domenica 27 aprile 2014

Patto di non concorrenza nell’ambito dei rapporti di agenzia



La Corte di Cassazione con sentenza della sez. lav. 5 giugno 2000, n.7481, ha confermato il precedente indirizzo secondo il qual qualora un contratto di agenzia preveda sin dall’inizio il conferimento conferisca all’agente anche di un incarico alla riscossione, deve presumersi – attesa la natura corrispettiva del rapporto – che il compenso per tale attività sia già stato compreso nella provvigione pattuita, che deve intendersi determinata in relazione al complesso dei compiti affidati all’agente. La medesima attività andrà separatamente compensata nel caso in cui il relativo incarico sia stato conferito all’agente nel corso del rapporto e costituisca una prestazione accessoria ulteriore rispetto a quella originariamente prevista nel contratto.

Il patto di non concorrenza stipulato tra agenti di assicurazione è valido solo nell'ambito della medesima zona e clientela, mentre deve ritenersi nullo per le parti eccedenti, con esclusione di ogni derogabilità da parte degli usi e dalla contrattazione collettiva attesa la natura indisponibile alle parti della previsione di cui all'art. 1751 bis, primo comma, cod. civ.

Innanzitutto, occorre rammentare che in origine ad esso si applicava il regime previsto dall’art. 2596 c.c. secondo cui «il patto che limita la concorrenza deve essere provato per iscritto. Esso é valido se circoscritto ad una determinata zona o ad una determinata attività, e non può eccedere la durata di cinque anni», non prevedendosi all’epoca alcun compenso in favore dell’agente.

La giurisprudenza sul punto ha riconosciuto univocamente che «l’art. 2125 c.c., che disciplina il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro per il tempo successivo alla cessazione del contratto, riguarda esclusivamente il rapporto di lavoro subordinato e, pertanto, non può applicarsi ad ipotesi diverse, come quella del rapporto di agenzia, dato che l’agente non è un lavoratore subordinato, ma (di norma) un imprenditore, essendo in tali ipotesi applicabile, invece, l’art. 2596 c.c., secondo cui il patto che limita la concorrenza deve essere provato per iscritto, deve essere circoscritto ad una determinata zona e non può eccedere la durata di cinque anni» (Cass. 24 agosto 1991, n. 9118; Cass. 6 novembre 2000, n. 14454). Con l’introduzione dell’art. 1751 bis cod. civ., ad opera del D.Lgs. 10 settembre 1991, n. 303 (attuativo della Direttiva CEE n. 86 del 1986), il legislatore italiano é poi intervenuto a disciplinare il patto di non concorrenza nel contratto di agenzia. Ai fini della validità del patto in questione, la norma citata richiede la forma scritta, una durata massima di due anni e che il patto riguardi la medesima zona, clientela e genere di beni o servizi oggetto del contratto di agenzia.

Recentemente la disposizione è stata ulteriormente rinnovata dall’art. 23, Legge Comunitaria 29 dicembre 2000, n. 422 che ha  modificato l’art. 1751 bis c.c., riconoscendo espressamente il diritto dell’agente ad un’indennità, di natura non provvigionale, a titolo di corrispettivo dell’obbligo di non concorrenza. Inoltre, la medesima disposizione prevede una serie di criteri per la determinazione del corrispettivo del patto di non concorrenza affidandola prima alle parti, che dovranno tener conto della durata del patto, della natura del rapporto nonché, qualora applicabili al caso specifico, di quanto previsto dagli AEC. La norma novellata, inoltre, rimette all’equità del giudice la determinazione del corrispettivo in assenza di accordo tra le parti. Tali disposizioni, tuttavia, soffrono di alcune limitazioni: innanzitutto si applicano esclusivamente agli agenti che esercitino in forma individuale, di società di persone o di società di capitali con un solo socio, nonché, ove previsto da accordi economici nazionali di categoria, a società di capitali costituite esclusivamente o prevalentemente da agenti commerciali. E, in secondo luogo, tale disciplina vale esclusivamente per i patti di non concorrenza stipulati dopo l’entrata in vigore di tale norma, vale a dire dal 1° giugno 2001.

Ogni condotta di concorrenza è tenuta dall'imprenditore nella piena consapevolezza del danno che essa può arrecare al proprio concorrente ed è, anzi, finalizzata a questo obiettivo e solo una malintesa concezione dell'attività imprenditoriale può arrivare ad immaginare una concorrenza non finalizzata alla eliminazione del concorrente dal mercato.

Con particolare riguardo allo storno di dipendenti, va affermato il pieno diritto di ogni imprenditore di sottrarre dipendenti al concorrente, purché ciò avvenga con mezzi leciti, quale ad esempio la promessa di un trattamento retributivo migliore o di una sistemazione professionale più soddisfacente.

Evoluzione della clausola star del credere



Tutti i tipi di contratto possono essere promossi da un agente (contratto di compravendita, contratto di locazione, contratto di appalto etc.) fermi restando alcuni elementi essenziali: promozione di contratti, zona, stabilità e continuità dell’attività dell’agente, onerosità.

Il requisito della stabilità obbliga l’agente ad attivarsi in modo continuativo per eseguire il contratto. L’ambito di attività dell’agente è delimitato in senso geografico e in relazione ai soggetti da contattare, individuati nominativamente o per categorie (ad esempio: grande distribuzione).

La clausola dello star del credere è stata eliminata per effetto della L. 21.12.1999, n. 526 che ha aggiunto il c. 3 all’art. 1746 del Codice Civile, che così recita: “È vietato il patto che ponga a carico dell’Agente la responsabilità, anche solo parziale, per l’inadempimento del terzo. È però consentito eccezionalmente alle parti di concordare di volta in volta la con¬cessione di una apposita garanzia da parte dell’Agente, purché ciò avvenga con riferimen¬to a singoli affari, di particolare natura e importo, individualmente determinati; l’obbligo di garanzia assunto dall’Agente non sia di ammontare più elevato della provvigione che per quell’affare l’Agente medesimo avrebbe diritto a percepire; sia previsto per l’Agente un apposito corrispettivo”.

Elementi naturali del contratto, anche in mancanza di espressa previsione: sopportazione delle spese per l’esecuzione del contratto da parte dell’agente, divieto di riscossione, esclusiva.

La sentenza n. 3902, pronunciata dalla Corte di cassazione il 20/4/99, si è occupata del patto dello star per credere (che, talvolta, viene inserito nei contratti di agenzia), introducendo alcuni limiti a tutela dell'agente.

Cosa sia un contratto di agenzia è abbastanza noto: una parte (l'agente) assume stabilmente l'incarico di promuovere, per conto dell'altra (il preponente) e verso una retribuzione, la conclusione di contratti in una zona determinata. La retribuzione dell'agente è normalmente commisurata a provvigioni, cioè a percentuali sul fatturato procurato al preponente mediante la stipulazione dei contratti promossi dall'agente. Tuttavia, la legge stabilisce che il diritto dell'agente alla provvigione si configura solo con riguardo agli affari che hanno avuto regolare esecuzione; se l'affare ha avuto esecuzione parziale, la provvigione spetta all'agente in proporzione alla parte eseguita; dunque, nulla spetta all'agente per il caso in cui l'affare da lui promosso non abbia avuto alcuna esecuzione.

Il patto dello star per credere prevede invece che, nel caso di affari non andati a buon fine, l'agente non solo non percepisca alcuna provvigione; ma, in questo caso, l'agente è tenuto a sopportare in parte le perdite conseguentemente subite dal preponente, e ciò a prescindere dal fatto che la mancata esecuzione dell'affare dipenda, oppure no, da dolo o colpa dell'agente. Si vede, dunque, che tramite questo patto il preponente trasferisce, almeno in parte, il rischio d'impresa in capo all'agente.

Al fine di limitare tale trasferimento (che, il ripetersi, prescinde dal dolo o dalla colpa dell'agente), l'art. 6 dell'accordo collettivo 20/6/56 ha disposto che l'agente possa essere obbligato a rispondere delle perdite subite dal preponente per gli affari non andati a buon fine solo fino al 20% del danno subito dal preponente stesso. Il DPR 16/1/61 n. 145 ha conferito al citato accordo collettivo efficacia erga omnes, attribuendo dunque a tale accordo una efficacia simile a quella della legge.

Questo è il quadro normativo di riferimento, che la citata sentenza della Corte di cassazione ha dovuto tener presente per risolvere il caso di un agente che aveva sottoscritto un patto dello star per credere che prevedeva una limitazione superiore a quella consentita dall'accordo collettivo sopra richiamato. La Corte di cassazione ha dichiarato la nullità parziale di tale patto, nella parte in cui era appunto prevista la responsabilità dell'agente in misura superiore al 20%. La suprema Corte ha anche precisato che la parziale nullità del patto deve essere affermata qualunque sia lo strumento negoziale utilizzato dalle parti per stipulare il patto dello star per credere. Inoltre, è stato affermato che a diverse conclusioni non si potrebbe pervenire neppure qualora il patto fosse correlato alla generica violazione degli obblighi imposti all'agente dall'art. 1746 c.c..

Infatti, tale norma prevede genericamente che l'agente è tenuto ad adempiere l'incarico affidatogli in conformità alle istruzioni ricevute, oltre a dover fornire al preponente ogni informazione utile per valutare la convenienza di ciascun affare e, in particolare, le informazioni relative alle condizioni del mercato nella zona assegnatagli. Evidentemente, la Corte ha considerato che tali obblighi sono troppo generici per fondare su di essi la responsabilità dell'agente per gli affari non andati a buon fine. In altre parole, la violazione di questi obblighi non può legittimare il risarcimento dei danni conseguentemente subiti dal preponente in misura superiore a quella consentita dal citato accordo collettivo.


Agente di commercio e il concetto di giusta causa



L’agente promuove la conclusione di contratti per conto del preponente svolgendo attività di ricerca della potenziale clientela, di descrizione e di pubblicizzazione dei prodotti per portare il cliente a poter formulare una determinata proposta, conforme alle aspettative del preponente. Se munito del potere di rappresentanza, l’agente conclude i contratti per conto del preponente.

Il concetto di giusta causa trae il suo fondamento giuridico dall’art. 2119 c.c. Al riguardo, l’orientamento è ormai pacifico nel considerare che anche il rapporto di agenzia possa essere risolto appunto per giusta causa in virtù dell’applicazione analogica al contratto di agenzia proprio del menzionato art. 2119 c.c. (tra le tante v. Cass. 12 dicembre 2001, n. 15661; Cass. 12 giugno 2000, n. 7986; Cass. 28 marzo 2000, n. 3738; nel merito, la recentissima Trib. Siracusa 3 febbraio 2004 in Agenti & Rappresentanti, 2004, n. 5, pag. 33 e 34).

La sentenza n. 4817, pronunciata dalla Corte di cassazione in data 18/5/99, si è occupata di questo problema, enunciando principi rilevanti - oltre che nel caso di specie - in ordine ai rapporti tra legislazione nazionale e legislazione comunitaria.

Infatti, con riferimento agli agenti e alla obbligatorietà o meno dell'agente di essere iscritto ad un apposito albo, vi è una contraddizione tra le due discipline normative. Più precisamente, la L. 12/3/68 n. 316 dispone, per i soggetti che svolgano attività di agente, l'obbligo di iscrizione in un apposito albo; la successiva L. 9/5/85 n. 204 ribadisce il divieto di svolgimento dell'attività di agente per i soggetti non iscritti al ruolo. Al contrario, la direttiva comunitaria 86/653 del 18/12/86 sancisce il diritto degli agenti di commercio di svolgere la loro attività indipendentemente dall'iscrizione in appositi albi.

Sulla scorta di questa normativa di riferimento, nel caso specifico un soggetto aveva di fatto svolto attività di agente di commercio per una società, senza essere iscritto al corrispondente ruolo. Non avendo ricevuto tutti i compensi dovuti, l'agente di fatto si era rivolto al giudice del lavoro per ottenerne il pagamento. Tuttavia, il Tribunale di Roma rigettava la domanda, richiamando la normativa italiana sopra citata e, conseguentemente, ritenendo nullo il contratto di agenzia di fatto stipulato da un soggetto non iscritto all'albo.

La sentenza del Tribunale è stata però riformata dalla Corte di cassazione. Con la pronuncia prima indicata, la suprema Corte ha infatti ritenuto inapplicabile le leggi 316/68 e 204/85, in quanto contrastanti con la direttiva comunitaria. La Corte ha anche fatto riferimento alla sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee in data 30/4/98, secondo cui la citata direttiva osta ad una normativa nazionale che subordini la validità di un contratto di agenzia alla iscrizione dell'agente di commercio in un apposito albo.

La Corte di cassazione ha ritenuto che tanto la sentenza della Corte di Giustizia, quanto la direttiva comunitaria devono ritenersi produttive di effetti nel nostro ordinamento. E' vero infatti che solo attraverso un regolamento la Comunità è in grado di dettare norme uniformi e capaci di inserirsi immediatamente negli ordinamenti nazionali. Tuttavia, prosegue la Corte, anche alle direttive comunitarie deve essere riconosciuta un'efficacia diretta, qualora esse presentino un contenuto sufficientemente preciso e non condizionato. Questa condizione si verifica allorquando la direttiva sancisca un obbligo in termini chiari e non soggetto ad alcuna condizione, né subordinato - in relazione alla sua osservanza o ai suoi effetti - all'emanazione di alcun atto da parte degli Stati membri o delle istituzioni della Comunità.

Pertanto, conclude la Corte, il giudice italiano deve disapplicare la norma nazionale in conflitto con la direttiva comunitaria, ove questa riguardi un rapporto fra Stato e privati. Poiché la normativa italiana sopra richiamata riguarda evidentemente il rapporto tra lo Stato e gli agenti, quindi un soggetto privato, deve ritenersi che rispetto a questa norma la direttiva comunitaria abbia efficacia diretta, con conseguente obbligo per il giudice nazionale di disapplicare la disposizione interna incompatibile.


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