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domenica 27 aprile 2014

Recessione contratto di lavoro per giusta causa in caso di cessione dell’azienda preponente




La cessione dell’azienda preponente può costituire per l’agente giusta causa di recesso dal contratto di agenzia quando il cessionario non offra una sufficiente sicurezza di solidità finanziaria e quindi non garantisca all’agente l’adempimento delle obbligazioni derivanti dalla prosecuzione del rapporto. Lo ha deciso il Tribunale di Roma nella sentenza n.6322 del 5 aprile 2011.

È molto interessante comprendere cosa avvenga qualora nell’ambito di un trasferimento d’azienda tra due società preponenti si inserisca un recesso per giusta causa dell’agente ceduto: ciò infatti comporta una responsabilità solidale del cedente per debiti in corso di maturazione alla data della cessione.

A tal proposito, si rammenta, innanzitutto, che costituisce principio assolutamente costante in giurisprudenza che, in materia di rapporto di agenzia, gli effetti del «trasferimento dell’azienda preponente ... sono disciplinati dalla normativa generale dell’art. 2558 c.c. e non dall’art. 2112 c.c. relativo al lavoro subordinato» (Cass. 16 novembre 2004, n. 21678 in Agenti & Rappresentanti, 2005, n. 1, pagg. 24-25).

Si ricordi a tal proposito che l’art. 2558 c.c. stabilisce che «se non é pattuito diversamente, l’acquirente dell’azienda subentra nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale. Il terzo contraente può tuttavia recedere dal contratto entro tre mesi dalla notizia del trasferimento, se sussiste una giusta causa, salvo in questo caso la responsabilità dell’alienante». Tale norma considera effetto naturale della cessione d’azienda l’automatica successione in tutti i contratti, a prescindere dalla conoscenza che il cessionario ne abbia, salvo diversa pattuizione. La successione nei rapporti contrattuali riguarda quindi i contratti a prestazioni corrispettive in fase di esecuzione e deroga alla regola generale stabilita dall’art. 1406  c.c., secondo cui la cessione dei contratti necessita del consenso della controparte; infatti in caso di trasferimento d’azienda tale consenso non é necessario, salvo il diritto di recesso previsto dall’art. 2558, comma 2, c.c.

In tema di cessione d’azienda, tale disposizione riconosce il subingresso  del cessionario in tutti i contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda medesima che non abbiano carattere personale, salvo patto contrario. A tal proposito, risulta assolutamente prevalente in giurisprudenza l’indirizzo che identifica i contratti a carattere personale in quelli nei quali l’identità e le qualità personali dell’imprenditore alienante siano state in concreto determinanti per il consenso del terzo contraente, ossia nei quali, in considerazione dell’oggetto e della natura del negozio, la persona dell’alienante rivesta importanza tale da determinare la sua insostituibilità (Cass. 12 aprile 2001, n. 5495; Cass. 26  febbraio 1994, 1975 in motivazione). Si tratta di una categoria alla quale appartengono sia i contratti a prestazione oggettivamente infungibile (ad es. i contratti d’opera intellettuale o artistica), sia i contratti a prestazione soggettivamente infungibile, cioè considerata in concreto tale dalle parti. Per quanto ivi interessa, comunque, la  giurisprudenza maggioritarie ha escluso il contratto di agenzia dalla categoria dei contratti a carattere personale, ricomprendendo tale tipologia negoziale nell’ambito di applicazione dell’art. 2558 c.c. (Cass. 16 maggio 2000, n. 6351; Cass. 26 febbraio 1994, n. 1975).

Si osservi peraltro che la medesima giurisprudenza ha rilevato che «l’acquirente subentra nei contratti di agenzia stipulati dall’alienante per l’esercizio della azienda, ai sensi dell’art. 2558 cod. civ., solo se fra le parti del contratto di cessione non siano intervenuti patti diversi intesi alla novazione dei precedenti contratti» (Cass. 16 maggio 2000, n. 6351).

Alla luce di tali principi la società che cede un contratto di agenzia deve  rispondere dei debiti esistenti, maturati ed esigibili, nei confronti dell’agente solo fino alla data della cessione escludendo di converso la responsabilità in solido con la società cessionaria per i debiti futuri e non esistenti al momento dell’intervenuta cessione.



Evoluzione della clausola star del credere



Tutti i tipi di contratto possono essere promossi da un agente (contratto di compravendita, contratto di locazione, contratto di appalto etc.) fermi restando alcuni elementi essenziali: promozione di contratti, zona, stabilità e continuità dell’attività dell’agente, onerosità.

Il requisito della stabilità obbliga l’agente ad attivarsi in modo continuativo per eseguire il contratto. L’ambito di attività dell’agente è delimitato in senso geografico e in relazione ai soggetti da contattare, individuati nominativamente o per categorie (ad esempio: grande distribuzione).

La clausola dello star del credere è stata eliminata per effetto della L. 21.12.1999, n. 526 che ha aggiunto il c. 3 all’art. 1746 del Codice Civile, che così recita: “È vietato il patto che ponga a carico dell’Agente la responsabilità, anche solo parziale, per l’inadempimento del terzo. È però consentito eccezionalmente alle parti di concordare di volta in volta la con¬cessione di una apposita garanzia da parte dell’Agente, purché ciò avvenga con riferimen¬to a singoli affari, di particolare natura e importo, individualmente determinati; l’obbligo di garanzia assunto dall’Agente non sia di ammontare più elevato della provvigione che per quell’affare l’Agente medesimo avrebbe diritto a percepire; sia previsto per l’Agente un apposito corrispettivo”.

Elementi naturali del contratto, anche in mancanza di espressa previsione: sopportazione delle spese per l’esecuzione del contratto da parte dell’agente, divieto di riscossione, esclusiva.

La sentenza n. 3902, pronunciata dalla Corte di cassazione il 20/4/99, si è occupata del patto dello star per credere (che, talvolta, viene inserito nei contratti di agenzia), introducendo alcuni limiti a tutela dell'agente.

Cosa sia un contratto di agenzia è abbastanza noto: una parte (l'agente) assume stabilmente l'incarico di promuovere, per conto dell'altra (il preponente) e verso una retribuzione, la conclusione di contratti in una zona determinata. La retribuzione dell'agente è normalmente commisurata a provvigioni, cioè a percentuali sul fatturato procurato al preponente mediante la stipulazione dei contratti promossi dall'agente. Tuttavia, la legge stabilisce che il diritto dell'agente alla provvigione si configura solo con riguardo agli affari che hanno avuto regolare esecuzione; se l'affare ha avuto esecuzione parziale, la provvigione spetta all'agente in proporzione alla parte eseguita; dunque, nulla spetta all'agente per il caso in cui l'affare da lui promosso non abbia avuto alcuna esecuzione.

Il patto dello star per credere prevede invece che, nel caso di affari non andati a buon fine, l'agente non solo non percepisca alcuna provvigione; ma, in questo caso, l'agente è tenuto a sopportare in parte le perdite conseguentemente subite dal preponente, e ciò a prescindere dal fatto che la mancata esecuzione dell'affare dipenda, oppure no, da dolo o colpa dell'agente. Si vede, dunque, che tramite questo patto il preponente trasferisce, almeno in parte, il rischio d'impresa in capo all'agente.

Al fine di limitare tale trasferimento (che, il ripetersi, prescinde dal dolo o dalla colpa dell'agente), l'art. 6 dell'accordo collettivo 20/6/56 ha disposto che l'agente possa essere obbligato a rispondere delle perdite subite dal preponente per gli affari non andati a buon fine solo fino al 20% del danno subito dal preponente stesso. Il DPR 16/1/61 n. 145 ha conferito al citato accordo collettivo efficacia erga omnes, attribuendo dunque a tale accordo una efficacia simile a quella della legge.

Questo è il quadro normativo di riferimento, che la citata sentenza della Corte di cassazione ha dovuto tener presente per risolvere il caso di un agente che aveva sottoscritto un patto dello star per credere che prevedeva una limitazione superiore a quella consentita dall'accordo collettivo sopra richiamato. La Corte di cassazione ha dichiarato la nullità parziale di tale patto, nella parte in cui era appunto prevista la responsabilità dell'agente in misura superiore al 20%. La suprema Corte ha anche precisato che la parziale nullità del patto deve essere affermata qualunque sia lo strumento negoziale utilizzato dalle parti per stipulare il patto dello star per credere. Inoltre, è stato affermato che a diverse conclusioni non si potrebbe pervenire neppure qualora il patto fosse correlato alla generica violazione degli obblighi imposti all'agente dall'art. 1746 c.c..

Infatti, tale norma prevede genericamente che l'agente è tenuto ad adempiere l'incarico affidatogli in conformità alle istruzioni ricevute, oltre a dover fornire al preponente ogni informazione utile per valutare la convenienza di ciascun affare e, in particolare, le informazioni relative alle condizioni del mercato nella zona assegnatagli. Evidentemente, la Corte ha considerato che tali obblighi sono troppo generici per fondare su di essi la responsabilità dell'agente per gli affari non andati a buon fine. In altre parole, la violazione di questi obblighi non può legittimare il risarcimento dei danni conseguentemente subiti dal preponente in misura superiore a quella consentita dal citato accordo collettivo.


Agente di commercio e il concetto di giusta causa



L’agente promuove la conclusione di contratti per conto del preponente svolgendo attività di ricerca della potenziale clientela, di descrizione e di pubblicizzazione dei prodotti per portare il cliente a poter formulare una determinata proposta, conforme alle aspettative del preponente. Se munito del potere di rappresentanza, l’agente conclude i contratti per conto del preponente.

Il concetto di giusta causa trae il suo fondamento giuridico dall’art. 2119 c.c. Al riguardo, l’orientamento è ormai pacifico nel considerare che anche il rapporto di agenzia possa essere risolto appunto per giusta causa in virtù dell’applicazione analogica al contratto di agenzia proprio del menzionato art. 2119 c.c. (tra le tante v. Cass. 12 dicembre 2001, n. 15661; Cass. 12 giugno 2000, n. 7986; Cass. 28 marzo 2000, n. 3738; nel merito, la recentissima Trib. Siracusa 3 febbraio 2004 in Agenti & Rappresentanti, 2004, n. 5, pag. 33 e 34).

La sentenza n. 4817, pronunciata dalla Corte di cassazione in data 18/5/99, si è occupata di questo problema, enunciando principi rilevanti - oltre che nel caso di specie - in ordine ai rapporti tra legislazione nazionale e legislazione comunitaria.

Infatti, con riferimento agli agenti e alla obbligatorietà o meno dell'agente di essere iscritto ad un apposito albo, vi è una contraddizione tra le due discipline normative. Più precisamente, la L. 12/3/68 n. 316 dispone, per i soggetti che svolgano attività di agente, l'obbligo di iscrizione in un apposito albo; la successiva L. 9/5/85 n. 204 ribadisce il divieto di svolgimento dell'attività di agente per i soggetti non iscritti al ruolo. Al contrario, la direttiva comunitaria 86/653 del 18/12/86 sancisce il diritto degli agenti di commercio di svolgere la loro attività indipendentemente dall'iscrizione in appositi albi.

Sulla scorta di questa normativa di riferimento, nel caso specifico un soggetto aveva di fatto svolto attività di agente di commercio per una società, senza essere iscritto al corrispondente ruolo. Non avendo ricevuto tutti i compensi dovuti, l'agente di fatto si era rivolto al giudice del lavoro per ottenerne il pagamento. Tuttavia, il Tribunale di Roma rigettava la domanda, richiamando la normativa italiana sopra citata e, conseguentemente, ritenendo nullo il contratto di agenzia di fatto stipulato da un soggetto non iscritto all'albo.

La sentenza del Tribunale è stata però riformata dalla Corte di cassazione. Con la pronuncia prima indicata, la suprema Corte ha infatti ritenuto inapplicabile le leggi 316/68 e 204/85, in quanto contrastanti con la direttiva comunitaria. La Corte ha anche fatto riferimento alla sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee in data 30/4/98, secondo cui la citata direttiva osta ad una normativa nazionale che subordini la validità di un contratto di agenzia alla iscrizione dell'agente di commercio in un apposito albo.

La Corte di cassazione ha ritenuto che tanto la sentenza della Corte di Giustizia, quanto la direttiva comunitaria devono ritenersi produttive di effetti nel nostro ordinamento. E' vero infatti che solo attraverso un regolamento la Comunità è in grado di dettare norme uniformi e capaci di inserirsi immediatamente negli ordinamenti nazionali. Tuttavia, prosegue la Corte, anche alle direttive comunitarie deve essere riconosciuta un'efficacia diretta, qualora esse presentino un contenuto sufficientemente preciso e non condizionato. Questa condizione si verifica allorquando la direttiva sancisca un obbligo in termini chiari e non soggetto ad alcuna condizione, né subordinato - in relazione alla sua osservanza o ai suoi effetti - all'emanazione di alcun atto da parte degli Stati membri o delle istituzioni della Comunità.

Pertanto, conclude la Corte, il giudice italiano deve disapplicare la norma nazionale in conflitto con la direttiva comunitaria, ove questa riguardi un rapporto fra Stato e privati. Poiché la normativa italiana sopra richiamata riguarda evidentemente il rapporto tra lo Stato e gli agenti, quindi un soggetto privato, deve ritenersi che rispetto a questa norma la direttiva comunitaria abbia efficacia diretta, con conseguente obbligo per il giudice nazionale di disapplicare la disposizione interna incompatibile.


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