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lunedì 22 ottobre 2018
Utilizzando Whatsapp in modo in proprio si può perdere il posto di lavoro
Attenzione agli sfoghi su Whatsapp: possono costarti il posto di lavoro. Magari si parla male del capo, proprio durante l’orario di lavoro, pensando che niente e nessuno potrà venirne a conoscenza. Invece, sempre di più sono i giudici che sentenziano contro le conversazioni tra privati. Che possono sfociare in licenziamenti o comunque in sanzioni disciplinari. Ricordate che tutto ciò che si fa con le nuove tecnologie non è privato. I giudici stanno infatti allargando le maglie dell’utilizzo in giudizio delle conversazioni fra privati. E ad entrare sempre più nei processi sono proprio gli scambi di messaggi su Whatsapp, tra gruppi o con singoli destinatari: tutti possono dar luogo a licenziamenti o sanzioni disciplinari.
Ma i messaggi possono essere utilizzati anche dal lavoratore per dimostrare l’esistenza di un’attività di tipo subordinato o la comunicazione dell’assenza per malattia.
I messaggi Whatsapp sono prove documentali che possono essere prodotte anche quando il datore di lavoro non è tra i destinatari della chat. Ha quindi valore giudiziario la registrazione di una chat Whatsapp inviata da un dirigente alla moglie dell’amministratore unico che denota un atteggiamento ostile verso l’azienda e giustifica il licenziamento. (Tribunale di Fermo, decreto 1973 del 2017). Ed è legittima anche la produzione delle chat inviate da un medico del pronto soccorso ai colleghi. Se qualcuno fa la “spia” e recapita i contenuti al dirigente, questi possono essere utilizzati per legittimare la sanzione disciplinare (Tribunale di Vicenza, sentenza del 14 dicembre 2017 n. 778).
I giudici hanno inoltre ritenuto legittima l’esclusione da parte di una cooperativa e, di conseguenza, il licenziamento disciplinare di un socio lavoratore che, in una chat su Whatsapp, aveva tentato di boicottare l’attività produttiva, fomentando forme di protesta anche da parte degli altri soci (Tribunale di Bergamo sentenza del 7 giugno 2018 n. 424).
Ma il Tribunale di Roma (sentenza n. 3478 del 4 maggio scorso) ha ritenuto illegittimo il licenziamento irrogato alla lavoratrice colpevole di aver usato un tono di sfida nel file vocale inviato nella chat di gruppo su Whatsapp della quale faceva parte anche il proprio superiore. Per il giudice contano le parole usate e non le intenzioni, ed è proprio la trascrizione del file vocale a salvare la lavoratrice, acquisita in giudizio come prova documentale.
Nel bene e nel male le chat assumono quindi un valore dirimente e, in genere, il diritto di difesa prevale sulla riservatezza altrui. Così i messaggi Whatsapp possono fornire la prova dell’esistenza di un rapporto di lavoro, ma per ottenere le differenze retributive occorre che dal tenore degli stessi emergano elementi precisi e concordanti (Tribunale di Milano, sentenza del 27 aprile 2018 n.1148). I messaggi Whatsapp inchiodano il datore anche ai vincoli della subordinazione quando siano comprovati «gli ordini e le direttive anche sull'orario di lavoro» (Tribunale di Vercelli, sentenza n. 110 del 31 luglio 2017).
La questione della producibilità in giudizio delle conversazioni private è molto delicata. Da un lato va valutato il diritto di difesa della parte che pretende di far entrare quella prova nel processo, dall’altra il diritto alla riservatezza degli utenti. L’articolo 616 del Codice penale protegge l’inviolabilità della corrispondenza e ne punisce la rivelazione senza giusta causa. Ma la regola della segretezza può essere derogata dal legittimo interesse invocato anche dal nuovo Regolamento Ue in materia di privacy che permette il trattamento dei dati personali anche senza il consenso dell’interessato.
Le ultime sentenze hanno decisamente allargato le maglie della producibilità in giudizio delle conversazioni tra privati, dando vita a una visione moderna del diritto che non esclude di prendere in considerazione tutti gli elementi di prova a disposizione delle parti in causa, partendo dal presupposto che la vita online delle parti in causa può rilevare elementi utili su quella off line.
Per i magistrati, quindi, se vi è un interesse di causa e la corrispondenza è rilevante ai fini del giudizio potrà essere utilizzata senza invocare la privacy del diretto interessato.
I giudici hanno detto sì pure al licenziamento da una cooperativa di un socio lavoratore che, su Whatsapp, aveva tentato di boicottare l’attività di produzione, fomentando forme di protesta da parte degli altri soci (Tribunale di Bergamo, sentenza 7 giugno 2018, numero 424). Illegittimo, invece, per il Tribunale di Roma il licenziamento di una lavoratrice, colpevole di aver utilizzato un tono di sfida in un vocale inviato al gruppo di Whatsapp di cui faceva parte anche il superiore (sentenza 3478 del 4 maggio 2018). Secondo il giudice, infatti, contano soltanto le parole usate, non le intenzioni. La trascrizione del vocale è stata la salvezza della lavoratrice, comunque un po’ incauta.
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martedì 20 marzo 2018
Regole sul lavoro: le differenze tra pubblico e privato
Per i lavoratori pubblici, la tutela contro i licenziamenti illegittimi non discende più dall’articolo 18, ma da una norma speciale, allargando la distanza con il lavoro privato.
Le differenze ovviamente fra dipendente pubblico o privato ci sono e sono molte, a partire non soltanto dallo stipendio ma anche dalle regole su assunzione e licenziamento.
Se secondo la maggior parte delle persone lavorare come dipendente pubblico permette di guadagnare di più rispetto a quanto previsto per i colleghi del settore privato, è bene fare alcune precisazioni perché non sempre è così.
Quali sono quindi le differenze tra un lavoratore statale dipendente del settore pubblico e cosa cambia invece per chi è assunto nel privato? Cerchiamo di seguito di dare una panoramica complessiva delle due opzioni.
Una delle prime differenze tra statali e lavoratori del settore privato riguarda le modalità di assunzione.
Per diventare dipendente pubblico, secondo quanto previsto dal comma 3 dell’art. 97 della Costituzione, è necessario superare un concorso, aperto a tutti i cittadini italiani che rispettano i requisiti per lavorare nella Pubblica Amministrazione.
I bandi di concorso per diventare dipendente statale vengono periodicamente pubblicati in Gazzetta Ufficiale e, salvo specifici casi in cui sono previste deroghe alla normativa, l’assunzione come dipendente pubblico avviene sulla base della graduatoria di merito relativa all’esito del concorso.
Al contrario, come noto a chi si è imbattuto in qualsiasi offerta di lavoro, per lavorare come dipendente privato è necessario inviare la propria candidatura e il proprio curriculum vitae debitamente compilato presso l’azienda che offre opportunità di lavoro. Sarà il datore di lavoro o il selezionatore responsabile delle risorse umane a scegliere quale dipendente assumere sulla base di valutazioni inerenti ai bisogni dell’azienda.
Una delle differenze maggiori tra il lavoro nella Pubblica Amministrazione e come dipendente di azienda privata riguarda lo stipendio.
I dipendenti statali guadagnano in media 2.000 euro all’anno in più di un dipendente privato, questo secondo il confronto tra gli stipendi di dipendenti pubblici e privati. Se lo stipendio di un dipendente pubblico è pari a 34.289 euro, un dipendente del settore privato può vantare una retribuzione pari a 32.315 euro, una differenza che certamente non è eccessiva.
Ovviamente non tutti i dipendenti statali se la passano meglio dei dipendenti del settore privato e anche nel settore pubblico bisogna fare le opportune differenze. In Italia tra i dipendenti pubblici meno pagati c’è sicuramente il personale della scuola e della sanità, con redditi annui di gran lunga inferiori rispetto a quanto guadagnato dai colleghi europei e pari a poco più di 28.000 euro all’anno.
Situazione simile per vigili del fuoco, polizia e forze armate, mentre sul fronte opposto, gli stipendi più alti sono quelli delle agenzie fiscali, con retribuzioni che per i ruoli di maggior prestigio arrivano fino a 200 mila euro annui, seguiti dai colleghi di Inps, Inail e Ministeri.
Per i dipendenti privati l’ammontare dello stipendio è determinato dal CCNL della propria categoria, messo a punto con l’accordo delle sigle sindacali rappresentati del settore e quindi il guadagno annuo può variare notevolmente sia in base al settore di lavoro che al proprio inquadramento contrattuale.
Non sempre lo stipendio di chi lavora nel settore privato è inferiore a quello di un dipendente pubblico - fatta accezione dei dirigenti della PA - e anzi è proprio nel settore privato che c’è maggiore opportunità di crescita professionale e avanzamento di carriera e, perché no, di ambire a stipendi maggiori rispetto alla media.
Uno dei temi di maggior critica riguarda le regole sui licenziamenti manuale per i dipendenti pubblici e privati, a seguito delle due diverse discipline introdotte dall’avvento della riforma del lavoro e dall’abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Le regole attualmente in vigore introdotte con la riforma Fornero del 2012 hanno modificato quanto previsto in materia di licenziamenti individuali: in caso di licenziamento illegittimo il lavoratore avrà diritto al risarcimento proporzionale e non più alla reintegra sul posto di lavoro.
Questo tuttavia soltanto per i dipendenti privati: nei confronti degli statali in caso di licenziamento illegittimo vige ancora quanto previsto dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori: come confermato dai giudici della Corte di Cassazione.
Vediamo se è preferibile lavorare nel pubblico o nel privato? Ovviamente non esiste una risposta certa. Spesso per chi lavora nel settore pubblico il rischio è di perdere la motivazione del proprio lavoro. Fare carriera non è semplice e il rischio è di trovarsi incastrati nelle maglie della burocrazia. Mentre il vantaggio per chi lavora nel pubblico è la certezza del posto fisso che, nonostante tutto, sembra essere ancora oggi una delle priorità degli italiani.
Il problema della reintegrazione nel posto di lavoro in caso di licenziamento nullo o annullabile per i dipendenti pubblici torna ad allargare di molto la distanza tra lavoro pubblico e privato, infatti sull’applicabilità o meno dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori al lavoro pubblico, mediante l’introduzione di una norma specifica nel testo unico del pubblico impiego, il legislatore ha risolto tutti i dubbi, prevedendo una norma applicabile esclusivamente ai dipendenti pubblici, secondo la quale “Il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna l’amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, e comunque in misura non superiore alle ventiquattro mensilità, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali”.
La filosofia di fondo, nel pubblico impiego, è rimasta quella della conservazione del posto, vinto dopo una selezione oggettiva. In quest’ottica, ulteriori esempi sono gli istituti della mobilità del personale e della gestione delle eccedenze: diversamente dal privato, qui non si arriva quasi mai alle espulsioni. Si viene ricollocati presso altri uffici. Anche i trasferimenti forzati hanno una serie di garanzie per l’interessato, come gli ambiti territoriali limitati.
Differenti normative esistono, inoltre, per l’utilizzo dei rapporti precari, e autonomi. Il Jobs act ha ridisegnato diverse fattispecie nel duplice tentativo di salvaguardare le esigenze di flessibilità buona delle aziende, e di rilanciare i rapporti stabili (apprendistato incluso). Nel settore pubblico, invece, queste discipline restano ancorate alla temporaneità o eccezionalità del ricorso. Non solo: nella Pa anche i contratti di lavoro autonomo e le collaborazioni ricevono, oggi, una disciplina speciale rispetto al privato.
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giovedì 27 ottobre 2016
Google è il miglior posto di lavoro, ecco i migliori
Secondo la classifica Great Place to Work 2016 è Google - Ecco quali sono le altre 24 multinazionali al "top" nei rapporti coi dipendenti - Assenti le banche.
Per il quarto anno consecutivo la multinazionale di Mountain View si conferma in cima al podio. È seguita da Sas Institute, specializzata in information technology e business intelligence, e W. L. Gore & Associates, gli inventori del tessuto Gore-Tex.
La società di consulenza di San Francisco stila la classifica in base all'analisi di questionari sottoposti ai dipendenti di centinaia di multinazionali in tutto il mondo. I posti di lavoro da sogno si distinguono per il rapporto tra dipendenti e capi, la tranquillità sul luogo di lavoro, i compensi e i riconoscimenti per l’impegno e il merito.
Molti lavoratori Sas hanno detto che la multinazionale per cui lavorano è come una grande famiglia, dove trovi sempre qualcuno disposto ad aiutarti, collaborativo e solidale.
I dipendenti di W.L.Gore & Associates apprezzano il dialogo diretto con i grandi manager, Ceo incluso, e la sensazione che ognuno di loro si preoccupi del successo e della realizzazione dei lavoratori.
Quest’anno si conferma lo stesso identico podio dell’anno scorso: Mountain View svetta al primo posto seguita da un altro gruppo americano dell’information technology, Sas, e da un’altra multinazionale Usa, W.L. Gore, quella che produce il tessuto Gore-Tex. Il gruppo dei computer Usa Dell è quarto (e sale di due posti rispetto al 2015), la tedesca Daimler Financial quinta ed è una nuova entrata.
I posti di lavoro eccellenti si distinguono per essere organizzazioni in cui i collaboratori si fidano delle persone per cui lavorano, sono orgogliosi di ciò che fanno e si divertono con le persone con cui lavorano. Ma quali sono le motivazioni per cui un posto è meglio di un altro? Si va dal fatto che ogni dipendente ha l’opportunità di ottenere un riconoscimento speciale alla meritocrazia, dall'equilibrio tra lavoro e vita privata all'attenzione verso le persone. Ma anche dalla serenità dell’ambiente di lavoro dal punto di vista psicologico all'apprezzamento che i capi mostrano per un lavoro ben fatto e per un impegno particolarmente intenso. E anche l’equità dei compensi.
Google crede che la propria straordinaria capacità di produrre in modo continuo nuove soluzione e di adattarle alle mutevoli esigenze dei clienti dipenda in ultima analisi dai singoli collaboratori. Per questo l’azienda permette alle proprie persone di dedicare una parte del proprio tempo a progetti che non sono legati alle proprie responsabilità di ruolo.
SAS ritiene che l’equilibrio psicofisico delle persone sia alla base della loro efficienza e in ultima analisi della produttività dell’organizzazione. L’azienda non propone ai propri collaboratori servizi spot dedicati alla salute o alla forma fisica, ma un insieme integrato di servizi, informazioni e formazione per creare una vera e propria cultura del benessere, che abbraccia l’intera sfera degli stili di vita salutari, dall'alimentazione all'esercizio fisico e l’armonia psico-fisica, attraverso servizi come la palestra, iniziative sportive e momenti di informazione e formazione.
In W.L. Gore & Associates il focus è sullo sviluppo professionale. L’azienda vuole che le persone e i piccoli team, in cui essa è organizzata, operino con elevati livelli di autonomia. Per questo motivo la crescita delle persone è un fattore critico di successo. Ogni collaboratore di Gore, accanto al proprio superiore diretto, ha uno «sponsor», una persona che fa parte del management aziendale, la quale ha il compito di aiutare il collega nel proprio sviluppo professionale.
Dell ritiene che ascolto e coinvolgimento dei collaboratori nelle decisioni siano gli elementi chiave per costruire una cultura funzionale al proprio successo. Il top management aziendale si incontra una volta al mese con specifici target della popolazione, come ad esempio donne e millennial, per affrontarne le specifiche problematiche. L’azienda ha inoltre creato un gruppo di lavoro, detto degli “ambassador”, aperto a tutti coloro che desiderano farne parte, che ha il compito di raccogliere commenti e suggerimenti in tutte le fasce della popolazione aziendale.
Daimler Financial Services vede nei processi di comunicazione e nell’interazione con i propri dipendenti il modo attraverso cui attuare il miglioramento continuo della propria organizzazione. Numerosi sono i progetti di potenziamento dei propri processi che vedono coinvolti i collaboratori a tutti i livelli. La leadership aziendale è inoltre impegnata con cadenza settimanale in incontri di lavoro con le persone, nonché in incontri informali come i pranzi col top management.
«Anche quest’anno non troviamo nessuna azienda italiana tra i migliori ambienti di lavoro al mondo— commenta l’amministratore Delegato di Great Place to Work Italia Alessandro Zollo — . Lo stesso era accaduto nella classifica europea pubblicata a giugno. Questi risultati non sono certo una novità, ma nascondono il crescente interesse delle stesse aziende italiane per la misurazione del clima organizzativo. Da alcuni anni, infatti, anche nelle realtà italiane sta prendendo piede la convinzione che ci sia una forte relazione tra l’aumento della produttività aziendale e l’impegno e la passione dei propri collaboratori».
Ecco di seguito al classifica delle 25 multinazionali dove lavorare è un piacere.
1. Google
2. SAS Institute
3. W. L. Gore & Associates
4. Dell
5. Daimler Financial Services
6. NetApp
7. Adecco
8. Autodesk
9. Belcorp
10. Falabella
11. Hyatt
12. Mars
13. Accor
14. Cisco
15. Cadence Design Systems
16. Atento
17. Hilton
18. Scotiabank
19. Diageo
20. S. C. Johnson
21. EY
22. Adobe
23. Monsanto
24. 3M
25. American Express
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venerdì 21 ottobre 2016
Come sostenere un colloquio di lavoro
Le parole d’ordine sono sempre le stesse arrivare preparati, stare tranquilli e pensare che mentre stiamo andando al colloquio di lavoro stiamo andando da un amico per raccontare le nostre esperienze di lavoro. Sembra una banalità ma spesso si trascurano proprio le cose più semplici e più naturali.
Un passo decisivo nell'incontro tra offerta e domanda di un posto di lavoro è l’immagine che si trasmette di sé. Durante il colloquio, con l’interloquire davanti al futuro datore di lavoro o chi per lui è incaricato di scegliere persona giusta per rivestire un determinato ruolo lavorativo. Ecco perché è indispensabile valorizzare le proprie competenze professionali cercando di far capire di essere un buon candidato e il migliore possibile), ma allo stesso tempo oltre a ciò che dirai è importante anche apparire nel modo giusto. In questa piccola guida potrai apprendere tutto quanto è necessario per farei i passi giusti durante il colloquio.
Complimenti, siete stati chiamati per un colloquio! Significa che la vostra lettera di presentazione e il CV hanno suscitato una buona impressione e che i selezionatori e i responsabili delle Risorse Umane vogliono sapere di più su di voi. Per molte persone un colloquio di lavoro è estremamente stressante. L’arma migliore per superare la tensione e fare un colloquio di successo è una buona preparazione.
Prima di tutto, dovete fare in modo di sapere il più possibile sull'azienda in cui vorreste fare un colloquio di successo. Queste informazioni non solo vi aiuteranno a comprendere se i vostri valori sono allineati con quelli dell’azienda, ma faranno percepire all'intervistatore la vostra serietà. E importante vedere con attenzione il sito web dell’azienda. Cercate di informarvi sulla struttura interna, sugli obiettivi a lungo termine e sulla filosofia aziendale. Restate sempre aggiornati sulle notizie relative alla società o al settore, e utilizzate i social web per capire che tipo di immagine l'azienda vuole trasmettere all’esterno. Più informazioni trovate, meglio potrete prepararvi al colloquio di successo.
Esaminate in modo approfondito la descrizione dell'impiego. In base a come si presenta l’annuncio di lavoro, potete facilmente capire quali domande vi saranno rivolte in sede di colloquio. Inoltre, esaminando la descrizione delle mansioni, potrebbero venire in mente anche a voi delle domande da fare. Preparatevi queste domande per ottenere un colloquio di successo. Ricordatevi cosa vi ha spinto a candidarvi e spiegatelo durante il vostro colloquio di successo. Date un’occhiata finale al CV e alla lettera di presentazione: l’azienda vi ha chiamato per una ragione precisa, quindi siate certi di conoscere i vostri principali punti di forza prima di iniziare il colloquio di successo.
Fate una ricerca su quali sono le domande più comuni in un colloquio di successo e provate le vostre risposte. Integrate con esempi tratti dalla vostra esperienza, che mettano in risalto il motivo per cui siete le persone giuste per quella posizione. Se esistono vicende specifiche o punti rilevanti da riportare, annotateli e cercate di capire come integrarli nelle risposte. Chiedete a un amico di aiutarvi nella preparazione e di farvi fare un po’ di pratica nelle risposte, in modo da raggiungere una maggior disinvoltura e affrontare il colloquio di successo.
Nessuna azienda invita un candidato a un colloquio se non è davvero interessata. Ricordatevi di questo: vi aiuterà a mantenere un atteggiamento fiducioso e tranquillo durante il colloquio di successo.
Il colloquio è un momento carico di tensione non solo per te, ma anche per il selezionatore. Infatti chi ti sta di fronte ha l’arduo compito di raccogliere una serie di informazioni che gli permettano di formulare un giudizio preciso su di te, e stabilire se sei il candidato “giusto” per quel lavoro, spesso e volentieri tra decine se non centinaia di candidati.
Anche per il selezionatore questo è fonte di stress, perché sbagliare significa assumere una persona poco idonea con tutti i problemi che questo comporta, quindi anche il compito di chi seleziona è importante. Egli, tramite il colloquio, qualche domanda, un’analisi generale sul tuo profilo personale e lavorativo, cercherà di darsi delle risposte ad altre domande latenti al tuo riguardo, necessarie per valutare l’assunzione, quali:
Come si inserisce questo candidato nell’azienda e nel suo gruppo di lavoro?
Ha doti di flessibilità, serietà, concretezza, impegno, apertura mentale, capacità di motivare gli altri e di sdrammatizzare i problemi?
Legherà con i suoi colleghi e i suoi superiori?
È motivato per questo lavoro?
Quanto sembra desiderarlo?
Potrà portare nuovi stimoli, positività, dinamismo, intelligenza ed energia nell’ufficio (reparto, gruppo, settore) al quale verrebbe destinato?
Manifesta un sincero interesse ed entusiasmo per l’azienda, per quello che facciamo e per quello che vogliamo fare in futuro?
Gli possono piacere le sfide, anche impegnative, che l’azienda affronta per giungere ai risultati previsti?
Possiede la professionalità e le competenze per svolgere al meglio i compiti assegnati?
È probabile che resti a lavorare per l’azienda o se ne andrà alla prima occasione?
Desidera questo posto solo per denaro?
Ha un aspetto gradevole? (dove “aspetto gradevole” non vuol dire “bella presenza”, ma presentarsi in ordine e con la maggiore naturalezza possibile. Significa vestirsi bene, pettinarsi, radersi, profumarsi come si farebbe per andare a quel lavoro, senza però esagerazioni e affettazioni)
Possiamo permetterci di assumerlo?
Un sistema per poter incominciare bene il colloquio di lavoro è quello di rispondere in maniera veloce e breve soprattutto alle prime domande, quelle del tipo:
“Mi parli di lei” o “Come mai si è presentato qui?”.
È importante non cadere mai nel silenzio, mai vagare con gli occhi in cerca di risposte dal cielo, e con garbo si deve cercare di esporre i propri lati positivi, magari mettendo in ballo anche parte dei difetti, o aree di miglioramento. È indispensabile anche evitare di parlare di soldi, contratti, regole dell’assunzione, fino a che non si prospetta effettivamente la possibilità dell’assunzione o solo in un secondo momento, quando arriva la comunicazione che la selezione ha avuto esiti positivi.
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martedì 27 settembre 2016
Reintegra nel posto di lavoro per licenziamento illegittimo
La Corte di Cassazione estende oltre i confini tracciati dal Jobs Act l’ambito di applicazione della reintegra in caso di licenziamento in senso favorevole al lavoratore. La condotta tenuta dal lavoratore, seppure debitamente comprovata, non giustifica il licenziamento disciplinare qualora i fatti contestati non siano da ritenere illeciti. Ovvero, la Cassazione di fatto equipara la fattispecie di manifesta insussistenza del fatto all'ipotesi in cui il fatto, seppure compiuto dal lavoratore, risulta essere privo di una intrinseca rilevanza giuridica, poiché non illecito.
La vicenda riguarda un lavoratore licenziato per aver tenuto un comportamento litigioso, offensivo e maleducato con il personale che lui stesso aveva il compito di formare. Secondo la Suprema Corte, tale comportamento può essere punito solo con le sanzioni conservative previste dal CCNL ma non essere considerato causa di licenziamento.
Di assoluta rilevanza la sentenza n. 18418 del 20 settembre 2016, con cui la Cassazione estende le ipotesi di reintegra sul posto di lavoro previste dal Jobs Act a seguito di licenziamento disciplinare, non solo ai casi in cui il fatto contestato sia insussistente, ma anche a quelli in cui esso pur essendo vero non sia da considerare illecito, ossia non suscettibile di alcuna sanzione”. In sostanza, ha proseguito la Corte, l’assenza di illiceità di un fatto materiale pur sussistente, deve essere ricondotto all'ipotesi, che prevede la reintegra nel posto di lavoro, dell’insussistenza del fatto contestato, mentre la minore o maggiore gravità (o lievità) del fatto contestato e ritenuto sussistente, implicando un giudizio di proporzionalità, non consente l’applicazione della tutela cd reale.
In tema di licenziamento disciplinare, ai fini dell’applicabilità della tutela reintegratoria prevista dall'articolo 18 della legge 300/1970, nel testo modificato dalla legge 92/2012, all’ipotesi del fatto contestato insussistente va equiparata quella del fatto che, benché materialmente prodottosi, è privo di una intrinseca rilevanza giuridica.
In questi termini si è espressa la Cassazione osservando che la reintegrazione sul posto di lavoro non può essere esclusa per il solo fatto che il comportamento oggetto di contestazione si è effettivamente realizzato, in quanto è necessario verificare, a prescindere da un giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità della condotta oggetto di addebito disciplinare, che il fatto non sia privo del carattere di illiceità.
Aggiunge la Corte, in questo senso, che la completa irrilevanza giuridica del fatto posto alla base dell’azione disciplinare sfociata nell’irrogazione di un provvedimento espulsivo deve essere posta sullo stesso piano dell’insussistenza materiale della condotta ascritta al lavoratore. In un caso come nell’altro, alla luce di quanto previsto dal nuovo articolo 18, il datore di lavoro è condannato alla reintegrazione in servizio e al versamento al dipendente di una indennità risarcitoria pari alle retribuzioni ricomprese tra il giorno del licenziamento e quello della effettiva ricostituzione del vincolo (nei limiti di un importo massimo di 12 mensilità).
Nel caso affrontato dalla Suprema corte, il licenziamento è stato intimato sul presupposto che il lavoratore avesse tenuto un comportamento maleducato con il personale che lui stesso aveva il compito di formare e avesse, quindi, rifiutato di rinegoziare il superminimo con l’impresa, contestando a quest’ultima di essere stato esposto a pratiche di demansionamento. Nei due gradi di merito il licenziamento è stato ritenuto illegittimo e il lavoratore reintegrato in servizio. Ciò ha indotto l’impresa a proporre ricorso per Cassazione sul presupposto che, una volta dimostrata l’effettiva sussistenza dei fatti contestati, sarebbe stata riconosciuta al dipendente unicamente una tutela risarcitoria, così come previsto dal riformulato articolo 18 della legge 300/1970.
La Cassazione respinge questa lettura e, dopo aver dato atto che l’ipotesi contemplata dall’articolo 18, comma 4, dello statuto dei lavoratori si riferisce alla «insussistenza del fatto» nella sua dimensione materiale e non include un giudizio di merito sulla portata disciplinare degli addebiti, conclude per l’assimilabilità a detta fattispecie del fatto sussistente ma privo dei connotati di illiceità.
Conclude la Cassazione, alla luce di questa ricostruzione, che non può essere relegato a una valutazione di proporzionalità qualunque comportamento accertato ma privo, in concreto, di una sua consistenza antigiuridica, in quanto tale argomentazione porterebbe ad ammettere che ricade nella sola tutela indennitaria un licenziamento basato su fatti che, quantunque esistenti, sono privi di qualsivoglia rilievo disciplinare.
La sentenza, per la specificità del tema affrontato, è destinata ad esprimere effetti anche in relazione al nuovo regime sanzionatorio dei licenziamenti intimati in relazione al contratto di lavoro a tutele crescenti introdotto dal Jobs act.
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giovedì 1 settembre 2016
Lavoratore dequalificato: rivendicazioni, danni e nuove mansioni
La legge stabilisce che il lavoratore deve essere addetto alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero comunque a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte,, senza alcuna diminuzione delle retribuzione. Ciò significa che il lavoratore non può essere adibito a mansioni inferiori e l'eventuale comportamento contrario del datore di lavoro può essere impugnato avanti il Giudice del lavoro per ottenere l'accertamento giudiziale dell'intervenuta dequalificazione e la conseguente riassegnazione a mansioni adeguate e corrispondenti alla professionalità acquisita.
Ovvero chi ritiene di essere utilizzato in modo improprio, in violazione della legge, mediante assegnazione a mansioni che effettivamente siano di contenuto professionale inferiore a quelle precedentemente svolte, può rivolgersi, anche a mezzo di procedura d'urgenza, all'autorità giudiziaria.
Costituisce poi un principio ormai acquisito dalla giurisprudenza il fatto che un demansionamento o una dequalificazione protratta nel tempo si riflette sull'immagine professionale del lavoratore e quindi sul suo valore sul mercato del lavoro e gli determina dei danni, che sono stati ripetutamente ritenuti risarcibile dalla legge.
Si parla espressamente di danni e non di danno perché in caso di dequalificazione o demansionamento potrebbero coesistere diversi tipi di danni che, come spesso accade, potrebbero essere tutte contemporaneamente presenti. Essi sono:
il danno patrimoniale (o professionale);
il danno biologico;
il danno esistenziale;
Il danno patrimoniale (o danno professionale) è probabilmente il più semplice da dimostrare e richiedere. Allorquando un lavoratore è stato ingiustamente inquadrato in un livello inferiore a quello a cui aveva diritto, la parte datoriale è obbligata a risarcire il lavoratore corrispondendogli tutte le differenze retributive ed economiche a cui sarebbe stata obbligata se il lavoratore fosse stato correttamente collocato.
Il danno biologico è sicuramente più complesso in quanto non può prescindere da una valutazione medica e medico-legale. Qualora il lavoratore lamenti di aver subito delle lesioni che si sono riverberate sul suo stato fisico e/o psicologico a causa del demansionamento, può chiedere che un medico accerti tale stato e conseguentemente, sulla base della perizia medico- legale, avanzare la richiesta del relativo risarcimento. Per la quantificazione e liquidazione del danno biologico esistono delle specifiche tabelle adottate da tutti i tribunali.
Nella maggior parte dei casi è stato riconosciuto un risarcimento pari a una somma corrispondente a circa la metà delle retribuzioni percepite dal lavoratore nel corso del periodo di dequalificazione. In alcuni casi poi è stato ritenuto che il protratto demansionamento, traducendosi anche in una sofferenza fisicopsichica, può aver prodotto danni alla salute del dipendente, e nel caso di prova rigorosa del nesso di causalità tra comportamento illegittimo del datore di lavoro e malattia - da accertare in genere mediante apposita consulenza tecnica medica - è stato anche riconosciuto il diritto al risarcimento del danno biologico.
Il lavoratore non ha solo il dovere di svolgere le mansioni di sua competenza, ma anche un vero e proprio diritto di essere messo nelle condizioni di svolgere tali mansioni. Conseguentemente, l’eventuale assegnazione di compiti non attinenti alla sua professionalità, ovvero lo svuotamento delle mansioni da ultimo svolte, costituiscono comportamenti senza dubbio illegittimi.
In tali casi il lavoratore subisce un danno che investe la sfera della sua professionalità, diminuendo progressivamente l’insieme delle sue conoscenze teoriche e delle capacità tecnico-professionali con un conseguente scadimento del livello professionale del lavoratore demansionato. La perdita di competenze professionali, inoltre, compromette anche il valore complessivo del dipendente nel mercato del lavoro. Quindi il lavoratore ingiustamente privato del proprio lavoro, o che si veda costretto a svolgere un lavoro non pertinente con il suo inquadramento e con la sua professionalità, ha diritto al risarcimento del danno subito; risarcimento che, peraltro, risulta non sempre facile da quantificare, e che comunque si dimostra spesso inidoneo a compensare il pregiudizio subito dal lavoratore.
Ne consegue, dunque, che in tale ipotesi il lavoratore ha diritto innanzitutto di essere reintegrato in mansioni compatibili con la propria effettiva professionalità. In secondo luogo, il prestatore di lavoro ha diritto al risarcimento del danno patito che può essere quantificato in via equitativa utilizzando come parametro la retribuzione mensile del lavoratore, o quanto mento una quota significativa della stessa, per tutto il periodo della dequalificazione.
E’ onere del lavoratore fornire la prova del pregiudizio alla professionalità. Il danno professionale, quindi, non sarebbe più, come ritenuto dalla precedente giurisprudenza, peraltro maggioritaria, implicito alla dequalificazione, ma dovrebbe essere provato con specifici fatti ed allegazioni.
E’ bene ricordare che il datore di lavoro può sempre modificare le mansioni del lavoratore, a condizione però che si tratti di mansioni superiori o almeno equivalenti. A tale riguardo, va anche precisato che l'equivalenza della mansione non ricorre necessariamente tra due mansioni di pari livello ; infatti, due mansioni, per essere equivalenti, devono appartenere al medesimo ambito di professionalità: così, sarebbe dequalificante adibire un lavoratore tecnico a mansioni di tipo amministrativo, anche se le due mansioni appartenessero al medesimo livello di inquadramento. può accadere che il datore di lavoro non cambi radicalmente la mansione del proprio dipendente, ma si limiti ad aggiungere una mansione nuova e dequalificante rispetto a quella che veniva precedentemente svolta. In questo caso, si parla di mansioni promiscue.
Il lavoratore non è tenuto a svolgere le mansioni dequalificanti che gli venissero richieste, in quanto si tratterebbe di un ordine illegittimo. Tuttavia, bisogna avvertire che il rifiuto di cui si parla è legittimo a condizione che il lavoratore rispetti il generale principio della buona fede : in altri termini, il lavoratore, che rifiuti lo svolgimento della nuova mansione dequalificante, esplicitamente deve offrire la propria disponibilità ad eseguire la mansione precedente. Si osservi inoltre che la Suprema Corte ha ritenuto che il rifiuto del lavoratore a svolgere mansioni inferiori in modo occasionale o per un periodo meramente transitorio integra un grave inadempimento che può legittimarne il licenziamento da parte del datore di lavoro.
Sussiste dunque nel nostro ordinamento un divieto di variazione in peius, divieto che si ispira al principio di tutela della professionalità acquisita dal prestatore di lavoro, la quale pertanto non deve essere “dispersa”. Secondo la Suprema Corte, anche nel caso in cui una mansione si sia “esaurita” e non sia stata affidata alla esecuzione di altro lavoratore, ugualmente può sussistere un demansionamento ove le mansioni affidate siano inferiori a quelle proprie della qualifica o alle ultime svolte dal lavoratore. Ogni ipotesi di dequalifica va infatti sempre concordata tra le parti del rapporto di lavoro (nei limitati casi in cui è ammessa). Al riguardo occorrerà vedere se tali principi verranno confermati anche in base alla nuova normativa.
Va anche detto che, quand'anche venisse adottata questa precauzione, il lavoratore non sarebbe al riparo da ogni inconveniente. Infatti, non è da escludersi che il datore di lavoro, a fronte del rifiuto, licenzi il lavoratore. Ebbene, la giurisprudenza subordina la dichiarazione di illegittimità di un simile licenziamento al preventivo accertamento che la mansione rifiutata dal lavoratore fosse realmente dequalificante. In caso contrario, il licenziamento sarebbe legittimo.
Si capisce dunque il rischio cui un lavoratore andrebbe incontro qualora rifiutasse di eseguire la nuova mansione ritenuta dequalificante. In primo luogo, la valutazione, compiuta dal lavoratore interessato in ordine alla ricorrenza della dequalificazione, potrebbe essere inesatta. In secondo luogo, quand'anche tale valutazione fosse corretta, il lavoratore correrebbe pur sempre il rischio di non riuscire a provare, davanti al giudice, di aver effettivamente subito una dequalificazione. Pertanto, in simili casi, il lavoratore perderebbe, oltre alla mansione originaria, anche il posto di lavoro.
Per non incorrere in rischi così gravi, è dunque preferibile che il lavoratore, pur manifestando il proprio dissenso in ordine alla assegnazione della nuova mansione, esegua l'ordine impartito dal datore di lavoro, provvedendo al più presto a far accertare in sede giudiziaria la dequalificazione subita. Solo in presenza di una condanna, nei confronti del datore di lavoro, ad adibire il lavoratore a mansioni equivalenti, e a fronte dell'inottemperanza da parte del datore di lavoro, il lavoratore può rifiutare la mansione dequalificante senza incorrere nei rischi sopra indicati.
E’ possibile derogare a il diritto del lavoratore al fine di tutelarne uno superiore, quale ad esempio quello alla conservazione del posto di lavoro. In sostanza, secondo tale orientamento, la dequalificazione del lavoratore è legittima quando costituisce l’unica alternativa al licenziamento; in questo caso, l’attribuzione di mansioni inferiori potrebbe considerarsi giustificata tanto se disposta autonomamente dal datore di lavoro, quanto se attuata a seguito di un accordo sindacale, e comunque indipendentemente dal consenso del lavoratore. A sostegno di tale tesi viene invocata anche una norma di legge che, nell’ambito della procedura che regola il licenziamento collettivo, autorizza il sindacato a firmare accordi che prevedano il riassorbimento di lavoratori ritenuti eccedenti dall’azienda anche in mansioni diverse ed inferiori rispetto a quelle dagli stessi svolte in precedenza.
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domenica 14 agosto 2016
Lavoro: l’importanza delle lingue straniere nel mondo del lavoro
Il mercato del lavoro cambia: l’internazionalizzazione sta producendo la necessità di una sempre maggior qualificazione per accedere ad opportunità lavorative per le quali la concorrenza è forte. È ormai chiaro che un requisito determinante è quello della conoscenza delle lingue straniere : non è più pensabile candidarsi a posti di lavoro in aziende che operino sia su scala nazionale che internazionale senza un’adeguata padronanza almeno dell’inglese.
Conoscere una lingua straniera e l’inglese in particolare, sia uno dei requisiti fondamentali per entrare nel mondo del lavoro, è notizia nota , ma cosa penseresti se ti dicessimo che al giorno d’oggi essere bilingue non è più sufficiente?
In un mondo che muta velocemente, dove tutti sanno che imparare l’inglese non è più un optional ma un obbligo, è necessario aggiungere al curriculum sempre più requisiti che ci consentano di emergere dalla moltitudine di candidati che competono per un posto di lavoro.
Stabilito che oltre a perfezionare l’inglese è necessario imparare una terza lingua, il passaggio successivo è quello di scegliere quale. Visto che imparare una lingua può richiedere tempo e sacrifici sarebbe a questo punto necessario chiedersi “Quali sono le lingue più richieste nel mondo del lavoro (dopo l’inglese)?”
Solitamente per la scelta della lingua da studiare si prende in considerazione soprattutto il grado di diffusione di quest’ultima nel mondo, tuttavia l’ideale è concentrarsi sulle lingue parlate nei mercati in via di sviluppo.
INGLESE
Diventare fluenti nella lingua e magari specializzarsi anche in un inglese più commerciale è il primo passo da seguire. Un ulteriore consiglio è quello di munirsi di certificazioni, specialmente se si vuole lavorare all'estero.
CINESE
Bisogna guardarsi intorno per capire come il commercio con la Cina si stia sviluppando di giorno in giorno. Non a caso questo paese è il terzo in Italia in quanto a importazione di prodotti nel campo del Fashion e Luxury nonché Sales e Retail. Il cinese dunque non è solo la lingua più parlata al mondo ma sarà anche quella più richiesta da aziende di diverso settore, prima tra tutte quelle di moda.
PORTOGHESE
Nella classifica delle lingue più parlate al mondo il portoghese si piazza al sesto posto. Ma è una delle prime lingue da prendere in considerazione tenendo presente che il Brasile,e non solo, è uno dei mercati che si sta sviluppando più rapidamente. I settori maggiormente interessati a questa lingua sono quelli dell’ingegneria e del commercio.
ARABO
I settori che richiedono maggiormente questa lingua sono il giornalismo, interpretariato e traduzioni, il turismo, nonché l’ingegneria. Ad oggi l’arabo è la quarta lingua più diffusa nel mondo e può aprire diversi sbocchi professionali.
SPAGNOLO
Parlato in 44 Paesi diversi, la lingua spagnola è molto richiesta nel settore del commercio internazionale e nell'ingegneria. Considerando poi che l’America Latina sta crescendo notevolmente dal punto di vista economico, imparare lo spagnolo potrà rivelarsi sicuramente un ottimo investimento per il futuro.
TEDESCO
Tra le lingue Europee il tedesco è probabilmente quella più utile al momento per trovare lavoro in quanto è oramai il partner commerciale più importante per l’Italia. Il settore bancario, dell’auto e finanziario, sono quelli più interessati alla lingua tedesca.
Quanto sia accresciuta l'importanza delle lingue straniere lo dimostra un rapporto curato della Commissione Europea, denominato “Languages for Jobs” , risultato di uno studio al quale hanno partecipato oltre 30 studiosi ed esperti dei vari paesi dell’UE (tra cui anche un paio di Italiani): si trattava di sottoporre un questionario mirato ad oltre 500 aziende, delle più varie tipologie e dimensioni: quel che è emerso con forza è che le conoscenze linguistiche vanno di pari passo con la competitività sui mercati del mondo globalizzato.
Le aziende più dinamiche (spesso quelle di dimensioni minori) e che stanno rispondendo alla crisi con più efficacia o addirittura non risentendone, sono risultate quelle la cui percentuale di addetti o dipendenti con una buona conoscenza delle lingue è maggiore, rispetto ad imprese meno attente al problema.
Il punto è proprio questo: la padronanza delle lingue o la mancanza di essa può costituire rispettivamente un’opportunità di crescita (chi le sa può trovare nuovi lavori, nuovi mercati) oppure un freno al proprio sviluppo (chi non le sa trova porte chiuse ovunque).
Si stima da fonti ufficiali dell’UE che nella sola Europa siano in qualche modo presenti 175 “nazionalità”: saper comunicare è a questo punto un pre-requisito.
Uno studio UE d afferma inoltre che le competenze comunicative sono al terzo posto tra le caratteristiche maggiormente richieste dai datori di lavoro ai possibili neo-assunti: che cos'altro è una lingua se non il primo è più potente veicolo di comunicazione?
Naturalmente l’importanza della conoscenza di una lingua straniera sta tanto nella sua utilità e spendibilità immediata, quanto nel suo valore maggiormente “culturale”: saper tradurre con precisione una scheda tecnica di un prodotto può essere rilevante quanto la conoscenza della cultura di un paese con il quale si sta intraprendendo una trattativa commerciale.
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mercoledì 27 luglio 2016
Tutele alla salute del lavoratore sul posto di lavoro
La Costituzione italiana individua nel lavoro il titolo fondamentale di appartenenza e di partecipazione alla vita della comunità e riferimento essenziale per lo sviluppo della personalità, coniugando in tal modo il principio solidaristico, che conferisce al lavoro il carattere doveroso, con il principio personalistico, che implica l’esercizio dell’attività lavorativa come diritto di ciascun individuo.
A tale diritto occorre far riferimento per cogliere a fondo il significato di tutto il complesso dei diritti afferenti i rapporti economici ed etico- sociali. Il riconoscimento del diritto al lavoro, collegato ad esigenze di ordine personale e a valori di natura sociale, si richiama, infatti, al principio d’uguaglianza sancito dallart.3 della Costituzione, per garantire tutti i lavoratori, rispetto ai quali lo Stato si assume l’obbligo di rimuovere gli ostacoli impedienti la loro partecipazione alla vita collettiva.
Il lavoratore che chiede all’azienda il risarcimento del danno alla salute ha l’onere di provare la nocività dell’ambiente di lavoro e il nesso causale fra questo e il pregiudizio subito – Non sussiste per l’impresa una responsabilità oggettiva – In base all’art. 2087 cod. civ. l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. L’art. 2087 cod. civ. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento, con la conseguenza che incombe al lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso di derivazione causale del danno dalla violazione delle norme di sicurezza delle condizioni di lavoro; solo se il lavoratore abbia fornita la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi.
Facciamo un esempio pratico, la vedova di un lavoratore, impiegato in un ambiente lavorativo ove erano presenti polveri di amianto e deceduto per mesotelioma peritoneale, aveva convenuto in giudizio il datore di lavoro chiedendone la condanna al risarcimento del danno. La domanda era fondata e prescrive l’obbligo, per il datore di lavoro, di tutelare l’integrità fisica e psichica del lavoratore. La società convenuta si era difesa sostenendo di aver adottato tutte le misure preventive e di sicurezza prescritte dalla normativa all’epoca vigente. Pertanto, sia il Pretore che il Tribunale, constatato che la società non aveva ricevuto contestazioni per violazioni della normativa anti - infortunistica; constatato – tramite consulenza tecnica – che nell’ambiente di lavoro non vi era una concentrazione di fibre di amianto superiore al massimo consentito dalla legge all’epoca vigente, aveva rigettato la domanda presentato dalla erede del lavoratore.
La sentenza del Tribunale è stata però annullata dalla Corte di cassazione. In altre parole, le norme anti – infortunistiche che pongono specifici divieti o obblighi nei confronti del datore di lavoro costituiscono semplicemente l’applicazione ad un caso particolare del principio generale. Pertanto, il datore di lavoro, nel caso in cui il lavoratore subisca un danno alla propria salute, non può andare indenne dal risarcimento solo per il fatto di aver adottato le prescrizioni specificamente imposte dalla legge. Oltre a queste prescrizioni, resta il generale obbligo sancito dalla norma, che impone al datore di lavoro, indipendentemente dalle specifiche disposizioni anti – infortunistiche, di adottare tutte le cautele necessarie, secondo l’esperienza e la tecnica, a tutelare l’integrità fisica del dipendente. Pertanto, al di fuori degli eventi coperti dalla assicurazione obbligatoria, il datore di lavoro è responsabile dei danni derivanti da infortuni o malattie professionali, subiti da un suo dipendente a causa della nocività dell’ambiente di lavoro e in violazione dell’obbligo imposto dalla legge.
Rispetto all’amianto va anche precisato che la legge ha disposto la cessazione dell’impiego dell’amianto nei luoghi di lavoro, predisponendo anche misure di sostegno per i lavoratori che sono stati esposti all’amianto, quali il pensionamento anticipato, la rivalutazione dei contributi pensionistici, il trattamento straordinario di integrazione salariale per i lavoratori addetti ad imprese che utilizzano o estraggano amianto, o che siano coinvolte in processi di ristrutturazione e riconversione industriale.
La normativa che regola la sicurezza nei luoghi di lavoro individua nel lavoratore il soggetto che esercita un’attività lavorativa alle dipendenze di un datore di lavoro pubblico o privato, anche soltanto per imparare un mestiere, un’arte o una professione.
Affinché possa sussistere il rapporto di dipendenza, il lavoratore deve svolgere una prestazione subordinata che non si sostanzia soltanto in un dover rispettare le decisioni organizzative e funzionali, ma è obbligato ad osservare scrupolosamente le norme poste a tutela dell’incolumità fisica di tutti i dipendenti dell’azienda, e a servirsi degli strumenti e delle misure preventive messe a disposizione dall’azienda.
D’ora in avanti tutta la legislazione sulla sicurezza nei luoghi di lavoro sarà caratterizzata da un principio dominante: il lavoratore è il primo garante della sicurezza in azienda. Il suo comportamento unito al suo impegno a rispettare le modalità di esercizio di lavoro, osservando le norme sulla prevenzione e sicurezza, contribuiscono ad assegnargli un ruolo attivo all’interno di quella parte dell’organizzazione aziendale che si adopera costantemente per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori all’interno dell’azienda.
Questi principi sono stati dettagliatamente esposti nel D.Lgs. 81/2008 tra gli obblighi fondamentali dei lavoratori, poiché ad essi spetta l’onere di occuparsi della propria salute e sicurezza e di quella degli altri soggetti che si trovano all’interno dell’azienda, stabilendo inoltre che la responsabilità di eventuali azioni od omissioni ricade sempre sui lavoratori.
Tra i doveri principali dei lavoratori, ricadono quelli di:
collaborare con il datore di lavoro, all’osservanza degli obblighi posti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro;
rispettare le norme e le istruzioni che provengono dal datore di lavoro in materia di protezione;
utilizzare in modo adeguato le attrezzature e i macchinari da lavoro, le sostanze tossiche, i mezzi di trasporto e i dispositivi di sicurezza;
adoperare correttamente i dispositivi di protezione ;
segnalare immediatamente al datore di lavoro qualsiasi eventuale condizione di pericolo, adoperandosi per eliminare o ridurre le situazioni di pericolo grave e incombente;
non rimuovere o modificare i dispositivi di sicurezza;
non agire autonomamente in operazioni o manovre che possono comportare dei rischi per gli altri lavoratori;
prendere parte ai programmi formativi e di addestramento predisposti dal datore di lavoro;
sottoporsi periodicamente ai controlli sanitari presso il medico competente.
Rispetto alla legge 626/1994 dunque, l’attuale Testo Unico ha introdotto delle novità particolarmente importanti per la figura del lavoratore. Oggi infatti viene risaltato il suo ruolo attivo, la sua partecipazione come persona direttamente impegnata nella gestione della sicurezza nei luoghi di lavoro, e non più come accadeva in passato soltanto un esecutore di ordini e mansioni.
Pertanto il lavoratore, cooperando con il datore di lavoro, è chiamato a garantire un costante livello di sicurezza all’interno dell’azienda in cui lavora, adoperandosi direttamente ed immediatamente per eliminare o per ridurre tutte le emergenze o i pericoli che si verificano e che possono arrecare dei danni non solo ai dipendenti, ma a tutti i presenti all’interno dell’azienda.
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lunedì 20 aprile 2015
Licenziamento può essere verbale o orale?
Si chiede quali sono le conseguenze della comunicazione del licenziamento orale(verbale)del dipendente e se è necessario impugnarlo per renderlo inefficace.
Si ha il licenziamento orale o verbale quando manca la forma scritta; sul punto va ricordato che il licenziamento deve essere intimato nella forma scritta. Tale requisito di forma é essenziale e la sua mancanza rende il licenziamento "inefficace", secondo l'espressione adoperata dal legislatore nell’art. 2, comma 3, della L. 604/1966, in quanto non produce alcun effetto, atteso che il rapporto di lavoro rimane in essere fino a quando non intervenga un valido atto interruttivo dello stesso.
Il licenziamento orale non deve essere impugnato entro 60 giorni.
In base all’interpello n. 12 del 25 marzo 2014, si può affermare che, in caso di licenziamento verbale o di fatto, il licenziamento è inefficace ed in questo caso non si ritiene applicabile l’impugnazione del licenziamento nel termine di decadenza di 60 giorni, in quanto licenziamento, come se non ci fosse ed il lavoratore può agire per far dichiarare tale inefficacia, contestualmente all’azione per la costituzione o l’accertamento del rapporto di lavoro con il fruitore materiale delle prestazioni, senza l’onere della previa impugnativa stragiudiziale del licenziamento stesso, entro il termine prescrizionale di 5 anni.
Quindi il licenziamento verbale o orale non è idoneo a produrre effetti sulla continuità del rapporto di lavoro per cui ne consegue l'obbligo del datore di lavoro di riposizionare immediatamente il lavoratore nella propria posizione lavorativa. Per quanto concerne le altre conseguenze della declaratoria di inefficacia del licenziamento orale, ove non applicabile l'art. 18 della Statuto dei lavoratori, secondo la indicata decisione, non può accogliersi la domanda di risarcimento con condanna del datore di lavoro al pagamento delle retribuzioni globali di fatto maturate dalla data del licenziamento a quella della reintegrazione.
Il licenziamento verbale si verifica quando il lavoratore viene allontanato dal luogo di lavoro senza alcun atto formale da parte del datore di lavoro (lettera o altro).
La legge impone al datore di lavoro di comunicare il licenziamento per iscritto e afferma che il licenziamento verbale è inefficace: ciò significa che il licenziamento comunicato solo oralmente non produce alcun effetto e, in particolare, non interrompe il rapporto di lavoro tra le parti, sicché il datore di lavoro è tenuto a continuare a pagare la retribuzione al lavoratore sino a quando non sopravvenga un'efficace causa di risoluzione o estinzione del rapporto di lavoro o l'effettiva riassunzione.
In questi casi è necessario che il lavoratore faccia pervenire immediatamente una raccomandata A/R (di cui si deve tenere copia) nella quale lo stesso si mette a disposizione per la ripresa immediata dell'attività dando conto del fatto di essere stato allontanato dal datore di lavoro.
Le conseguenze derivanti dal licenziamento intimato in forma orale sono ora espressamente disciplinate dall'art. 18 Statuto lavoratori, come modificato dalla legge 92/2012 di riforma del mercato del lavoro.
Conseguentemente, il lavoratore ha diritto a:
• essere reintegrato nel posto di lavoro;
• ottenere il risarcimento del danno per il periodo successivo al licenziamento e fino all'effettiva reintegra, dedotto quanto percepito da altra occupazione (il risarcimento non può comunque essere inferiore nel minimo di cinque mensilità di retribuzione);
• ottenere il versamento dei contributi assistenziali e previdenziali per tutto il periodo dal giorno del licenziamento a quello della reintegra;
• scegliere fra la reintegra e l'indennità sostitutiva pari a quindici mensilità della retribuzione globale di fatto (cd. diritto di opzione)
Il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno, determinabile secondo le regole in materia di inadempimento delle obbligazioni, anche facendo eventualmente riferimento alle retribuzioni perdute, ma sempre tenendo presente che la natura sinallagmatica del rapporto richiede, ai fini dell'adempimento dell'obbligazione retributiva, l'offerta della prestazione lavorativa.
Ne consegue che non sia applicabile la disposizione dell'articolo 8 che prevede il risarcimento del danno a seguito di illegittimo licenziamento per difetto della giusta causa o del giustificato motivo, mentre nella fattispecie è applicabile il risarcimento del danno liquidato in relazione all'inadempimento dell'obbligazione per un rapporto di lavoro che non si è mai interrotto.
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venerdì 3 aprile 2015
Aumenti retributivi per i bancari dal 2015
I bancari italiani, dopo un anno e mezzo di trattative con l’Abi (Associazione bancaria italiana) hanno raggiunto l’intesa per il rinnovo del contratto nazionale. I 309 mila lavoratori bancari avranno diritto a un aumento retributivo di 85 euro da riparametrare e saranno erogati a tranche con scadenza al primo ottobre 2016, 1° ottobre 2017 e 1° ottobre 2018.
I sindacati dei bancari di otto diverse sigle di categoria e l'Abi hanno raggiunto un'ipotesi di accordo per il rinnovo del contratto, che prevede un aumento medio a regime di 85 euro al mese per 13 mensilità e migliora il salario di ingresso per i nuovi assunti.
"Dopo un anno e mezzo di durissime trattative, i bancari hanno finalmente un loro contratto nazionale", ha detto Lando Maria Sileoni, segretario generale Fabi, tra i firmatari stamani alle 5 dell'ipotesi di contratto per i 309.000 addetti del credito.
Il presidente dell'Abi Antonio Patuelli descrive l'accordo come il "massimo dei risultati possibili" e di un contratto "di equilibrio innovativo". L'associazione ha anche ricordato il contesto macroeconomico "che sta pesando e peserà nel lungo periodo sui livelli di redditività, sulla qualità degli attivi e sui margini di ricavo" degli istituti.
Giulio Romani, segretario della Fiba Cisl, parla di un contratto "non privo di sacrifici, ma che protegge la retribuzione dei lavoratori e lascia inalterate tutte le tutele garantite dal precedente contratto".
L'accordo ribadisce la centralità della contrattazione nazionale, difende le normative sull’area contrattuale, non interviene sugli scatti d`anzianità. Sono stati inseriti strumenti per sostenere la nuova occupazione, la ricollocazione dei lavoratori in esubero e gestire le prossime riorganizzazioni di settore in una prospettiva di solidarietà intergenerazionale.
L'ipotesi di accordo prevede per i neo-assunti un incremento dell'8% del salario di inserimento e la conferma della contribuzione aziendale sulla previdenza integrativa al 4%. Diminuisce, così, il differenziale tra salario d'ingresso e tabelle retributive nazionali.
Viene confermata la validità del Fondo per la nuova occupazione, già istituito nella precedente tornata contrattuale, e la sua validità sarà prorogata fino al 31 dicembre 2018, con le attuali modalità di finanziamento, che coinvolgono anche i top manager, chiamati a contribuire versando una quota del proprio stipendio. Il Fondo servirà a finanziarie nuove assunzioni stabili di giovani. Entro tre mesi le parti costituiranno un gruppo paritetico per la gestione del Fondo stesso.
L'incremento concordato per i bancari è analogo a quello siglato per il contratto del commercio e si applicherà a un contratto che durerà fino a fine 2018. L'aumento sarà in tre tranche: 25 euro dal 1° ottobre 2016, 30 euro dal 1° ottobre 2017 e 30 euro dal 1° ottobre 2018.
Il sistema bancario ha di fronte una nuova stagione di fusioni sia per la spinta della vigilanza unica europea, sia per la riforma del settore delle Popolari, più contendibili con la trasformazione in società per azioni. I sindacati temono nuovi esuberi, che alcune stime hanno quantificato in 20.000 uscite.
Questa ipotesi di accordo è "non modificabile", sottolinea l'Abi, che lo sottoporrà al suo comitato esecutivo e dovrà essere discussa dalle assemblee dei lavoratori entro il 15 giugno per entrare in vigore.
L'intesa prevede che i nuovi assunti abbiano un salario di ingresso incrementato dell'8%. Il fondo per la nuova occupazione è stato prorogato fino al 31 dicembre 2018 con una contribuzione del 4% delle retribuzioni del top management.
Il contratto garantirà il mantenimento delle condizioni attuali per i lavoratori che dovessero essere oggetto di riorganizzazioni o cessioni di rami di azienda: non verrà quindi applicato loro il nuovo regime a tutele crescenti.
Per chi perde il posto di lavoro: si prevede il mantenimento delle condizioni contrattuali attuali per i lavoratori che confluiscono in nuove società a seguito di processi di riorganizzazione o ristrutturazione aziendale, oppure in casi di cessioni individuali e collettive dei contratti di lavoro, senza che venga, quindi, applicato loro il nuovo contratto a tutele crescenti.
Viene inoltre istituita per la prima volta una piattaforma dei bancari che hanno perso il posto di lavoro, in modo da far incontrare domanda e offerta di occupazione nelle imprese di settore. Inoltre, in caso di nuove assunzioni, le banche valuteranno prioritariamente le posizioni dei dipendenti confluiti nel Fondo emergenziale.
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domenica 25 gennaio 2015
Jobs Act: le novità per il licenziamento e la conciliazione
Il Jobs Act introduce per il licenziamento l’offerta di conciliazione. Lo schema di decreto legislativo sul contratto a tutele crescenti, infatti, prevede uno strumento innovativo di risoluzione stragiudiziale delle controversie sul licenziamento. Il datore di lavoro può offrire, con assegno circolare, al lavoratore un importo esente da tasse e contributi di ammontare pari a una mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a diciotto mensilità.
La richiesta dell'indennità sostitutiva deve essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia o dall'invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione.
Trattandosi di termine avente natura perentoria, il mancato rispetto dello stesso ne determina la decadenza.
La mancata previsione di analogo diritto in capo al datore di lavoro ha indotto a parlare di “Opting out unilaterale” ovvero il diritto riconosciuto al solo lavoratore di chiedere al datore di lavoro un indennità al posto della reintegrazione nel posto di lavoro, diritto già riconosciuto al lavoratore dalla normativa vigente.
Tuttavia è opportuno porre l'attenzione a quanto disposto dall'art. 6 del decreto legislativo il quale introduce uno strumento innovativo di risoluzione stragiudiziale delle controversie sul licenziamento, l’offerta di conciliazione.
Il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti previsto dal Jobs Act e oggetto del primo decreto legislativo attuativo della delega, cambia profondamente l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, e quindi il diritto al reintegro in caso di licenziamento illegittimo, per i nuovi assunti e introduce una nuova possibilità di conciliazione. Esaminiamo con precisione le nuove disposizioni in materia di licenziamenti, anche evidenziando i principali punti critici.
Il diritto al reintegro nel posto di lavoro resta nei seguenti casi:
licenziamento discriminatorio o riconducibile ad altri casi di nullità;
licenziamento intimato in forma orale;
licenziamento per motivi disciplinari (giustificato motivo soggettivo o giusta causa) per il quale sia dimostrata in giudizio «l’insussistenza del fatto materiale».
Per il licenziamento illegittimo per giustificato motivo oggettivo, e in tutti gli altri casi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, decade il diritto al reintegro previsto dall’articolo 18, sostituito dall’indennizzo economico.
Le novità, rispetto alla Riforma Fornero (legge 92/2012), che già aveva riformato l’articolo 18, sono due: il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (motivi economici) non prevede più in nessun caso il reintegro. Il diritto a tornare nel posto di lavoro viene fortemente limitato anche nel caso dei licenziamenti disciplinari. Qui, è già iniziato il dibattito giurisprudenziale sul preciso significato da dare all’espressione utilizzata (insussistenza del fatto materiale). In linea generale, significa che se la motivazione addotta dall’azienda (che come è noto deve essere esplicitata in forma scritta) si rivela inesistente (esempio: si contesta un fatto che in realtà non si è verificato), il lavoratore ha diritto al reintegro. Questo, indipendentemente da qualsiasi valutazione del giudice sulla sproporzione del licenziamento.
Il problema è che la formulazione della norma potrebbe rendere licenziabile il lavoratore per un fatto che sussiste, ma per il quale il contratto non prevede il licenziamento. In parole semplici, cosa succede se un dipendente commette effettivamente un fatto materiale, che però non è illecito, o è sproporzionato rispetto al provvedimento di licenziamento? Perde il diritto al reintegro? Oppure, deve valere un’interpretazione più estensiva per cui l’azienda non può comunque effettuare un licenziamento per motivazioni che non sono esplicitamente previste dalle leggi e dai contratti di riferimento? Il dibattito è aperto. Ricordiamo che tutto questo vale solo per gli assunti con il nuovo contratto a tutele crescenti, gli altri contratti a tempo indeterminato continuano ad applicare l’articolo 18.
Licenziamento discriminatorio o nullo
Per quanto riguarda le altre fattispecie sopra citate, il licenziamento discriminatorio è definito dall’articolo 3 della legge 108/1990, e riguarda ad esempio i casi in cui avvenga per motivi legati a credo politico o fede religiosa, appartenenza ad un sindacato o partecipazione attività sindacali, partecipazione a uno sciopero, discriminazioni di natura razziale, di lingua o di sesso. Gli altri casi di nullità del licenziamento sono previsti dal comma 1 dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori: matrimonio, gravidanza, diritti legati a maternità e paternità (congedi parentali), violazione dell’articolo 1345 del codice civile (in base al quale sono nulli i contratti in cui le parti agiscono esclusivamente per un motivo illecito): quest’ultima è una fattispecie complessa, su cui comunque esiste ampia giurisprudenza.
Nuova procedura di conciliazione
Un’altra novità introdotta dalla riforma è rappresentata dalla nuova procedura di conciliazione, prevista dall’articolo 6 del decreto. Il datore di lavoro può offrire al dipendente un’indennità risarcitoria pari a una mensilità per ogni anni di servizio, in misura comunque non inferiore a due mensilità e non superiore a 18. Questa nuova forma di conciliazione è fiscalmente incentivata in due modi: l’indennità non rileva ai fini dell’imponibile IRPEF del lavoratore (quindi, è detassata), e non è assoggettata a contribuzione previdenziale. Non solo: il datore di lavoro è tenuto a pagarla mediante assegno circolare (che garantisce la totale sicurezza del pagamento). Se il lavoratore accetta, rinuncia a impugnare il licenziamento (anche se aveva già iniziato una procedura in tal senso).
La modalità di conciliazione introdotta non può passare inosservata.
Infatti, come evidenziato dalla stessa relazione illustrativa, suddetta conciliazione è incentivata attraverso la totale esenzione fiscale, oltre che contributiva, della indennità prevista, resa possibile dalla predeterminazione per legge del criterio di calcolo dell'importo vincolato al pagamento oggettivo dell'anzianità di servizio e, quindi, sottratto alla disponibilità delle parti.
Non solo, il pagamento immediato mediante assegno circolare, previene ulteriori possibili contenziosi ed assicura la lavoratore l'immediata disponibilità della somma.
Infatti con questa modalità di conciliazione le parti rispettivamente, possono oltre a beneficiare della totale esenzione fiscale e contributiva, evitare di intraprendere un percorso giudiziale il cui esito oltre a non essere certo è anche estenuante per i tempi richiesti.
mercoledì 19 novembre 2014
Licenziamento la regola dell’indennizzo
Licenziamento la regola dell’indennizzo
Il diritto al reintegro nel posto di lavoro sarà limitato ai licenziamenti nulli e discriminatori e «a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato». Lo prevede l'emendamento che il Governo presenta oggi in commissione Lavoro alla Camera.
L’attuale emendamento esclude in modo esplicito per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenzi lenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinari ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento.
Reintegro per licenziamenti discriminatori e per precisi casi di licenziamento disciplinare ingiustificato. Ci sarà, quindi, soltanto un indennizzo economico per i lavoratori licenziati ingiustamente per motivi economici. Viene cioè esclusa "per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio". L'emendamento al comma 7 del ddl delega sul lavoro, quello che modifica appunto il 'famigerato' articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, prevede infatti il reintegro solo "per specifici casi di licenziamento disciplinare ingiustificato". L'emendamento inoltre limita il diritto alla reintegrazione "ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato".
I licenziamenti economici, per quanto concerne il reintegro, restano quindi fuori: in quei casi si prevede esclusivamente un indennizzo crescente con l'anzianità di servizio. Il reintegro invece è previsto per i licenziamenti discriminatori e per i casi di licenziamenti disciplinari ingiustificati e assimilabili a quelli discriminatori. "Il governo - ha detto Maurizio Sacconi di Ncd - ha indicato correttamente la formulazione concordata che esplicitamente individua nell'indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio la sanzione ordinaria del licenziamento illegittimo tanto economico quanto disciplinare, con la sola eccezione per quest'ultimo di specifiche fattispecie.
Per i licenziamenti economici viene esclusa invece la possibilità del reintegro nel posto di lavoro prevedendo «un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio». Lo prevede ancora l'emendamento del governo. Per l'impugnazione del licenziamento verranno inoltre previsti «tempi certi».
L'emendamento del governo sul Jobs Act «non cambia la sostanza della legge delega. Renzi non concede nulla», afferma il capogruppo di Sel alla Camera Arturo Scotto, che ribadisce come sul provvedimento per la riforma del lavoro «Renzi ci mette la faccia, ma le politiche sono quelle di Sacconi». L'emendamento dell'esecutivo «non cambia nulla nemmeno sui licenziamenti discriminatori, perché per quelli c'è già la Costituzione», conclude Scotto.
L'emendamento recepisce l'intesa raggiunta sul reintegro dei lavoratori per alcune fattispecie di licenziamenti disciplinari, oltre che per quelli discriminatori. Ieri il sottosegretario al Lavoro Teresa Bellanova, che ha parlato di «riformulazione senza novità» del comma 7 della legge.
Per i licenziamenti economici viene esclusa invece la possibilità del reintegro nel posto di lavoro prevedendo «un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio».
Sebbene a livello internazionale esista una varietà di modelli di licenziamento, la disciplina del recesso dal rapporto di lavoro da parte datoriale presenta, nei diversi ordinamenti giuridici, una caratteristica comune: la motivazione quale principale elemento discriminante tra un licenziamento legittimo e un licenziamento illegittimo. È così in tutti i Paesi europei, dalla Germania al Regno Unito, ma anche in Giappone e Cina. La sola eccezione è rappresentata dagli Stati Uniti, dove il licenziamento del lavoratore nell’ambito di un contratto a tempo indeterminato, può avvenire “at will”, ovvero a totale discrezione del datore di lavoro e a prescindere da una ragione giustificativa, ad esclusione del licenziamento discriminatorio.
La motivazione ha generalmente una dimensione soggettiva, riferibile al lavoratore e individuabile in comportamenti tali da rendere plausibile la cessazione del rapporto di lavoro, e una dimensione oggettiva, legata a motivi di ordine economico ed organizzativo. Ciononostante, il confine tra queste due categorie in alcuni Paesi, come ad esempio nel Regno Unito, non rileva, o comunque non è sempre netto. In Spagna, ad esempio, assieme ai motivi economici, produttivi e tecnologici, tra le cause oggettive che giustificano il licenziamento, figurano l’incapacità del lavoratore riscontrata al termine del periodo di prova, così come l’eccessivo tasso di assenteismo.
L’oggetto delle motivazioni varia nei diversi ordinamenti, come pure è variabile il grado di dettaglio con cui la legge interviene tipizzando le diverse macro categorie concettuali utili a descrivere il motivo giustificatorio del recesso legittimo. Un ruolo fondamentale nella specificazione delle motivazioni è ricoperto certo dalla contrattazione collettiva e dalla giurisprudenza. Gli Stati Uniti sono un caso emblematico che dimostra come, sebbene sulla carta la disciplina dei licenziamenti sia totalmente liberalizzata, nel tempo la giurisprudenza sul licenziamento ingiusto abbia nei fatti allineato gli indicatori di legittimità del licenziamento, agli standard dei Paesi più garantisti.
Accanto alla motivazione, il rispetto delle procedure previste dalla legge per licenziare un lavoratore determina la legittimità o meno del recesso. La principale regola di carattere procedurale riguarda il preavviso con cui il datore di lavoro comunica al lavoratore l’intenzione di terminare il rapporto di lavoro. In generale, possono essere distinti due gruppi di Paesi sulla base di un macro indicatore che è quello dell’obbligo alla reintegra (la “restituzione” del posto di lavoro), senza opzioni alternative, nella ipotesi di licenziamento discriminatorio, in quanto considerato nullo. Tra i Paesi analizzati, Spagna, Stati Uniti e Regno Unito sono i sistemi che anche in caso di licenziamento discriminatorio, consentono al datore di lavoro di optare per l’indennizzo in luogo della reintegra.
Per quanto riguarda i criteri per la definizione dell’ammontare dell’indennizzo, possono essere distinti due ulteriori gruppi di Paesi: quelli che prevedono un sistema di indicizzazione dell’indennizzo all’anzianità di servizio (scala fissa, che cresce con l’aumentare degli anni che il lavoratore ha prestato servizio), e quelli dove l’ammontare è stabilito dal Giudice.
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mercoledì 11 dicembre 2013
Lavoratore dipendente in ferie: nessun obbligo di reperibilità
Il lavoratore dipendente è libero di scegliere le modalità e le località per usufruire di un periodo di ferie che ritenga più utili”. E la sua reperibilità “può essere oggetto di specifico obbligo disciplinato dal contratto individuale o collettivo del lavoratore in servizio, ma non già del lavoratore in ferie.
La Corte di Cassazione ha stabilito che il datore di lavoro può sospendere le ferie solo prima della partenza per le vacanze. In sostanza la Suprema Corte protegge il posto di lavoro per i dipendenti che sono in ferie e per le neo spose durante il primo anno di nozze.
Con due sentenze depositatela numero 27057 e 27055, i giudici, annullano similmente licenziamenti bollandoli come illegittimi. Nel primo caso la massima sanzione era stata disposta nei confronti di un tecnico del Comune colpevole di essersi reso introvabile durante le ferie, ignorando l'ordine di rientrare in servizio. Secondo il datore l'obbligo di rispondere derivava da una precisa norma del contratto collettivo che imponeva la reperibilità e poco importava che le comunicazioni non fossero mai state ritirate.
Dal canto suo l'ente locale rivendicava il diritto di revocare le ferie già concesse e affermava il dovere del dipendente di interrompere gli "ozi" e presentarsi in ufficio.
La Cassazione invita a leggere correttamente le norme ossia CCNL. Non c'è dubbio che il datore debba essere informato del luogo in cui inviare le comunicazioni al suo dipendente, ma il diritto non si estende ai periodi di ferie, che sono un bene costituzionalmente tutelato. Esiste poi anche un'esigenza di privacy, coniugata con l'assoluta libertà per il lavoratore di andare dove vuole a recuperare le sue energie psicofisiche. Impresa difficile se si è obbligati a sopportare lo stress di dare le coordinate dei propri spostamenti.
Il datore, per esigenze organizzative, può modificare i periodi di ferie ma deve farlo, con un congruo preavviso, prima che queste abbiano inizio. La norma invocata specifica il diritto al rimborso delle spese documentate del viaggio interrotto per motivi di servizio, ma non fa alcun riferimento alle modalità con cui l'interruzione può essere adottata. Al contrario la giurisprudenza ha affermato il dovere di una comunicazione tempestiva ed efficace prima che il lavoratore abbia fatto le valige, momento dal quale cessa ogni obbligo di reperibilità.
Un'altra lancia contro i licenziamenti, in questo caso discriminatori, la Cassazione la spezza in favore delle neo spose (sentenza 27055). Il divieto di licenziare la lavoratrice che ha detto sì vale per l'intero anno delle nozze. Né il licenziamento può essere giustificato da ragioni di ristrutturazione e di ridimensionamento dell'organico, essendo la deroga al divieto ammessa solo in caso di cessazione dell'attività dell'azienda. La garanzia, assicurata dalla legge 7 del 1973 ha la stessa finalità della legge 1204/1971 che impedisce il licenziamento della lavoratrice madre. «Si tratta di provvedimenti legislativi che nel loro insieme - si legge nella sentenza - tendono a rafforzare la tutela della lavoratrice in momenti di passaggio "esistenziale" particolarmente importanti».
Per questo alla lavoratrice è risparmiato anche l'onere di provare il carattere discriminatorio del licenziamento, mentre spetta al datore dimostrare il contrario.
In base queste delucidazioni Un’eventuale opposta interpretazione delle norme sarebbe, infatti, “una compressione del diritto alla ferie - conclude la Suprema Corte - costringendo il lavoratore in viaggio non solo a far conoscere al datore di lavoro i luoghi e i tempi dei suoi spostamenti, ma anche ad un’inammissibile e gravosa attività di comunicazione formale, magari giornaliera, dei suoi spostamenti”.
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venerdì 23 agosto 2013
Rimborsi fiscali da 730 2013 per chi ha perso lavoro
Magra consolazione, però sarà una “retribuzione” un rimborso veloce per chi non ha più un datore di lavoro e vanta un credito fiscale. Infatti possono presentare il modello 730 ottenendo in tempi rapidi il rimborso delle imposte versate in più. Ossia rimborsi rapidi per chi ha percepito redditi da lavoro dipendente nel 2012, ma ha successivamente perso il posto. Li ha previsti l'Agenzia delle Entrate.
Dal 2 al 30 settembre, ha spiegato l'Agenzia delle Entrate, chi ha percepito redditi da lavoro dipendente nel 2012 ma ha perso il posto di lavoro può presentare il modello 730 a un Caf o a un intermediario abilitato, per ottenere in tempi brevi il rimborso delle imposte a credito direttamente dall'Agenzia. Questo è stato previsto da un provvedimento del direttore dell'Agenzia delle Entrate, Befera, che ha reso operativa una norma del decreto del fare. Fino ad oggi era necessario fare il modello unico, con attese di anni.
Il rimborso delle imposte verrà direttamente eseguito dall'Agenzia delle Entrate. Per velocizzare ancor più i tempi è possibile comunicare il proprio Iban alle Entrate seguendo le istruzioni pubblicate sul sito internet dell'Amministrazione. La novità, contenuta nel Decreto del Fare (art. 51 bis, comma 4, Dl 69/2013), è resa operativa, a due giorni dalla pubblicazione della legge di conversione in Gazzetta Ufficiale, dal provvedimento del direttore dell'Agenzia firmato oggi. Tutti i passi da seguire sono illustrati nella circolare n. 28/E.
Per ottenere il rimborso in tempi rapidi, è semplice e rapido l'accredito del rimborso fiscale sul proprio conto corrente bancario o postale. E' necessario comunicare l'Iban all'Agenzia delle Entrate compilando il modello disponibile sul sito internet www.agenziaentrate.it, nella sezione Cosa devi fare -Richiedere - Rimborsi - Accredito rimborsi su conto corrente. Il modello deve essere inviato utilizzando i servizi online dell'Agenzia oppure consegnato in un qualsiasi ufficio delle Entrate. Il provvedimento e la circolare sono disponibili sul sito internet www.agenziaentrate.it - all'interno della sezione "Normativa e prassi".
Soggetti interessati
Possono presentare la dichiarazione 730-Situazioni particolari per i redditi 2012 i contribuenti titolari di redditi di lavoro dipendente e assimilati che non hanno potuto presentare il modello 730 ordinario in mancanza di un sostituto d’imposta (ossia che hanno cessato il rapporto di lavoro senza trovare un nuovo impiego) che potesse effettuare il conguaglio. È questo il caso, ad esempio, dei contribuenti che, nell’attuale contesto di congiuntura economica, hanno cessato il rapporto di lavoro senza trovare un nuovo impiego. Per il 2013 questa possibilità è riconosciuta ai soli contribuenti che vantano un risultato finale della dichiarazione a credito mentre dall'anno prossimo sarà allargata anche a chi deve versare le imposte.
Per i soli soggetti per i quali emerge, per l’anno 2012, un complessivo credito d’imposta, è prevista la possibilità di presentare nel 2013 il modello 730-Situazioni particolari, in modo da ottenere in tempi rapidi il rimborso delle imposte.
Pertanto, la suddetta dichiarazione può essere presentata nel 2013 solo se dalla stessa risulti un esito contabile finale a credito.
http://www.agenziaentrate.gov.it/wps/portal/entrate/cosa_devi_fare
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settembre 2013
sabato 1 dicembre 2012
Offerte di lavoro Natale 2012
Durante le festività, nonostante un periodo di crisi economica, il volume di lavoro aumenta notevolmente per i negozi al dettaglio, ipermercati e aziende del settore riferisce alle aziende alberghiere, di ristorazione e catering, e cresce la domanda per i lavoratori stagionali.
Vediamo le opportunità di lavoro disponibili per il Natale 2012.
La Divisione Largo Consumo di Articolo1 segnala tante offerte di lavoro per il Natale 2012 nella Grande Distribuzione Organizzata GDO. Le opportunità sono soprattutto in supermercati, ipermercati e grandi magazzini di tutta Italia.
Generalmente vengono proposti contratti di tre mesi per.
addetti cassa; addetti alla vendita; addetti banco macelleria; addetti banco pescheria; addetti banco gastronomia; addetti banco ortofrutta; addetti banco panetteria; addetti scaffali e magazzinieri; addetti all’inventario.
Per queste figure professionali sono richieste buona educazione e disponibilità al rapporto con il pubblico e a lavorare su turni flessibili per tutta la settimana, una precedente esperienza nella GDo costituisce un requisito preferenziale.
Se si è interessati a queste offerte di lavoro nella Grande Distribuzione Organizzata GDO nel periodo natalizio si può inviare il curriculum a gdo@articolo1.it, specificando per quale città e per quale mansione ci si vuole candidare.
La ricerca del posto di lavoro durante il periodo di Natale può offrire tante opportunità di lavoro nei negozi e ristorazione, hotel e attività ricettive, centri commerciali, animazione e per commesse nel ruolo di impacchettatrici.
Lush, il noto brand britannico di cosmetica naturale che dal 1995 è attivo dapprima sul mercato inglese e successivamente negli 850 punti vendita sparsi nel mondo, dei quali 38 solo in Italia ha aperto una per il periodo di fine anno 2012 una campagna di recruiting “We want you” che prevede l’arruolamento non solo di profili commerciali per il team internazionale ma anche di circa 80 persone nelle botteghe italiane. Sul sito aziendale sono definiti come “complici di Babbo Natale”, si cercano dei giovani elfi o elfe che abbiano meno di 24 anni e siano disposti a profumare le botteghe della catena internazionale. In effetti si tratta di figure vicine all’addetto alla vendita che saranno impegnate esclusivamente per il periodo natalizio. Per le figure commerciali per il mercato internazionale, sono attive le selezioni per un Mail Order Sales & Development Manager e per un Packaging Buyer. Il primo si occuperà della parte più strettamente commerciale e della gestione dei clienti, mentre il secondo entrerà a far parte dell’ufficio creativo. Ma Lush cerca anche addetti alle vendite e Store Manager per l’apertura dei nuovi store di Treviso e Bolzano (in quest’ultimo caso è gradita la conoscenza del tedesco) nonché personale full time per le vendite e la gestione degli store di Bressanone, Catania, Livorno e Firenze.
L’Agenzia per il lavoro Gi Group ha dato il via alla terza edizione del Progetto Retail in vista del periodo natalizio che porterà alla creazione di circa 1800 posti di lavoro nei settori della GDO – Grande Distribuzione Organizzata, abbigliamento, calzaturiero, accessori, intimo, food e non food.
Le figure professionali ricercate sono:
Responsabili di negozio con diploma/laurea, almeno 2 anni di esperienza in analoga mansione in contesti retail e/o GDO;
Capi Reparto con diploma/laurea, esperienza in analoga mansione in contesti retail e GDO;
Allievi alla carriera direttiva di reparto con diploma/laurea, minima esperienza in contesti retail o GDO o forte motivazione al ruolo;
Addetti vendita che siano diplomati e con minima esperienza nella mansione, gradita conoscenza dell’inglese, disponibilità part time o full time;
Addetti cassa, con diploma, esperienza nella mansione, disponibilità part time o full time;
addetti all’inventario, con diploma, gradita esperienza in analoga mansione, disponibilità su turni diurni e notturni part time e full time;
Addetti al magazzino, con esperienza in analoga mansione, disponibilità su turni full time;200 gastronomi, macellai, panificatori, con esperienza in analoga mansione, disponibilità full time.
Ci si può candidare alle offerte di lavoro attive nel settore della GDO e nei settori non food inviando il proprio curriculum vitae a: progettoretail@gigroup.com.
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giovedì 1 novembre 2012
Confidustria: la crisi del lavoro
Secondo Confindustria "la principale fonte di instabilità rimane l'Eurozona, dove gli indicatori qualitativi mostrano un peggioramento della recessione nel trimestre in corso; i passi avanti istituzionali compiuti hanno nettamente ridotto il rischio di dissolvimento della moneta unica, ma non bastano a rompere il circolo vizioso “recessione-restrizione di bilancio-banche selettive"
"Le turbolenze non sono finite" e "il quadro resta, da tempo ormai, condizionato dalle incognite sulla composizione del Parlamento che uscirà tra pochi mesi dalle elezioni". E' quanto ha affermato il Centro studi di Confindustria nell'analisi mensile.
"Le statistiche in agosto hanno sorpreso all'insù, ma il clima di fiducia rimane ai minimi e il 'meno peggio' estivo – ha spiegato il Centro studi nella congiuntura flash - può tradursi in una flessione più' marcata in autunno, complice il deterioramento nel resto della Ue. Tuttavia, la caduta della domanda interna è stata così violenta da creare spazi per un rimbalzo e l'indice anticipatore Ocse predice la graduale attenuazione della riduzione del Pil nei prossimi trimestri".
Secondo i dati prodotti dalla Cgia Mestre: nel 2012 chiudono 1000 imprese al giorno. Anche se quelle nate sono più numerose di quelle cessate, nei primi 9 mesi di quest'anno sono poco più di 279.000 le imprese che hanno chiuso i battenti: praticamente 1.033 al giorno. E' quanto segnala l'Ufficio studi della Cgia di Mestre secondo il quale "a impensierire" è il fatto che, nonostante il saldo sia positivo e pari a quasi a 20.000 imprese, "ad aprire siano aziende con dimensioni occupazionali molto contenute, mentre quelle che chiudono sono quasi sempre delle attività strutturate con diversi lavoratori alle loro dipendenze. Prova ne sia che il tasso di disoccupazione sta crescendo in maniera preoccupante".
"Nonostante il saldo della nati-mortalità delle aziende sia positivo – ha commentato Giuseppe Bortolussi segretario della Cgia di Mestre - dobbiamo ricordare che molte persone hanno aperto un'attività in questi ultimi anni di crisi, non perché' in possesso di una spiccata vocazione imprenditoriale, bensì dalla necessità di costruirsi un futuro occupazionale dopo esser stati allontanati dalle aziende in cui prestavano servizio come lavoratori dipendenti. Questa dinamicità del sistema è un segnale positivo, ma non sufficiente a tranquillizzarci. Se entro i primi 5 anni di vita il 50% delle aziende muore per mancanza di credito, per un fisco troppo esoso e per una burocrazia che spesso non lascia respiro, c'è il pericolo che la tenuta di buona parte di questi nuovi imprenditori, figli della difficoltà economica che stiamo vivendo, sia inferiore a quella di coloro che hanno avviato un'attività prima dell'avvento della crisi".
"In passato – ha proseguito Bortolussi - la decisione di aprire la partita iva maturava dopo molti anni di esperienza lavorativa come dipendente: non a caso oltre il 50% dei piccoli imprenditori proviene da una esperienza come lavoratore subordinato e spesso gli investimenti realizzati per aprire una impresa erano il frutto dei risparmi. Ora, difficilmente ciò avviene: si apre per necessità, perché magari il posto di lavoro non c'è più e quindi bisogna inventarsi una nuova opportunità lavorativa a scapito delle motivazioni, della preparazione professionale e della capacita' organizzativa".
E poi i dati riferiti all'artigianato sono ancor più preoccupanti: negli ultimi tre anni il saldo nazionale della mortalità delle aziende di questo settore ha sempre segno negativo: -15.914 nel 2009, -5.064 nel 2010 e -6.317 nel 2011. Nei primi tre mesi del 2012 (ultimo dato disponibile) il saldo ha toccato la punta massima di -15.226: i settori più in difficoltà sono quelli delle costruzioni, le attività manifatturiere e i servizi alla persona.
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