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domenica 8 novembre 2015

Diritti del lavoratore: demansionamento e dequalificazione professionale


La sentenza n. 20473 della Corte di Cassazione  sezione lavoro del 29 settembre 2014, ha stabilito che in caso di accertato demansionamento professionale, la liquidazione del danno alla professionalità del lavoratore non può prescindere dalla prova del danno e del relativo nesso causale con l'asserito demansionamento, in quanto va  evitato, trattandosi di danno non patrimoniale, ogni duplicazione con altre voci di danno non patrimoniale accomunate dalla medesima fonte causale.

Quando il dipendente viene declassato e adibito a mansioni inferiori rispetto a quelle di assunzione La recente approvazione della riforma del lavoro, detta Jobs act, ha introdotto fra le altre cose il concetto di demansionamento.

Vediamo di capire meglio se e quando è lecito, e quali siano i margini di manovra delle aziende e dei lavoratori.

Il dipendente non può essere infatti adibito a mansioni inferiori rispetto a quelle per le quali è stato assunto e inquadrato (è il cosiddetto demansionamento): il divieto è volto ad evitare la lesione della professionalità acquisita dal lavoratore.

Al momento dell’assunzione il datore di lavoro deve far conoscere al lavoratore la categoria e la qualifica che gli sono state assegnate in relazione alle mansioni per cui è assunto. In assenza di un’indicazione specifica occorre far riferimento, al fine di individuare la qualifica, alle mansioni effettivamente svolte in modo stabile all’interno dell’azienda. Alcuni autori tendono poi a precisare la differenza sottile tra demansionamento e dequalificazione: il demansionamento ricorre quando il lavoratore è lasciato in condizioni di forzata inattività e si differenzia dalla dequalificazione professionale, che sussiste nel caso in cui il lavoratore sia impiegato in mansioni inferiori a quelle per le quali è stato assunto. Entrambe le ipotesi concretizzano un inadempimento del datore di lavoro.

Il demansionamento, tuttavia, può essere disposto in presenza di alcune ipotesi eccezionali:
– modifica degli assetti organizzativi aziendali, tale da incidere sulla posizione del lavoratore stesso), e/o
– previste dai contratti collettivi.

In entrambe le ipotesi le mansioni attribuite possono appartenere al livello di inquadramento inferiore nella classificazione contrattuale a patto che rientrino nella medesima categoria legale.

Con le recenti modifiche approvate con il Job Act è invece possibile la modifica della categoria in caso di rilevante interesse del lavoratore (come nel caso di conservazione dell’occupazione, acquisizione di una diversa professionalità o miglioramento delle condizioni di vita).

Il datore di lavoro comunica al lavoratore l’assegnazione a mansioni inferiori in forma scritta a pena di nullità.
Per esempio: a un lavoratore con qualifica di vetrinista, classificata al livello terzo del CCNL Terziario Confcommercio, potranno essere assegnate le mansioni di commesso alla vendita al pubblico (qualifica appartenente al quarto livello) in conseguenza di una modifica degli assetti organizzativi che incida sulla posizione del lavoratore. In questo caso, infatti, il lavoratore rimane all’interno della categoria impiegatizia.

La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire numerosi aspetti del demansionamento, soprattutto in materia di onere della prova e del risarcimento del danno. In particolare, secondo i giudici, il demansionamento è escluso nei casi di:

– adibizione del lavoratore a mansioni inferiori marginali ed accessorie rispetto a quelle di competenza, purché non rientranti nella competenza specifica di altri lavoratori di professionalità meno elevata e a condizione che l’attività prevalente e assorbente del lavoratore rientri tra quelle previste dalla categoria di appartenenza;

– riclassamento del personale (riassetto delle qualifiche e dei rapporti di equivalenza tra mansioni) da parte del nuovo CCNL. In tale ipotesi le mansioni devono rimanere immutate e deve essere salvaguardata la professionalità già raggiunta dal lavoratore;

– sopravvenuta infermità permanente, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore.

La dequalificazione del lavoratore sarebbe quindi legittima qualora costituisca l’unica alternativa possibile al licenziamento; in questo senso, l’attribuzione a mansioni inferiori potrebbe considerarsi giustificata tanto se disposta autonomamente dal datore di lavoro, quanto se attuata a seguito di un accordo sindacale.

Inoltre, un eventuale demansionamento non va valutato in rapporto ad un incarico di natura temporanea, bensì alle mansioni originarie e tipiche della qualifica del lavoratore. Per cui, se il lavoratore viene adibito solo temporaneamente a un livello superiore, nel momento in cui ritorna alle sue normali mansioni ciò non significa che sia stato demansionato.

Il lavoratore ha diritto di conservare il livello di inquadramento e il trattamento retributivo riconosciuto prima dell’assegnazione alle mansioni corrispondenti al livello inferiore. Sono tuttavia esclusi gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di esecuzione della prestazione lavorativa precedentemente svolta dal lavoratore (ad esempio, indennità di cassa), che il datore di lavoro non è obbligato a mantenere.

Se il datore di lavoro adibisce il lavoratore a mansioni inferiori in ipotesi diverse da quelle sopra riportate, il demansionamento è da considerarsi illegittimo. Pertanto il lavoratore può agire in tribunale, con una causa di lavoro, e chiedere (anche in via d’urgenza) il riconoscimento della qualifica corretta, nonché, quando il demansionamento presenta una gravità tale da impedire la prosecuzione del rapporto di lavoro – anche provvisoria – recedere dal contratto per giusta causa.

Il ricorso al giudice del lavoro costituisce lo strumento per accertare la violazione del divieto di demansionamento. Accertata la violazione, il giudice può disporre a tutela del lavoratore:

– la condanna del datore di lavoro alla reintegra del lavoratore nella posizione precedente o in una equivalente;

– la condanna al risarcimento del danno patrimoniale, relativo alle retribuzioni eventualmente maturate medio tempore (es. nel caso di attribuzione di mansioni inferiori con conseguente trattamento economico deteriore);

– la condanna al risarcimento del danno non patrimoniale determinato dal demansionamento subito.

Tanto il danno patrimoniale quanto quello non patrimoniale deve essere sempre provato dal lavoratore che deve dimostrare una riduzione dello stipendio e/o le conseguenze sul suo equilibrio psicofisico. In difetto, il giudice, anche qualora rilevi l’avvenuto demansionamento e l’illegittimità della condotta del datore, non può liquidare alcun indennizzo al dipendente.

Ai fini del riconoscimento di un danno patrimoniale, è, infatti, necessario fornire prove o allegazioni del male subito.

In tal senso il danno da dequalificazione o da demansionamento può consistere:

– sia nel danno patrimoniale derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità, sia nel pregiudizio (sempre di natura economica) subìto per perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno

– sia nella lesione del diritto del lavoratore all’integrità fisica o, più in generale, alla salute ovvero all’immagine o alla vita di relazione.

Il rifiuto di svolgere le nuove mansioni è ritenuto legittimo solo se rappresenta una reazione del lavoratore proporzionata e conforme a buona fede.
Il rifiuto della prestazione lavorativa può considerarsi in buona fede solo se si traduce in un comportamento che, oltre a non contrastare con i principi generali della correttezza e lealtà, risulta oggettivamente ragionevole e logico, cioè deve trovare concreta giustificazione nel raffronto tra prestazioni ineseguite e prestazioni rifiutate. In tal caso, l’inadempimento del lavoratore risulta proporzionato al precedente inadempimento del datore di lavoro.

Comunque sul datore di lavoro grava l’obbligo di comunicare al lavoratore l’assegnazione a mansioni inferiori in forma scritta, pena la nullità. In materia di onere della prova e risarcimento del danno, poi, è intervenuta la giurisprudenza.

In particolare, il demansionamento viene escluso dai giudici nei casi di:

 adibizione del lavoratore a mansioni inferiori marginali ed accessorie rispetto a quelle di competenza, purché non comprese nella competenza specifica di altri lavoratori di professionalità meno elevata e a condizione che l’attività prevalente del lavoratore rientri tra quelle previste dalla categoria di appartenenza;

riclassamento del personale (riassetto delle qualifiche e dei rapporti di equivalenza tra mansioni) da parte del nuovo . In tale ipotesi le mansioni devono rimanere immutate;

 intervenuta infermità permanente, a patto che tale diversa attività sia utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo stabilito dall’imprenditore.


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