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giovedì 1 novembre 2012

Confidustria: la crisi del lavoro


Secondo Confindustria "la principale fonte di instabilità rimane l'Eurozona, dove gli indicatori qualitativi mostrano un peggioramento della recessione nel trimestre in corso; i passi avanti istituzionali compiuti hanno nettamente ridotto il rischio di dissolvimento della moneta unica, ma non bastano a rompere il circolo vizioso “recessione-restrizione di bilancio-banche selettive"

"Le turbolenze non sono finite" e "il quadro resta, da tempo ormai, condizionato dalle incognite sulla composizione del Parlamento che uscirà tra pochi mesi dalle elezioni". E' quanto ha  affermato il Centro studi di Confindustria nell'analisi mensile.

"Le statistiche in agosto hanno sorpreso all'insù, ma il clima di fiducia rimane ai minimi e il 'meno peggio' estivo – ha spiegato il Centro studi nella congiuntura flash - può tradursi in una flessione più' marcata in autunno, complice il deterioramento nel resto della Ue. Tuttavia, la caduta della domanda interna è stata così violenta da creare spazi per un rimbalzo e l'indice anticipatore Ocse predice la graduale attenuazione della riduzione del Pil nei prossimi trimestri".

Secondo i dati prodotti dalla Cgia Mestre: nel 2012 chiudono 1000 imprese al giorno. Anche se quelle nate sono più numerose di quelle cessate, nei primi 9 mesi di quest'anno sono poco più di 279.000 le imprese che hanno chiuso i battenti: praticamente 1.033 al giorno. E' quanto segnala l'Ufficio studi della Cgia di Mestre secondo il quale "a impensierire" è il fatto che, nonostante il saldo sia positivo e pari a quasi a 20.000 imprese, "ad aprire siano aziende con dimensioni occupazionali molto contenute, mentre quelle che chiudono sono quasi sempre delle attività strutturate con diversi lavoratori alle loro dipendenze. Prova ne sia che il tasso di disoccupazione sta crescendo in maniera preoccupante".

"Nonostante il saldo della nati-mortalità delle aziende sia positivo – ha commentato Giuseppe Bortolussi segretario della Cgia di Mestre - dobbiamo ricordare che molte persone hanno aperto un'attività in questi ultimi anni di crisi, non perché' in possesso di una spiccata vocazione imprenditoriale, bensì dalla necessità di costruirsi un futuro occupazionale dopo esser stati allontanati dalle aziende in cui prestavano servizio come lavoratori dipendenti. Questa dinamicità del sistema è un segnale positivo, ma non sufficiente a tranquillizzarci. Se entro i primi 5 anni di vita il 50% delle aziende muore per mancanza di credito, per un fisco troppo esoso e per una burocrazia che spesso non lascia respiro, c'è il pericolo che la tenuta di buona parte di questi nuovi imprenditori, figli della difficoltà economica che stiamo vivendo, sia inferiore a quella di coloro che hanno avviato un'attività prima dell'avvento della crisi".

"In passato – ha proseguito Bortolussi  - la decisione di aprire la partita iva maturava dopo molti anni di esperienza lavorativa come dipendente: non a caso oltre il 50% dei piccoli imprenditori proviene da una esperienza come lavoratore subordinato e spesso gli investimenti realizzati per aprire una impresa erano il frutto dei risparmi. Ora, difficilmente ciò avviene: si apre per necessità, perché magari il posto di lavoro non c'è più e quindi bisogna inventarsi una nuova opportunità lavorativa a scapito delle motivazioni, della preparazione professionale e della capacita' organizzativa".

E poi i dati riferiti all'artigianato sono ancor più preoccupanti: negli ultimi tre anni il saldo nazionale della mortalità delle aziende di questo settore ha sempre segno negativo: -15.914 nel 2009, -5.064 nel 2010 e -6.317 nel 2011. Nei primi tre mesi del 2012 (ultimo dato disponibile) il saldo ha toccato la punta massima di -15.226: i settori più in difficoltà sono quelli delle costruzioni, le attività manifatturiere e i servizi alla persona.
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