento che dal 94% di inizio decennio si arriverà al 734% nel 2020. Tradotto significa che per assicurarsi una retribuzione pari al 70% dell'ultima retribuzione si dovranno accumulare 40 anni di contributi e avvicinarsi ai settant'anni di età.

Il Sole 24 Ore ha citato il caso di un 42enne che ha iniziato a versare i contributi a 25 anni, se andrà in pensione a 68 anni percepirà un assegno pari al 65,6% dell'ultima retribuzione. Ma questo solo la variazione media del Pil durante la sua vita lavorativa sarà stata pari all'uno per cento. Con una variazione del 2% può contare sull'80,5%.  Ma se il Pil dovesse rimanere inviarato il tasso di sostituzione scenderebbe al 54%.  Se dunque la difficile situazione economica che sta attraversando l'Italia dovesse prolungarsi, l'effetto sulle pensioni sarà deflagrante e a pagarne saranno i più giovani perché chi adesso è vicino alla pensione non sarà danneggiato dal punto di vista pensionistico.

Per conseguire un assegno previdenziale più consistente un lavoratore può ritardare l'età del pensionamento, può trarre beneficio da un incremento dello stipendio o del reddito e conseguentemente dei contributi versati, può in alcuni casi effettuare versamenti aggiuntivi e può ricorrere al secondo pilastro.

Ma c'è una variabile a lui esterna su cui non può intervenire e che, da sola, incide in modo consistente sull'importo della pensione e, più in generale, sulla tenuta dell'intero sistema: la variazione annua del prodotto interno lordo a cui è collegata la rivalutazione dei contributi versati. Con il sistema contributivo, infatti, il montante individuale alla fine di ogni anno viene rivalutato su base composta a un tasso di capitalizzazione pari alla variazione media quinquennale del Pil nominale calcolata dall'Istat.
Ne consegue che, tenendo immutate le altre variabili, se il Pil cresce poco o per nulla, dopo 20-30 anni gli importi accantonati varranno di meno di quanto accadrebbe con un'economia in fase espansiva. Dal punto di vista pratico, il tasso di sostituzione (cioè quanto varrà il primo assegno pensionistico rispetto all'ultima retribuzione) si ridurrà.

I lavoratori dipendenti che andranno in pensione dopo il 2020 dovranno innanzitutto fare i conti con gli effetti delle ultime riforme previdenziali, che hanno alzato i requisiti e introdotto la revisione triennale e poi biennale dei coefficienti di trasformazione. Come calcolato dalla Ragioneria generale dello Stato dal 2020 in poi il tasso di sostituzione netto passerà dall'84 al 77 per cento. Dopo il 2035 si scenderà al 71% quale effetto principalmente del passaggio dal pensionamento di vecchiaia del regime misto a quello anticipato del regime contributivo. Per gli autonomi, invece, il salto avverrà prima, dato che dal 94% di inizio decennio si arriverà al 74% del 2020. Dagli esempi riportati a inizio pagina si vede che per garantirsi una pensione pari almeno al 70% dell'ultima retribuzione in molti casi si dovranno accumulare più di 40 anni di contributi e avvicinarsi alla soglia dei 70 anni di età.

Tra i fattori da considerare c'è pure l'andamento della retribuzione, anche se questa risulta decisamente più determinante con il sistema retributivo che collega direttamente l'assegno allo stipendio degli ultimi anni, per cui un'accelerazione di carriere nel finale garantiva effetti positivi. Rispetto a quest'ultimo il sistema contributivo "avvantaggia" le carriere piatte e discontinue perché prende in considerazione tutto quanto è stato versato.

Comunque i più giovani, assoggettati interamente al sistema contributivo, dovranno contare sui contributi versati nel corso della carriera lavorativa, sperando che sia il più possibile continuativa, in modo da non perdere anni e ritrovarsi a 70 anni con un montante ridotto.

Il punto è che molte elaborazioni, tra cui quella della Ragioneria dello Stato, ipotizzano proprio un tasso di variazione medio del Pil all'1,5% nel lungo periodo (fino al 2060). A fonte dell'andamento dell'economia italiana negli ultimi anni queste ipotesi rischiano di essere ottimistiche. Non va dimenticato, infatti, che per esempio nel 2013 la variazione del Pil è stata pari a -1,9 per cento. Se il quadro di contrarietà dovesse protrarsi a lungo a pagarne le conseguenze saranno ovviamente le generazioni più giovani perché per chi è prossimo alla pensione un'economia bloccata negli ultimi anni di lavoro incide poco sul tasso di sostituzione.


mercoledì 23 aprile 2014

Calcolo 80 euro in busta paga da maggio 2014



Al momento dell'annuncio della misura, il premier Renzi è stato chiaro: l'aumento in busta paga di 80 euro sarà a beneficio di coloro che guadagnano meno di 1.500 euro al mese. Ma il bonus dovrebbe essere definito a seconda di fasce di reddito stabilite. Per chiarire, il bonus sarà erogato dal datore di lavoro sotto forma di credito e non, dunque, sotto forma di riduzione delle tasse da lavoro da versare e dovrebbe essere in vigore già dal prossimo mese di maggio.

Tornando alle fasce di reddito individuate, per quelli che percepiscono un reddito annuo fino a 8.000 euro, che avrebbero un reddito mensile netto di 407 euro, il bonus mensile dovrebbe essere di 25 euro; per chi percepisce tra gli 8.000 e i 12.000 euro all'anno e ha uno stipendio netto mensile medio di 750 euro, il bonus dovrebbe essere di 92 euro; che sale a 97 euro per chi invece ha in reddito compreso tra i 12.000 e i 15.000 euro all'anno.

Chi invece percepisce tra i 15.000 e i 20.000 euro l'anno e ha uno stipendio mensile medio di 1.250 euro, avrà un bonus di circa 83 euro; infine avrà un bonus di 60 euro chi ha un reddito annuo compreso tra i 20.000 e i 25.000 euro l'anno, cioè uno stipendio mensile di circa 1.416 euro. In questi casi il bonus scatta in maniera automatica, cosa che invece non accade in altri casi come, per esempio, per chi svolge un  lavoro a contratto di collaborazione coordinata e continuativa da 12mila euro insieme ad un’altra occupazione.

Questo lavoratore se assunto da maggio a settembre con un contratto di lavoro subordinato compatibile con l’altro contratto e che riceve un compenso di 5mila euro, nel primo caso avrebbe un bonus da 480 euro, calcolando il 4% di 12mila euro; e nel secondo da 640 euro, prendendo però in considerazione entrambi i redditi percepiti, ma per ottenere il bonus deve comunicare i propri dati al datore di lavoro con cui ha il contratto da co.co.pro.

Il calcolo bonus Renzi che arricchirà le buste paga di milioni di italiani fino ad ottanta euro al mese per almeno tutto il 2014, è presto fatto.

Per chi ha una busta paga di 718,00 euro netti mensili il bonus equivale a 39,40 euro al mese e cioè 315,00 euro in più all'anno.

48,10 euro in più al mese invece per chi prende ad esempio 836,00 euro al mese e cioè 385,00 euro netti per l'anno 2014.

Per chi guadagna 1.063,00 euro al mese il bonus ammonta a 65,60 euro mensili e quindi 525,00 euro per quest'anno.

Per chi invece guadagna tra i 1.200,00 euro ai 1.609,00 euro al mese, ad esempio, vedrà riconoscersi un bonus pari a 80,00 euro al mese.

Oltre i 1.773,00 euro mensili, il bonus viene azzerato. Come detto prima restano fuori dal gettito positivo, coloro che sono stati definiti "incapienti" e cioè quelli che guadagnano meno di 8.000,00 euro netti all'anno.

Avere 80 euro in più in busta paga per almeno otto mesi è un bonus che giustifica una pensione più povera? I circa dieci milioni di lavoratori dipendenti che percepiranno la «mancia» del governo

Il taglio del cuneo fiscale può trasformarsi in una seccante partita di giro.

Ma proprio su un capitolo decisivo come quello previdenziale. Il perché è presto spiegato. Il decreto prevede che il tanto agognato bonus sia un «credito» e non una «detrazione». Le parole, in questo caso, sono importanti perché indicano che è compito del datore di lavoro (che in gergo fiscale si chiama «sostituto di imposta») individuare l'area nella quale effettuare il prelievo degli 80 euro da aggiungere alla busta paga.

La norma concede uno spazio di manovra abbastanza largo. Se, infatti, le ritenute Irpef non fossero sufficienti a reperire l'ammontare del bonus, il datore di lavoro potrà «estrapolare» i soldi dai contributi previdenziali, cioè dalla somma che in busta paga viene trattenuta dal reddito lordo e versata all'ente previdenziale (nella maggior parte dei casi l'Inps) per costruire la futura pensione.

Sulla carta non dovrebbero esserci problemi perché la manovrina studiata dal ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, e dal premier Matteo Renzi prevedrebbe che sia lo Stato a farsi carico di quei contributi. Spieghiamolo ancora meglio: se nella busta paga del dipendente le ritenute Irpef non superano gli 80 euro, il datore di lavoro può autonomamente decidere di prelevare in tutto o in parte quella cifra dai contributi previdenziali

Si tratta del dispositivo che era stato studiato anche per il bonus da destinare a incapienti (coloro che hanno un reddito annuo lordo inferiore a 8mila euro e pertanto non pagano tasse, ma i contributi previdenziali li versano ugualmente) e lavoratori autonomi. Con un taglio di 3-4 punti dell'aliquota contributiva gli 80 euro sarebbero pressoché garantiti, ma che ne sarebbe delle pensioni? Le vecchie bozze prevedevano una semplice comunicazione all'Agenzia delle entrate che successivamente avrebbe dovuto provvedere, a sua volta, a notificare la situazione all'Inps o a un altro ente. Questi ultimi constatano solamente che manca all'appello parte dei contributi della posizione del lavoratore. Allo Stato toccherà poi farsi carico di sanare lo sbilancio versando la parte residua.

Se ci si basasse sugli esempi del passato, la risposta dovrebbe essere negativa. La difficile situazione patrimoniale dell'istituto di previdenza pubblica è stata soprattutto generata dall'assorbimento dell'Inpdap, il vecchio ente previdenziale dei dipendenti pubblici. Negli anni scorsi lo Stato dichiarava di aver versato i contributi dei propri dipendenti senza, in realtà, provvedervi. Nell'imminenza dell'ingresso nell'euro, quei soldi furono trasformati in anticipazioni di cassa. I contributi «figurativi» si sono così trasformati in un pozzo senza fondo che hanno determinato 25 miliardi di passivo al cui ripianamento contribuiscono i lavoratori parasubordinati cui si chiede sempre un aumento dei versamenti.

Ora se si guarda bene a quegli 80 euro, il rischio non è soltanto quello di una pensione a cui potrebbe mancare qualche «pezzo» (non trascurando che - con le attuali regole - solo i più fortunati otterranno il 60% dell'ultimo stipendio) ma soprattutto quello di vedere che lo Stato prende con una mano ciò che dà con l'altra. Non si tratta del taglio alle detrazioni per il coniuge a carico e della stangata sulla Tasi, ma di un aumento delle aliquote contributive che generalmente rappresenta il modo più veloce per gestire eventuali «crisi». Ecco, per avere circa 1.000 euro in più all'anno valeva la pena creare confusione e incertezza?

Se le ritenute Irpef non fossero sufficienti a reperi­re l’ammontare del bonus, il datore di lavoro potrà «estrapolare » i soldi dai contributi previ­denziali, cioè dalla somma che in busta paga viene trattenuta dal reddito lordo e versata all’ente previdenziale (nella maggior parte dei casi l’Inps) per co­struire la futura pensione.

Se nella busta paga del dipendente le ritenute Irpef non supe­rano gli 80 euro, il datore di lavo­ro può aut­onomamente decide­re di prelevare in tutto o in parte quella cifra dai contributi previ­denziali.

Si tratta del dispositivo che era stato studiato anche per il bonus da destinare a incapienti (coloro che hanno un reddito annuo lordo inferiore a 8mila euro e pertanto non pagano tas­se, ma i contributi previdenzia­li li versano ugualmente) e lavo­ratori autonomi. Con un taglio di 3-4 punti dell’aliquota contri­butiva gli 80 euro sarebbero pressoché garantiti, ma che ne sarebbe delle pensioni?

Le vecchie bozze prevedevano una semplice comunicazione al­l’Agenzia delle entrate che suc­cessivamente avrebbe dovuto provvedere,a sua volta,a notifi­care la situazione all’Inps o a un altro ente. Questi ultimi consta­tano solamente che manca al­l’appello parte dei contributi della posizione del lavoratore. Allo Stato toccherà poi farsi cari­co di sanare lo sbilancio versan­do la parte residua. Ci si può fidare? Se ci si basas­se sugli esempi del passato, la risposta dovrebbe essere negativa”.

De Francesco spiega poi un altro rischio: quello di un aumento delle aliquote contributive.

“Ora se si guarda bene a quegli 80 euro, il rischio non è soltanto quello di una pensione a cui po­trebbe mancare qualche «pez­zo » (non trascurando che – con le attuali regole- solo i più fortu­nati otterranno il 60% dell’ulti­mo stipendio) ma soprattutto quello di vedere che lo Stato prende con una mano ciò che dà con l’altra. Non si tratta del taglio alle detrazioni per il coniuge a carico e della stangata sulla Tasi, ma di un aumento delle aliquote contributive che generalmente rappresenta il modo più veloce per gestire eventuali «crisi»”.

mercoledì 11 dicembre 2013

Legge di stabilita 2014: esodati e pensioni



Potrebbe essere vicino a una soluzione il problema dei cosiddetti esodati. "C'è una novità sui lavoratori esodati, ci sarà un intervento importante, stanziando risorse cospicue, sui lavoratori esodati che altrimenti nel 2014 rimarrebbero senza nulla". Lo ha comunicato il viceministro all' Economia, Stefano Fassina, sulle novità del governo sulla Legge di Stabilità.

Così il viceministro all’Economia, Stefano Fassina, risponde a chi gli chiedeva di novità a firma del governo sulla Legge di Stabilità. La Legge è ancora in discussione alla Camera e se per la richiesta degli interventi sulle pensioni tutto ancora tace, ecco invece che si intravede qualche possibilità per gli esodati.

Sulla questione era intervenuto nei giorni scorsi anche il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, che ha detto: «Ci aspettiamo sul tema degli esodati un rapporto trimestrale sul sito dell’Inps per sapere quanti soggetti sono stati trattati, quante persone hanno ricevuto la lettera e quante pensioni sono state liquidate».

Torna l’adeguamento al costo della vita per le pensioni superiori a 1.486 euro lordi al mese (3 volte il minimo), ma in forma limitata e comunque non oltre i 2.972 euro lordi. Ma torna anche il contributo di solidarietà sulle cosiddette pensioni d’oro che solo lo scorso giugno la Corte costituzionale aveva cancellato. Questa volta sarà del 6-12 per cento sugli importi superiori a 6.936 euro lordi al mese (90.168 euro all’anno). Sono le principali novità in materia previdenziale contenute nel disegno di legge di Stabilità, come modificato dal maxi emendamento del governo approvato al Senato. Ora passa tutto all’esame della Camera.

La legge Finanziaria 1995 ha disposto che il primo gennaio di ogni anno le pensioni vengano adeguate in base alla variazione del costo della vita accertata dall’Istat, l’Istituto nazionale di statistica. L’adeguamento è fissato con un decreto del ministero dell’Economia alla fine di ogni anno per l’anno successivo. Per il 2014 l’aumento dovrebbe aggirarsi intorno all’1,5%, stima di aumento dei prezzi nel 2013 fatta dall’Istat e dal governo nella nota di aggiornamento al Def (Documento di economia e finanza). Fin dall’inizio l’adeguamento non è stato riconosciuto al 100% per le pensioni di importo elevato, con soglie che sono cambiate di anno in anno.

La legge di Stabilità 2014 ordina per il triennio 2014-2016 di una perequazione limitata anche sulle pensioni di importo fra 3 e 6 volte il minimo, negandola per quelle superiori a sei volte. L’adeguamento al costo della vita sarà quindi del 100% per i trattamenti fino a tre volte il minimo (1.486,29 euro lordi al mese). Per quelle fra 3 e 4 volte il minimo (1.486,29—1.981,72 euro) la rivalutazione sarà del 90% «con riferimento all’importo complessivo dei trattamenti medesimi». Sempre sull’intero importo, l’aumento sarà del 75% per le pensioni fra 4 e 5 volte il minimo (1.981,72—2.477,15 euro lordi) e del 50% su quelle fra 5 e 6 volte il minimo (2.477,15—2.972,58 euro lordi) mentre sulla parte eccedente 6 volte non ci sarà alcun aumento.

Il decreto Salva Italia del governo Monti rafforzò il contributo di solidarietà già introdotto dall’esecutivo Berlusconi, stabilendo, dal 2012, un prelievo del 5% sugli importi di pensione compresi fra 90mila e 150 mila euro lordi, che saliva al 10% sulla fascia 150-200mila e al 15% sulla parte eccedente i 200 mila euro lordi. Tale contributo è stato dichiarato incostituzionale dalla Consulta lo scorso giugno, perché discriminatorio in quanto applicato a una sola categoria di contribuenti, i pensionati, e non anche ad altri cittadini con lo stesso reddito. È ancora in vigore, invece, il contributo di solidarietà fissato da Monti per i pensionati dei fondi speciali: Trasporti, Elettrici, Telefonici, Volo, ex Inpdai. Il prelievo oscilla tra lo 0,3% e l’1% della pensione in base agli anni di contribuzione versati prima del 1996. Sono escluse dal contributo le pensioni fino a 5 volte il minimo.

Il contributo di solidarietà sulle cosiddette pensioni d’oro viene riproposto nel maxiemendamento del governo per finanziare un sussidio a favore dei più poveri, motivazione che dovrebbe consentire, secondo il governo, di superare eventuali nuovi giudizi di costituzionalità. Il contributo è fissato nel 6% per la parte di pensione compresa fra 14 e 20 volte il minimo (90.168—128.811 euro lordi annui), che sale al 12% sugli importi fra 20 e 30 volte il minimo (128.811—193.217 euro lordi annui) e al 18% sulle quote oltre 30 volte.

In tutto, le pensioni colpite dal nuovo contributo di solidarietà sono, secondo i dati Inps, 29.554. Si tratta di assegni superiori a 6.936 euro lordi al mese. Di questi, 6.805 sono maggiori di 9.908 euro lordi al mese (20 volte il minimo) e appena 1.344 superano i 14.863 euro lordi al mese (30 volte il minimo).



mercoledì 23 gennaio 2013

Esodati 2013 continua la polemica e la guerra dei dati per i salvaguardati

Il lavoratori  italiani sono rassegnati a lavorare più a lungo e sembrano molto preoccupati per la propria vecchiaia sul fronte economico. E' il quadro che emerge da uno studio del Censis commissionato dalla Covip presentato oggi secondo il quale circa un lavoratore su tre vorrebbe andare in pensione prima dei 60 anni, a fronte di appena il 3,7% che ritiene che sia possibile un'uscita così precoce dal lavoro.

Il 24,7%  dei lavoratori paventa che dovrà aspettare di compiere 70 anni prima di andare in pensione (oltre l'80% ritiene che dovrà aspettare almeno di avere 64 anni) a fronte di oltre il 72% degli intervistati che vorrebbe andare entro i 60. L'84% degli intervistati è convinto che le regole sulla previdenza cambieranno ancora mentre appena l'8,1% pensa che "finalmente" ci siano regole stabili. Quasi la metà dei lavoratori (il 46%) prevede una vecchiaia di ristrettezze con assegni pensionistici di poco superiori alla metà dello stipendio e "senza grandi risorse da spendere". mentre solo l'8,2% pensa che potrà avere una vecchiaia serena dal punto di vista economico grazie a buoni redditi. il 24,5% pensa che non potrà vivere nell'agiatezza, anche se qualche sfizio potrà toglierselo mentre il 21,5% afferma che la situazione è molto incerta e non riesce a immaginare come sarà la propria vecchiaia.

Gli assegni previdenziali sono bassi con oltre il 35% dei pensionati di vecchiaia con importi inferiori a 1.000 euro (quattro milioni di persone). I lavoratori italiani considerano che quando andranno in pensione riceveranno un assegno pari in media al 55% del proprio reddito attuale. I giovani (18-34 anni) si aspettano un importo pari al 53,6% del proprio reddito mentre coloro che ora hanno tra i 55 e i 64 anni si aspettano che l'assegno pensionistico arrivi al 60,1% del loro reddito da lavoro. I dipendenti pubblici sono chiaramente più ottimisti rispetto al proprio reddito da pensione e si aspettano un assegno pari al 62% del loro reddito a fronte del 55% atteso dai dipendenti privati e il 51% dagli autonomi. L'insicurezza, sottolinea il Censis, riguarda anche il percorso previdenziale personale: il 34% dei lavoratori (percentuale che sale al 41% tra i dipendenti privati) teme di perdere il lavoro e di rimanere senza contribuzione, il 25% di dover affrontare una fase di precarietà con una contribuzione intermittente, il 19% di avere difficoltà a costruirsi, oltre la pensione pubblica, fonti integrative di reddito, come ad esempio la previdenza complementare.

La paura di perdere il lavoro si estende anche ai lavoratori pubblici (il 21,4% degli intervistati). Nella crisi la previdenza, come sistema e come percorso personale, catalizza paure e incertezze, creando ansia piuttosto che sicurezza. Come fonte di reddito per integrare la pensione pubblica,sottolinea ancora il Censis, il 70% dei lavoratori indica forme di risparmio diverse dalla previdenza complementare (acquisto diretto di strumenti finanziari, investimenti immobiliari, polizze assicurative) mentre solo il 16,5% dichiara di preferire una forma di previdenza complementare. La previdenza complementare, poco conosciuta, non suscita tra i lavoratori la fiducia necessaria a far sì che vi investano i loro risparmi. Tra i motivi della scelta di non aderire alla previdenza complementare, si legge nella ricerca, al primo posto emergono quelli economici: il 41% dichiara di non poterselo permettere, il 28% non si fida degli strumenti di previdenza complementare, il 19% si ritiene troppo giovane per pensare alla pensione, il 9% preferisce lasciare il Tfr in azienda.

Mentre sul problema degli esodati. Il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, "non è stato informato" su eventuali nuovi esodati, così come pubblicato dal quotidiano  Il Messaggero. Il quale ha sostenuto che, secondo alcuni calcoli dell'Inps, oltre ai 140 mila salvaguardati dal governo rispetto alle nuove regole della riforma Fornero, ci sarebbero altri 150 mila esodati per i quali cercare una soluzione. "E' una fonte Inps, dovete chiedere all'Inps - ha detto Fornero - visto che ci sono conti dei quali il ministro ancora una volta non viene informato". A maggio l'Inps aveva inviato una lettera al ministero nella quale si calcolava in 390 mila il totale dei lavoratori che, avendo perso o lasciato il lavoro, con la riforma Fornero si sarebbe potuto trovare per un periodo senza stipendio e senza pensione. "Per conto mio - ha detto Fornero - abbiamo salvaguardato 140 mila persone". L'Inps dovrebbe mandare nei prossimi giorni le prime lettere di salvaguardia alle persone che rientrano nel decreto sui primi 65 mila salvaguardati. Dopo questi, è previsto che si lavorino le domande per il decreto appena pubblicato in Gazzetta ufficiale, che prevede altri 55 mila salvaguardati. Oltre questi, ci sono 10 mila posti per gli esodati della riforma Sacconi e 10 mila per i quali sono stati inseriti fondi nella legge di stabilità. Per questi 140 mila esodati da salvaguardare sono previsti nel complesso 9,3 miliardi.

La vicenda inizia nel dicembre del 2011. Approvando una drastica riforma delle pensioni, che per molti lavoratori spostava in avanti il traguardo anche di 4-5 anni, l’esecutivo tecnico si era posto il problema di tutelare coloro che avevano lasciato il lavoro facendo conto sui requisiti precedentemente in vigore e che si trovavano in mobilità oppure versavano contributi volontari. Non si fissava un numero ma venivano stanziate risorse finanziarie per 5,1 miliardi complessivi, tra il 2013 e il 2019, sufficienti a salvare 65 mila persone.

Poco tempo dopo i criteri erano stati poi allargati, senza però modificare la copertura. Quindi in luglio, con la cosiddetta “spending review”, la platea è stata decisamente allargata - in particolare a coloro che a dicembre 2011 non avevano ancora lasciato il lavoro - e di conseguenza sono stati resi disponibili altri 4,1 miliardi tra 2014 e 2020. Venivano quindi aggiunte, in modo esplicito, altre 55 mila persone.

L'Inps dovrebbe mandare nei prossimi giorni le prime lettere di salvaguardia alle persone che rientrano nel decreto sui primi 65 mila salvaguardati. Dopo questi, è previsto che si lavorino le domande per il decreto appena pubblicato in Gazzetta ufficiale, che prevede altri 55 mila salvaguardati. Oltre questi, ci sono 10 mila posti per gli esodati della riforma Sacconi e 10 mila per i quali sono stati inseriti fondi nella legge di stabilità.
Per questi 140 mila esodati da salvaguardare sono previsti nel complesso 9,3 miliardi.

Ricordiamo che il nodo degli esodati si era riaperto con nella legge di Stabilità, che grazie alla legge venivano stabilite tutele per ulteriori 10 mila soggetti. Alla relativa spesa si sarà fronte con 100 milioni più se necessario i risparmi derivanti dal mancato adeguamento all’inflazione, dal 2014, delle pensioni al di sopra dei 3.000 euro al mese circa (già attualmente deindicizzate). Aggiungendo al conto altri 10 mila lavoratori già tutelati rispetto alla meno dirompente riforma del 2010, quella che introduceva le cosiddette finestre di uscita di un anno, si arriva ad un totale di 140 mila salvaguardati.

domenica 25 novembre 2012

Contributi 2013 ricongiunzione da INPDAP a INPS

La ricongiunzione dei contributi è quell’istituto che permette, a chi ha posizioni assicurative in gestioni previdenziali diverse, di riunire, mediante trasferimento, tutti i periodi contributivi presso un’unica gestione, allo scopo di ottenere una sola pensione. In Italia i lavoratori, dal 1979 è possibile ricongiungere in un solo fondo i contributi versati a diverse casse previdenziali.

I contributi in questione possono riferirsi all’assicurazione generale obbligatoria o alle gestioni speciali per i lavoratori autonomi (gestite dall’Inps) o riferibili all’assicurazione generale vincolante per i lavoratori.

La manovra del governo ha dimenticato la ricongiunzione dei contributi, che rimangono a titolo oneroso. Il decreto legge tuttavia, prevede delle novità in materia di totalizzazione, abolendo il requisito minimo dei tre anni di contributi, prima necessari per effettuare questa operazione nella singola gestione. In questo modo, la totalizzazione risulta più accessibile rispetto alla ricongiunzione. Se questa opzione non comporta oneri diretti, va ricordato che l'assegno di norma è più leggero. In generale, poi, non ci sono limiti: ciascun lavoratore può accedere all'una o all'altra opzione.

Stabilito che, tutti i periodi contribuitivi valgono ai fini del raggiungimento dei requisiti minimi per la pensione, resta inteso, che, in molti casi, può risultare conveniente riunire la propria posizione contributiva presso un solo ente. I periodi ricongiunti verranno infatti adoperati come se provenissero dal fondo in cui sono stati unificati e pertanto, daranno diritto alla pensione in funzione dei requisiti previsti dal fondo medesimo.

Ricordiamo che questo procedimento era a carico delle gestioni, e quindi totalmente gratuita per gli iscritti, che avevano l’onere di trasferire nel Fondo i contributi riguardanti i periodi ricongiunti, oltre agli interessi (ad un tasso annuo pari al 4,50 per cento).

Dal 1 Luglio 2010 la legge è cambiata mentre prima prevedeva che la ricongiunzione dei contributi previdenziali da Inpdap (ente previdenziale dei dipendenti della pubblica amministrazione) a Inps divenisse onerosa. Onerosa sta a significare che chi vuole cumulare nell’Inps i propri contributi, avendo versato inizialmente a Inpdap e successivamente all’Inps, deve versarli nuovamente e con interessi.

In molti speravano che il decreto Salva Italia sanasse questa situazione di iniquità. La nuova manovra invece non ha affrontato il problema. Le uniche modifiche riguardano la soluzione alternativa alla ricongiunzione, ossia la totalizzazione. Per capire se sia conveniente una soluzione piuttosto che un'altra occorre valutare caso per caso. Con il passaggio dalla ricongiunzione a titolo gratuito a quella a pagamento si è voluto evitare che le lavoratrici dipendenti del settore pubblico aggirassero l'ostacolo dell'innalzamento dell'età pensionabile prevista per la loro categoria (61 anni dal 2010 e 65 anni dal 2012, ora divenuti 66 per effetto del decreto legge 201/2011, in legge 214) trasferendo i propri contributi all'Inps. Con questa mossa l'Istituto avrebbe pagato la pensione al compimento del 60esimo anno di età.

Quindi ai lavoratori che hanno versato i contributi previdenziali in diverse casse, gestioni o fondi previdenziali – e ai quali ora si chiedono migliaia di euro per la ricongiunzione contributiva - l’unica soluzione accettabile è quella di optare per la totalizzazione, acquisendo gratuitamente il diritto ad un’unica pensione di vecchiaia o di anzianità, seppure rinunciando ai vantaggi ai fini pensionistici che avrebbe comportato il ricongiungimento, gratuito fino al 2010 ma ormai un miraggio per tutti visti i costi stellari.

La ricongiunzione dei contributi previdenziali di casse diverse a pagamento è considerata uno scandalo da molti, ma non dal Ministro Elsa Fornero, che difende la legge 122/2010 sostenendo che «l’imposizione di un onere risponde a criteri di equità tra le categorie».

La totalizzazione rappresenta una soluzione diversa dalla ricongiunzione dei contributi, in primo luogo perché la totalizzazione risulta completamente gratuita, mentre la ricongiunzione può arrivare a costare anche molto caro. In questo caso, però, i contributi non possono essere ricongiunti ad altra cassa o fondo di previdenza.
Un'alternativa alla ricongiunzione è la totalizzazione (Dlgs 42/06) che con la manovra Monti è stata estesa a tutti i periodi contributivi compresi quelli inferiore a tre anni. Le gestioni previdenziali interessate dalla totalizzazione, ciascuna per la parte di propria competenza, determineranno il trattamento pensionistico pro quota in rapporto ai rispettivi periodi di iscrizione sulla base della disciplina del sistema contributivo puro (Dlgs 180/97). Come hanno spiegato Inps e Inpdap, se il lavoratore che effettua la totalizzazione ha già maturato in una delle gestioni previdenziali i requisiti minimi richiesti per il diritto a una pensione autonoma, questo pro quota di pensione sarà calcolato con il sistema di computo previsto nella gestione (retributivo o misto) e, pertanto, non necessariamente con il sistema contributivo.

Della cosiddetta totalizzazione dei contributi possono beneficiare lavoratori dipendenti, autonomi artigiani, commercianti e coltivatori diretti, liberi professionisti, ma soprattutto lavoratori parasubordinati iscritti alla gestione separata.

gli autonomi possono sommare i contributi versati nelle gestioni speciali dei lavoratori autonomi con quelli versati all’INPS come lavoratori dipendenti per attività lavorativa subordinata;

chi ha lavorato all’estero può sommare i contributi versati in paesi dell’Unione Europea o convenzionati con
quelli versati all’INPS;

gli occupati in data successiva al 31.12.1995 possono sommare i contributi INPS con quelli di due o più gestioni;

possono totalizzare i periodi assicurativi, per ottenere un’unica pensione i titolari di posizione assicurativa all’INPGI e all’INPS per altra attività lavorativa subordinata;

chi ha effettuato versamenti all’INPS e all’ENPAL può godere della totalizzatone prevista dalla convenzione stipulata tra i due Enti.

Comunque per richiedere la totalizzazione è necessario: un’anzianità contributiva pari ad almeno tre anni, tranne per i contributivi esteri che però devono rispettare il minimale di contribuzione previsto dalla normativa comunitaria (1 anno) o dalle singole Convenzioni bilaterali;

non aver richiesto e accettato la ricongiunzione dei periodi assicurativi ai sensi della legge 7 febbraio 1979, n. 29 e 5 marzo 1990, n. 45 in data successiva all’entrata in vigore del decreto legislativo n. 42 del 2 febbraio 2006;

non essere titolare di un trattamento pensionistico erogato da una delle gestioni destinatarie della normativa della totalizzazione.

mercoledì 22 agosto 2012

Riforma delle pensioni Monti-Fornero alcuni spunti


La riforma Monti-Fornero è solo l’ultima di una serie di manovre in campo previdenziale con l’obiettivo di risanare un sistema sull’orlo del collasso e probabilmente resterà negli annali come una delle più rigide riforma pensionistiche.

Ma vediamo i punti salienti.

Sistema contributivo per tutti Per coloro che avevano già 18 anni di contributi al 31 dicembre '95, per i quali era previsto il sistema totalmente retributivo, sarà utilizzato il metodo contributivo pro-rata a partire dal 1° gennaio 2012.

Requisiti per la pensione di vecchiaia
Uomini dipendenti e autonomi: 66 anni
Donne dipendenti del settore privato: 62 anni (63 anni e 6 mesi nel 2014, 65 anni nel 2016 e 66 anni nel 2018)
Donne lavoratrici autonome: 63 anni e 6 mesi (64 anni e 6 mesi nel 2014, 65 anni e 6 mesi nel 2016 e 66 anni nel 2018)

Tutti dovranno avere almeno 20 anni di contribuzione.

Abolito il meccanismo delle finestre mobili: la pensione decorrerà dal mese successivo alla maturazione dei requisiti.

Requisiti per la pensione anticipata
Lavoratori attivi prima del 1° gennaio 1996:
 donne 41 anni e un mese
 uomini 42 anni e un mese
 I requisiti saranno incrementati di un mese per gli anni 2013 e 2014.

Lavoratori attivi dal 1.1.1996:
- 63 anni e almeno 20 anni di contributi
 L’importo deve essere almeno 2,8 volte l’ammontare annuo dell’assegno sociale Inps
Eccezioni per i dipendenti del settore privato: entro il 31 dicembre 2012:
  raggiungano quota 96 se uomini / abbiano 60 anni e 20 anni di contributi se donne: possibilità di pensionamento a 64 anni.
 donne con almeno 35 anni di contributi e 57 anni di età: possibilità di pensionamento con i vecchi requisiti con metodo contributivo.

Revisioni dei requisiti legate alla speranza di vita: adeguamento triennale dei requisiti e dei coefficienti di conversione, biennale da 2019.

Totalizzazioni: eliminato il vincolo minimo dei tre anni di contribuzione per i periodi da totalizzare: si possono unire tutti i periodi contributivi.

Taglio alle rivalutazioni delle pensioni superiori a tre volte il trattamento minimo e contributo di solidarietà sulle pensioni superiori a 90 mila euro.

Aumento della contribuzione per: artigiani, commercianti, lavoratori agricoli, lavoratori autonomi e collaboratori iscritti alla gestione separata Inps.

Incorporazione degli enti Inpdap ed Enpals presso l'Inps.

Analizziamo alcuni punti della riforma pensionistica Monti-Fornero, ossia la legge n . 214 del 2011, la quale  contiene al comma 28, articolo 24, l'impegno di valutare entro il 2012 due elementi fondamentali per l'assetto di lungo termine del sistema pensionistico.

Possibilità di introdurre ulteriori forme di gradualità nell'accesso al trattamento pensionistico (fermo restando la stabilità finanziaria e l'applicazione del metodo contributivo) e della previsione di eventuali forme di decontribuzione parziali dell'aliquota contributiva obbligatoria verso schemi previdenziali integrativi.

Per la revisione dell'accesso al pensionamento è importante se si considera che in futuro difficilmente esso avverrà con le stesse modalità degli anni passati, ossia sulla base di una specifica data in coincidenza della quale si verificherà la definitiva cessazione dall'attività di servizio e la corrispondente decorrenza dell'intera prestazione pensionistica maturata. E' molto più probabile  che si andrà incontro verso un periodo transitorio nel corso del quale il lavoratore inizierà a ridurre progressivamente l'attività lavorativa e a percepire, assieme alla retribuzione, una serie di forme di sostegno al reddito (previdenza complementare) che lo accompagneranno al pensionamento definitivo.

Vediamo in secondo luogo il tema delle le risorse utilizzate per finanziare il sistema pensionistico e i possibili pilastri (sono solitamente tre: quello pubblico Inpdap, l'Inps ed Enpals,  quello privato, i fondi pensione, e quello individuale costituito dal risparmio personale). Attualmente, per i lavoratori dipendenti il solo contributo destinato alla previdenza pubblica è pari a circa il 33% della retribuzione, tra i più elevati rispetto ai Paesi europei. Difficilmente un sistema del genere può essere considerato sostenibile nel lungo termine, visto l'onere per le aziende.

Un maggiore bilanciamento nelle prestazioni erogate dai vari pilastri migliorebbe sensibilmente la situazione, anche perché il risultato delle riforme pensionistiche succedutesi in questi anni è stato ridurre fortemente la copertura offerta dal sistema pubblico. Solo rinviando il pensionamento a tarda età e in presenza di una carriera continua, non caratterizzata da buchi contributivi è possibile ricevere ancora, alla cessazione del servizio, una prestazione adeguata.

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