sabato 8 novembre 2014
Età minima per lavorare con l’associazione in partecipazione
L'associazione in partecipazione è una tipologia di lavoro autonomo con cui il lavoratore (associato) partecipa agli utili dell’impresa (associante) e ottiene un’adeguata erogazione di compenso per un tipo di prestazione lavorativa può essere la più varia.
Il contratto di associazione in partecipazione non richiede una forma particolare e può essere stipulato a tempo determinato o indeterminato.
Per evitare rapporti elusivi della normativa opera la presunzione legale di rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato in questi due casi:
(N.B. Viene precisato che tale presunzione opera nel caso in cui l'apporto di lavoro non presenti i requisiti della collaborazione con Partita IVA)
Il lavoro dei ragazzi (i minori che non hanno compiuto i 15 anni) e degli adolescenti (persone di età compresa tra i 15 e i 18 anni compiuti) è disciplinato e tutelato dalla L. 17/10/67 n. 977.
La regola generale posta dalla legge è che la età minima per la ammissione al lavoro, anche per gli apprendisti, è di 15 anni compiuti. Tuttavia questa regola incontra alcune eccezioni: in agricoltura e nei servizi familiari, l'età minima per l'ammissione al lavoro è di 14 anni compiuti, purché ciò sia compatibile con la tutela della salute del minore e non comporti la trasgressione dell'obbligo scolastico; nelle attività non industriali, i fanciulli di età non inferiore a 14 anni compiuti possono essere ammessi a lavori leggeri (meglio precisati nel DPR 4/1/71 n. 36), che siano compatibili con la tutela della salute, non comportino trasgressione all'obbligo scolastico e sempre che il minore non sia adibito a lavoro notturno e festivo.
E' prevista una deroga anche per la preparazione o rappresentazione di spettacoli o riprese cinematografiche. In questo caso, l'ispettorato provinciale del lavoro, su conforme parere del prefetto e previo assenso scritto del genitore o tutore, può autorizzare l'ammissione al lavoro dei minori di età inferiore ai 15 anni e fino al compimento dei 18, sempre che il lavoro non sia pericoloso e non si protragga oltre le ore 24. Il rilascio di tale autorizzazione è subordinato all'esistenza di tutte le condizioni necessarie ad assicurare la salute fisica e la moralità del minore, nonché l'osservanza dell'eventuale obbligo scolastico. In ogni caso, il fanciullo o adolescente, dopo l'impegno in tali rappresentazioni, dovrà godere di un riposo di almeno 14 ore consecutive.
La legge appronta particolari tutele a favore dei fanciulli e adolescenti che siano impiegati al lavoro. In particolare, i minori di 16 anni non possono essere adibiti ai lavori pericolosi, insalubri e faticosi, precisati dal DPR 20/1/76 n. 432 (in ogni caso, la legge stessa pone precisi limiti in ordine al sollevamento e trasporto di pesi da parte dei fanciulli e degli adolescenti); è vietato adibire i fanciulli e gli adolescenti a lavori sotterranei in miniere o cave o gallerie, nonché alla somministrazione di bevande alcooliche. L'ammissione al lavoro deve essere preceduta da una visita medica che certifichi l'idoneità del minore al lavoro cui sarà adibito. La legge prevede infine un particolare trattamento di salvaguardia in tema di ferie, orario di lavoro, lavoro notturno, riposo settimanale. La violazione delle norme della legge 977 comporta l'inflizione di sanzioni penali, peraltro modeste.
L’Art. 2549 del codice civile disciplina l’associazione in partecipazione: “Con il contratto di associazione in partecipazione (att. 219) l`associante attribuisce all`associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto”.
L’apporto può essere costituito anche da prestazioni di lavoro rese dall’associato nei confronti dell’associazione. Più precisamente, trattasi di attività lavorativa in forma autonoma. Ma essa che può avere connotazioni del tutto analoghe alle prestazioni di lavoro rese in regime di lavoro subordinato (quindi ad esempio il rispetto di orari di lavoro).
Proprio per questo sottile limite tra lavoro subordinato e queste prestazioni di lavoro rese dall’associato nei confronti dell’associazione come apporto, secondo l’art. 2459 del codice civile, che è intervenuta la legge Fornero introducendo alcuni importanti limiti, nel tentativo di contrastare l’utilizzo improprio dell’associazione in partecipazione.
Qualora l’apporto dell’associato consista anche in una prestazione di lavoro, il numero degli associati impegnati in una medesima attività non può essere superiore a tre, indipendentemente dal numero degli associanti, con l’unica eccezione nel caso in cui gli associati siano legati all’associante da rapporto coniugale, di parentela entro il terzo grado o di affinità entro il secondo. In caso di violazione del divieto di cui al presente comma, il rapporto con tutti gli associati il cui apporto consiste anche in una prestazione di lavoro si considera di lavoro subordinato a tempo indeterminato”.
Il limite di tre associati è nell’apporto di lavoro nella “medesima attività”, che è da intendersi come tipologia di attività, indipendentemente dal luogo in cui viene resa. Ne consegue che qualora un’azienda svolga la sua attività in più unità produttive, la medesima attività è da riferire nella totalità delle unità produttive e non in riferimento ad una sola. Quindi gli associati che apportano lavoro devono essere tre in tutte le unità. Inoltre la norma precisa che il limite di tre associati si applica “indipendentemente dal numero degli associanti”.
Qualora il conferimento dell'associato consista anche in una prestazione di lavoro, il numero degli associati impegnati in una medesima attività non possa essere superiore a tre, indipendentemente dal numero degli associanti (a meno che gli associati siano legati da rapporto coniugale, di parentela entro il terzo grado o di affinità entro il secondo). Il limite non opera in assenza di apporto di lavoro e qualora l’associato è un soggetto imprenditore.
Eccezione: il limite dei tre associati non si applica nei seguenti casi:
• alle imprese a scopo mutualistico;
• agli associati individuati mediante elezione dall'organo assembleare di cui all'articolo 2540, il cui contratto sia certificato; I rapporti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro, instaurati o attuati senza che vi sia stata un'effettiva partecipazione dell'associato agli utili dell'impresa o dell'affare, o senza consegna del rendiconto, si presumono, salva prova contraria, rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
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Che cosa è l’associazione in partecipazione?
L'associazione in partecipazione è una particolare forma di contratto relativo al mondo dell'impresa con il quale un imprenditore (che viene detto appunto "associante") si accorda con uno o più soggetti (che vengono detti "associati") che svolgono la propria attività lavorativa e vengono ricompensati con una partecipazione agli utili dell'impresa. L'utilizzo di questo tipo di contratto offre dei vantaggi in termini di flessibilità ed è molto redditizio nel momento in cui l'impresa ottiene un utile. Diventa invece problematico nei casi in cui l'attività sia in perdita perché in questo caso il lavoratore associato può essere chiamato a rispondere delle passività.
L’associazione in partecipazione, disciplinata dagli artt. 2549-2554 del codice civile, è un contratto con il quale un imprenditore (detto associante) attribuisce ad un altro soggetto (detto associato) la partecipazione agli utili dell’impresa o di uno o più affari, verso il corrispettivo di un determinato apporto che l’opinione dominante assume possa consistere anche in una prestazione di lavoro.
L’associante rimane, dunque, titolare dell’impresa, e come tale è l’unico soggetto a cui siano riferibili i rapporti giuridici (debiti – crediti) nei confronti dei terzi, mentre nei rapporti interni (tra associante ed associato), in linea di principio e salvo patto contrario, l’associato si assume il rischio di impresa. In buona sostanza quest’ultimo partecipa, di regola, tanto alle perdite quanto agli utili, sebbene le perdite non possano superare il suo apporto (art. 2553 c.c.).
Inoltre, sempre fatto salvo il patto contrario, l’associante non può attribuire partecipazioni per la stessa impresa (o per lo stesso affare) ad altre persone senza il consenso del precedente associato (art. 2550 c.c.). Tale disposizione si giustifica con l’esigenza di tutela dell’associato, in quanto una nuova partecipazione potrebbe determinare una riduzione degli utili a lui spettanti. Sempre in tale ottica può essere previsto, convenzionalmente, il potere di controllo, sulla gestione dell’impresa o sullo svolgimento dell’affare per cui l’associazione è stata contratta, da parte dell’associato (2° comma dell’art. 2552 c.c.). A quest’ultimo, in ogni caso, è attribuito il diritto (3° comma dell’art. 2552 c.c.) al rendiconto annuale, ovvero al rendiconto finale sull’affare compiuto.
Per evitare fenomeni elusivi, la tradizionale disciplina codicistica è stata integrata da altri interventi normativi successivi.
In principio, è stato introdotto l’art. 86 (2° comma) del D.Lgs. 276/03, secondo il quale il contratto di associazione in partecipazione è invalido quando manchino un’effettiva partecipazione ed adeguate erogazioni a chi lavora. In tali casi, il lavoratore ha diritto ai trattamenti contributivi, economici e normativi stabiliti dalla legge e dai contratti collettivi per il lavoro subordinato svolto nella posizione corrispondente del medesimo settore di attività, a meno che il datore di lavoro, o committente, o altrimenti utilizzatore non comprovi che la prestazione rientra in una tipologie di lavoro disciplinate nel D.Lgs. 276/03 ovvero in un contratto di lavoro subordinato speciale o con particolare disciplina, o in un contratto nominato di lavoro autonomo, o in altro contratto espressamente previsto nell’ordinamento.
Tale norma, tuttavia, ha da subito suscitato perplessità negli interpreti. Pertanto, è stata abrogata dalla legge 92/2012 di riforma del lavoro, che ha, altresì, introdotto alcune norme aventi lo scopo di ridurre al minimo il rischio di utilizzo abusivo della fattispecie contrattuale in esame.
La riforma del 2012 è, infatti, intervenuta su due diversi fronti.
In primo luogo, ha stabilito che si presumono rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato tutti i rapporti associativi instaurati o attuati senza che vi sia stata un’effettiva partecipazione dell’associato agli utili dell’impresa o dell’affare ovvero senza consegna del rendiconto relativo all’affare compiuto o all’anno di gestione trascorso.
In secondo luogo, ha stabilito che quando l’apporto conferito alla società consiste anche in una prestazione di lavoro, non possono esserci più di tre associati in partecipazione (salvi i familiari entro il terzo grado), pena la conversione in rapporto di lavoro subordinato per tutti gli associati.
Infine, sempre a scopo antielusivo, la legge 92/2012 ha esteso l’applicazione del nuovo art. 69 bis d. lgs. 276/2003 anche all’associazione in partecipazione: la norma citata (introdotta dalla stessa riforma) prevede che tale forma di collaborazione debba essere considerata come collaborazione coordinata e continuativa (con conseguente applicazione della disciplina relativa al contratto a progetto) quando ricorrono le seguenti condizioni:
la collaborazione per uno stesso committente sia durata almeno 8 mesi nell’ambito dello stesso anno solare;
oltre l’80% del fatturato del collaboratore nell’arco di un anno solare derivi da uno stesso committente;
il collaboratore deve avere la disponibilità di una postazione fissa presso il committente.
In sostanza, quando ricorrono due dei presupposti appena elencati, il rapporto – anziché di associazione in partecipazione- deve essere riqualificato come rapporto di collaborazione a progetto. Ad esso, dovrà essere pertanto applicata la disciplina prevista dagli artt. 61 e ss del d. lgs. 276/2003, compreso il prelievo contributivo e la disciplina sanzionatoria nel caso in cui il contratto non sia conforme al progetto legale.
Vi sono dei casi in cui l’utilizzo del contratto di associazione in partecipazione può mascherare il tentativo di aggirare la disciplina propria del lavoro subordinato.
Per questi motivi, come abbiamo già visto, la legge stabilisce che, quando l’apporto degli associati consiste in un’attività lavorativa, il numero degli associati non può essere superiore a tre, diversamente il rapporto si tramuta in un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Ma la recente riforma Fornero, attuata con la legge n. 92 del 2012, ha previsto altre ipotesi in cui si presume che il rapporto di partecipazione in associazione sia in realtà un rapporto di lavoro subordinato.
Si tratta dei casi in cui:
• in concreto all’esecuzione del rapporto di lavoro non segue un’effettiva partecipazione agli utili (e quindi di fatto il lavoratore riceve una retribuzione del tutto simile allo stipendio di un dipendente);
• l’attività lavorativa non viene seguita dal rendiconto da parte dell’imprenditore-associante;
• l’attività svolta dall’associato non ha le caratteristiche proprie di un’attività da lavoro autonomo (e quindi presenta i connotati tipici di un rapporto di lavoro subordinato).
Ciò significa che in questi casi si presume fino a prova contraria che il rapporto tra associato e associante sia un rapporto di lavoro subordinato a tutti gli effetti con tutte le conseguenze del caso sia sotto l’aspetto retributivo e contributivo, sia dal punto di vista della disciplina (orario, mansioni, licenziamento ecc.).
Una importante novità è stata introdotta dal cd. decreto lavoro d.l. n. 76/2013: anche le dimissioni dei lavoratori associati sono assoggettate al procedimento di cui alla legge Fornero.
La legge di conversione del D.L. n. 76/2013 (Legge 9 agosto 2013, n. 99) ha previsto degli strumenti per facilitare l’assorbimento con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dei lavoratori assunti in precedenza con contratto di associazione in partecipazione e per disincentivare gli abusi collegati all’utilizzo di questa particolare forma contrattuale.
Vi è la possibilità di stipulare degli specifici contratti collettivi che prevedono appunto queste assunzioni entro tre mesi dalla data di stipulazione del contratto.
L’assunzione, in questo caso, può avvenire anche con un contratto di apprendistato. Si prevede peraltro che nei 6 mesi successivi alle assunzioni il datore di lavoro non può recedere dal rapporto di lavoro a meno che non sussistano una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo di licenziamento.
All’atto dell’assunzione le parti sottoscrivono un atto di conciliazione sullo schema della conciliazione prevista per il processo del lavoro e tale atto viene depositato, assieme al contratto di lavoro subordinato, nelle competenti sedi INPS.
L’atto di conciliazione, tuttavia, è efficace soltanto se il datore di lavoro versa alla gestione separata una somma pari al 5% della quota di contribuzione a carico degli associati per i periodi di vigenza dei contratti di associazione in partecipazione e comunque per un periodo non superiore a sei mesi, riferito a ciascun lavoratore assunto a tempo indeterminato.
Sulle somme di partecipazione agli utili che l’associato riceve, si applicano la ritenute fiscali:
• nel caso in cui l’associato fornisca un contributo in termini di attività lavorativa si applica una ritenuta del 20%
• nel caso in cui l’associato fornisca un contributo in termini capitale (ad esempio fornisce dei macchinari, delle somme di denaro ecc) si applica una ritenuta del 12,50%.
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giovedì 6 novembre 2014
Lavoro accessorio, buoni lavoro, voucher gli importi minimi
Le prestazioni di lavoro accessorio (articoli 70-73 D. Lgs. 276/2003) sono pagate con il meccanismo dei buoni (voucher). e sono le attività lavorative di natura occasionale che danno complessivamente luogo, con riferimento alla totalità dei committenti, a compensi non superiori a 5.000 euro nel corso di un anno solare (annualmente rivalutati).
Le prestazioni possono ora essere rese in tutti i settori, da parte di qualsiasi committente, con qualsiasi lavoratore (salvo alcuni limiti nel settore agricolo), mentre per quanto concerne le prestazioni rese nei confronti di imprenditori commerciali o professionisti si prevede che le attività svolte a favore di ciascun committente non possono comunque superare i 2.000 euro annui.
Il pagamento avviene attraverso 'buoni lavoro' o detti voucher il cui valore netto in favore del lavoratore, è di 7,50 euro e corrisponde al compenso minimo di un’ora di prestazione, al costo di 10 euro per il datore di lavoro salvo che per il settore agricolo, dove, si fa riferimento al contratto specifico. Con i buoni lavoro vengono garantite la copertura previdenziale presso l'INPS (pensione ) e quella assicurativa presso l'INAIL.
Il voucher per il lavoro accessorio non dà invece diritto alle prestazioni a sostegno del reddito dell'INPS (disoccupazione, maternità, malattia, assegni familiari ecc.).
La legge n. 92 del 28 giugno 2012 e successivamente la n. 99 del 9 agosto 2013 di conversione del decreto legge 28 giugno 2013, n. 76, hanno introdotto modifiche alla normativa in materia di lavoro occasionale accessorio scrivendo in modo significativo l’art. 70 del d. lgs. n. 276/ 2003 anche attraverso la ridefinizione della natura giuridica delle prestazioni non più definite di natura “meramente occasionale” nonché intervenendo sui limiti economici per i compensi erogati a seguito delle prestazioni di lavoro accessorio per singolo prestatore.
La nuova normativa sul lavoro accessorio tramite l'utilizzo di buoni lavoro modifica sostanzialmente il parametro di riferimento economico spostando dal committente al prestatore il limite.
Infatti si prevede che il compenso complessivamente percepito dal prestatore non possa essere superiore nel corso di un anno solare, inteso come periodo dal 1° gennaio al 31 dicembre:
- a 5.000 euro, con riferimento alla totalità dei committenti, da intendersi come importo netto per il prestatore, pari a 6.666 € lordi;
- a 2.000 euro per prestazioni svolte a favore di imprenditori commerciali o professionisti, con riferimento a ciascun committente, da intendersi come importo netto per il prestatore, pari a 2.666 € lordi;
- a 3.000 euro per i prestatori percettori di prestazioni integrative del salario o con sostegno al reddito che, per l’anno 2013, possono effettuare lavoro accessorio in tutti i settori produttivi compresi gli enti locali, da intendersi come importo netto per il prestatore, corrispondenti a 4000 € lordi.
Il rispetto dei limiti economici costituisce un elemento fondamentale per la qualificazione delle prestazioni, in considerazione delle sanzioni previste in caso di superamento degli importi massimi.
Quindi, al fine di agevolare i committenti e i prestatori nel riscontro dei compensi riscossi nel corso dell’anno, le procedure telematiche di calcolo e di presentazione dei compensi ricevuti dal prestatore a mezzo dei voucher INPS, sono state revisionate sviluppando anche specifiche funzionalità di visualizzazione di tali compensi sia da parte del committente che del prestatore.
La circolare Inps, n. 28 del febbraio 2014 prevede i nuovi importi economici massimi da prendere a riferimento per l’anno 2014 e sono così rideterminati:
- 5.050 € netti ricevuti dal totale dei committenti nel corso di un anno solare,
- 2.020 € netti in caso di committenti imprenditori commerciali o liberi professionisti nel corso di un anno solare.
I corrispondenti importi lordi, riferiti all’anno solare, sono pari a:
- 6.740 € per la totalità dei committenti;
- 2.690 € in caso di committenti imprenditori commerciali o liberi professionisti.
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