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lunedì 8 dicembre 2014

Certificazione nei contratti di lavoro



La certificazione è una speciale procedura finalizzata ad attestare che il contratto che si vuole sottoscrivere abbia i requisiti di forma e contenuto richiesti dalla legge. È una procedura a carattere volontario, può essere eseguita solo su richiesta di entrambe le parti (futuro lavoratore e datore di lavoro) e ha lo scopo di ridurre il contenzioso in materia di qualificazione di alcuni contratti di lavoro.

Possono essere oggetto di certificazione solo i contratti di:
lavoro intermittente
lavoro ripartito
lavoro a tempo parziale
lavoro a progetto
associazione in partecipazione
appalto

La procedura di certificazione è attivata a seguito di una richiesta scritta e congiunta del datore di lavoro e del lavoratore. L'inizio del procedimento deve essere comunicato alla DTL competente per territorio e deve concludersi entro 30 giorni dalla ricezione dell'istanza. Nella valutazione la commissione deve tener presente i codici di buone pratiche.

La procedura si conclude con un atto di certificazione motivato che indica l'autorità presso cui è possibile presentare ricorso, il termine per presentarlo e gli effetti della certificazione. L'atto di certificazione può essere impugnato dal datore di lavoro e dal lavoratore, oltre che dai terzi interessati, davanti al giudice del lavoro e in alcuni casi al TAR (Tribunale amministrativo regionale). La pratica di certificazione e i contratti certificati devono essere conservati presso le sedi di certificazione per almeno 5 anni dal momento della loro scadenza.

Le sedi di certificazione svolgono attività di consulenza e assistenza al datore e al lavoratore sia in relazione alla stipulazione, sia in relazione alle modifiche del programma negoziale.

Il recente D. Lgs. 276/03 ha introdotto la certificazione che è finalizzata a ridurre il contenzioso in materia di rapporti di lavoro attraverso un'esatta qualificazione del rapporto stesso. Infatti, chi abbia stipulato un contratto di lavoro atipico, può certificare la genuinità di quel contratto e del proprio rapporto di lavoro, rivolgendosi ad apposite Commissioni, giurando che il proprio rapporto di lavoro si svolge davvero coerentemente con la tipologia contrattuale prescelta e non nasconde, invece, un ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Più precisamente, alla certificazione possono ricorrere i titolari di un contratto di lavoro intermittente, di lavoro ripartito, di lavoro a tempo parziale, di lavoro a progetto e di associazione in partecipazione. Inoltre, è ammessa la procedura di certificazione per i contratti di appalto anche ai fini della concreta distinzione dalla somministrazione di lavoro. L'autorità dotata del potere certificatorio può essere un ente bilaterale, la Direzione provinciale del lavoro, una Provincia e le Università. La procedura deve concludersi entro il termine di trenta giorni dalla presentazione dell'istanza.

L'atto di certificazione deve essere motivato e contenere, tra l'altro, il termine e l'autorità cui è possibile ricorrere nei confronti della certificazione stessa. Infatti, nei confronti della certificazione può essere impugnata avanti il Giudice del Lavoro, ad opera delle stesse parti o di un terzo, nella cui sfera giuridica l'atto impugnato produca effetti. Tuttavia, l'impugnazione giudiziale è ammessa solo per alcuni motivi, indicati dal legislatore delegato: ciò infatti può accadere per il caso in cui il rapporto si svolga, di fatto, in maniera diversa da come è stato certificato, o per erronea qualificazione del contratto, o per un vizio del consenso (quindi quando qualcuno sia stato indotto alla certificazione per violenza, errore, dolo). In questo caso, il preventivo tentativo obbligatorio di conciliazione deve essere effettuato davanti alla commissione di certificazione che ha adottato l'atto di certificazione. L'atto di certificazione può essere impugnato anche davanti al Tribunale Amministrativo Regionale per violazione del procedimento o per eccesso di potere.

Nonostante le finalità dichiarate dal legislatore delegato si deve ritenere che, in realtà, la certificazione avrà la sola conseguenza di aumentare i ricatti ai danni del lavoratore. Infatti, si può scommettere che, d'ora in poi, il datore di lavoro subordinerà l'assunzione di un lavoratore atipico, o la stipulazione di un contratto a progetto, alla contestuale certificazione e, ovviamente, se il lavoratore rifiuterà, non si darà corso al rapporto di lavoro.

La certificazione presenta notevoli vantaggi per i lavoratori e per le aziende in quanto la Commissione, costituita da soggetti altamente qualificati, assiste attivamente le parti nella redazione del contratto e ne verifica e convalida la regolarità formale e sostanziale, qualunque sia il modello contrattuale prescelto dalle parti (lavoro autonomo, subordinato, coordinato, ecc.). Con la certificazione, quindi, le parti sono sicure della “qualità” dei contratti stipulati.

Gli effetti della certificazione sono importanti, oltre che sul piano della certezza del diritto, anche su quello della resistenza del contratto in caso di controversia, in quanto la certificazione dispiega i propri effetti verso i terzi (enti previdenziali compresi) e previene il contenzioso giudiziale in materia di qualificazione del rapporto.

Come tutte le forme di certificazione, anche la certificazione dei contratti di lavoro e di appalto ha un’importante valenza in termini di responsabilità sociale d’impresa e presenta indubbi riflessi positivi nei rapporti dell’azienda sia con i propri lavoratori sia con i propri interlocutori (clienti, fornitori, istituzioni, istituti di credito, ecc.).

Le Commissioni di certificazione hanno il potere di svolgere:
a. attività di consulenza e assistenza alle parti contrattuali sia al momento della stipulazione del contratto di lavoro sia, successivamente, per eventuali modifiche concordate in sede di attuazione del rapporto;
b. attività di certificazione di tutti i contratti in cui sia dedotta, direttamente o indirettamente, una prestazione di lavoro.
c. attività di conciliazione delle controversie ai sensi dell'articolo 410 c.p.c.

Gli effetti del provvedimento di certificazione permangono, anche nei confronti dei terzi, fino al momento in cui sia stato accolto, con sentenza di merito, un eventuale ricorso giurisdizionale. Nei confronti dell’atto di certificazione, sia le parti che i terzi che ne abbiano interesse possono proporre ricorso giurisdizionale soltanto per vizi del consenso, per erronea qualificazione del rapporto o per difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione. Il ricorso al giudice ordinario deve obbligatoriamente essere preceduto da un tentativo di conciliazione da svolgersi avanti alla commissione che ha certificato l’atto.



sabato 8 novembre 2014

Associazione in partecipazione quando è richiesta la forma scritta del contratto di lavoro



La stipulazione del contratto di associazione in partecipazione non è soggetta a forme particolari e non è prevista pertanto la forma scritta.

Per il versamento dei contributi i gli associati devono iscriversi alla Gestione Separata Inps.
La contribuzione è posta per 55% a carico dell’associante e per 45% a carico dell’associato. Le aliquote per l’anno 2014 sono:

- 22% per i soggetti iscritti anche ad altra gestione
- 28,72% per i soggetti privi di altra copertura previdenziale.

E’ prevista una nuova procedura finalizzata alla stabilizzazione degli associati.

Accordo tra datore di lavoro e sindacati. Vengono trasformati in contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato e di apprendistato.

La procedura si concluderà il 31.07.2014 presso INPS

L’associazione in partecipazione è un contratto che lega un imprenditore (detto “associante”) con uno o più lavoratori (detti “associati”) con il quale questi si impegnano a fornire la loro attività lavorativa all’interno dell’impresa, ricevendo (al posto di uno stipendio, come invece generalmente accade nei rapporti di lavoro) come retribuzione il diritto di ottenere una parte degli utili della ditta. Va detto, per completezza, che il contributo degli associati può anche non consistere in un’attività lavorativa, come ad esempio quando si fornisce della strumentazione o delle somme di denaro a titolo di capitale Il lavoratore-associato si assume in questo caso una parte del c.d. rischio di impresa, ovverosia il rischio che l’imprenditore affronta e che consiste nella possibilità che l’attività non produca utili.

Nel caso in cui il contributo dell’associato sia una prestazione di lavoro la legge stabilisce limiti molto precisi. In queste ipotesi, infatti, l’associazione in partecipazione potrebbe essere utilizzata per aggirare le norme che tutelano il lavoro subordinato. Il codice civile quindi stabilisce in questo caso che il numero degli associati in partecipazione non può essere superiore a tre, anche nell’ipotesi in cui gli imprenditori-associanti siano più di uno. Questo limite non vale quando i lavoratori sono legati all’associante da un rapporto:

coniugale (ovverosia quando sono il marito o la moglie dell’associante);

di parentela fino al terzo grado;

di affinità fino al secondo grado (l’affinità è il rapporto che lega una persona ai parenti della propria moglie o del proprio marito).

Se il limite numerico viene violato allora il rapporto con i lavoratori-associati viene considerato a tutti gli effetti come un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Per principio generale la forma del contratto di lavoro è libera, non essendo previste particolari modalità di manifestazione del consenso. In particolari ipotesi, però, la legge richiede la forma scritta del contratto di lavoro o di alcune clausole dello stesso.

E’ richiesta la forma scritti a fini sostanziali per:
a) l’apposizione di un termine finale al rapporto di lavoro: la mancanza determina la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato;
b) il contratto di lavoro con un’agenzia di somministrazione: la mancanza determina l’instaurazione di un ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con l’impresa utilizzatrice;
c) il contratto di apprendistato: la mancanza determina la conversione del rapporto in un ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

d) il contratto di inserimento: la mancanza determina la conversione del rapporto in un ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato;
e) la determinazione del periodo di prova: la mancanza determina la non sussistenza del periodo di prova.

E’ invece richiesta la forma scritta a fini probatori:
a) per tutte le tipologie di lavoro flessibile, quali il lavoro ripartito, il lavoro intermittente ed il lavoro a progetto;
b) per il lavoro a tempo parziale.

La mancanza della forma scritta a fini probatori, non determina automaticamente la conversione del rapporto in un ordinario rapporto di lavoro subordinato; la reale natura del rapporto potrà essere dimostrata con altri mezzi di prova ad esclusione della prova testimoniale, che potrà essere richiesta solo se l’interessato dimostri che il documento scritto sia andato perduto non per propria colpa.

L’elemento idoneo a caratterizzare il rapporto di lavoro subordinato ed a differenziarlo da altri tipi di rapporto è l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, tenendo presente che deve manifestarsi in ordini specifici, reiterati ed intrinsecamente inerenti alla prestazione lavorativa e che il potere organizzativo non può esplicarsi in un semplice coordinamento ma deve manifestarsi in un effettivo inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale.”



Associazione in partecipazione e la lettera di assunzione



La lettera di assunzione è il documento che consente di individuare con certezza gli elementi essenziali che caratterizzano il rapporto di lavoro. Tale lettera, che ai sensi dell’art. 4bis comma 2 D.Lgs. n. 181/00 deve essere consegnata al lavoratore al momento dell’assunzione, deve contenere le condizioni di lavoro applicate al rapporto, di cui all’art. 1 comma 1 D.Lgs. n. 152/97, ovvero: a) l’identità delle parti; b) il luogo di lavoro; c) la data di inizio del rapporto di lavoro; d) la durata del rapporto di lavoro, precisando se si tratta di rapporto di lavoro a tempo determinato o indeterminato; e) la durata del periodo di prova se previsto; f) l’inquadramento, il livello e la qualifica attribuiti al lavoratore, oppure le caratteristiche o la descrizione sommaria del lavoro; g) l’importo iniziale della retribuzione e i relativi elementi costitutivi, con l’indicazione del periodo di pagamento; h) la durata delle ferie retribuite cui ha diritto il lavoratore o le modalità dei determinazione e di fruizione delle ferie; i) l’orario di lavoro; l) i termini di preavviso in caso di recesso.

L’informazione circa le indicazioni di cui alle lettere e), g), h), i) ed l) può essere effettuata mediante il rinvio alle norme del contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro.

In ordine alla distinzione tra contratto di associazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato e contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili d’impresa, la giurisprudenza ha ritenuto riconducibile al primo caso la fattispecie in cui sussista l’obbligo del rendiconto periodico da parte dell’associante e l’esistenza per l’associato di un rischio d’impresa, seppur limitato.

Rientrano invece nel secondo caso le situazioni in cui sussiste un effettivo vincolo di subordinazione più ampio del generico potere dell’associante d’impartire direttive ed istruzioni al cointeressato. Per cogliere la prevalenza, secondo una sentenza della Cassazione del 2011, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti è necessaria un’indagine del giudice di merito che porti ad una valutazione complessiva e comparativa dell’assetto negoziale, quale voluto dalle parti e quale in concreto posto in essere.

L’art. 1 comma 31 della legge n. 92 del 2012 ha abrogato anche l’art. 86 comma 2 del Decreto Legislativo n. 276 del 2003 che, ai fini di evitare fenomeni elusivi della disciplina di legge sull’associazione in partecipazione e della disciplina dei contratti collettivi, prevedeva: “in caso di rapporti di associazione in partecipazione resi senza una effettiva partecipazione e adeguate erogazioni a chi lavora, il lavoratore ha diritto ai trattamenti contributivi, economici e normativi stabiliti dalla legge e dai contratti collettivi per il lavoro subordinato svolto nella posizione corrispondente del medesimo settore di attività, o in mancanza di contratto collettivo, in una corrispondente posizione secondo il contratto di settore analogo, a meno che il datore di lavoro, o committente, o altrimenti utilizzatore non comprovi, con idonee attestazioni o documentazioni, che la prestazione rientra in una delle tipologie di lavoro disciplinate nel presente decreto ovvero in un contratto di lavoro subordinato speciale o con particolare disciplina, o in un contratto nominato di lavoro autonomo, o in altro contratto espressamente previsto nell’ordinamento”.

L’aliquota contributiva pari a quella delle collaborazioni a progetto. Un ulteriore novità riguarda l’impatto del costo del lavoro nelle associazioni. Viene elevata l’aliquota contributiva per la gestione separata Inps nella stessa misura delle collaborazioni a progetto, ossia il 27,72%.


Età minima per lavorare con l’associazione in partecipazione



L'associazione in partecipazione è una tipologia di lavoro autonomo con cui il lavoratore (associato) partecipa agli utili dell’impresa (associante) e ottiene un’adeguata erogazione di  compenso per un tipo di prestazione lavorativa può essere la più varia.

Il contratto di associazione in partecipazione non richiede una forma particolare e può essere stipulato a tempo determinato o indeterminato.

Per evitare rapporti elusivi della normativa opera la presunzione legale di rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato in questi due casi:
(N.B. Viene precisato che tale presunzione opera nel caso in cui l'apporto di lavoro non presenti i requisiti della collaborazione con Partita IVA)
Il lavoro dei ragazzi (i minori che non hanno compiuto i 15 anni) e degli adolescenti (persone di età compresa tra i 15 e i 18 anni compiuti) è disciplinato e tutelato dalla L. 17/10/67 n. 977.

La regola generale posta dalla legge è che la età minima per la ammissione al lavoro, anche per gli apprendisti, è di 15 anni compiuti. Tuttavia questa regola incontra alcune eccezioni: in agricoltura e nei servizi familiari, l'età minima per l'ammissione al lavoro è di 14 anni compiuti, purché ciò sia compatibile con la tutela della salute del minore e non comporti la trasgressione dell'obbligo scolastico; nelle attività non industriali, i fanciulli di età non inferiore a 14 anni compiuti possono essere ammessi a lavori leggeri (meglio precisati nel DPR 4/1/71 n. 36), che siano compatibili con la tutela della salute, non comportino trasgressione all'obbligo scolastico e sempre che il minore non sia adibito a lavoro notturno e festivo.

E' prevista una deroga anche per la preparazione o rappresentazione di spettacoli o riprese cinematografiche. In questo caso, l'ispettorato provinciale del lavoro, su conforme parere del prefetto e previo assenso scritto del genitore o tutore, può autorizzare l'ammissione al lavoro dei minori di età inferiore ai 15 anni e fino al compimento dei 18, sempre che il lavoro non sia pericoloso e non si protragga oltre le ore 24. Il rilascio di tale autorizzazione è subordinato all'esistenza di tutte le condizioni necessarie ad assicurare la salute fisica e la moralità del minore, nonché l'osservanza dell'eventuale obbligo scolastico. In ogni caso, il fanciullo o adolescente, dopo l'impegno in tali rappresentazioni, dovrà godere di un riposo di almeno 14 ore consecutive.

La legge appronta particolari tutele a favore dei fanciulli e adolescenti che siano impiegati al lavoro. In particolare, i minori di 16 anni non possono essere adibiti ai lavori pericolosi, insalubri e faticosi, precisati dal DPR 20/1/76 n. 432 (in ogni caso, la legge stessa pone precisi limiti in ordine al sollevamento e trasporto di pesi da parte dei fanciulli e degli adolescenti); è vietato adibire i fanciulli e gli adolescenti a lavori sotterranei in miniere o cave o gallerie, nonché alla somministrazione di bevande alcooliche. L'ammissione al lavoro deve essere preceduta da una visita medica che certifichi l'idoneità del minore al lavoro cui sarà adibito. La legge prevede infine un particolare trattamento di salvaguardia in tema di ferie, orario di lavoro, lavoro notturno, riposo settimanale. La violazione delle norme della legge 977 comporta l'inflizione di sanzioni penali, peraltro modeste.

L’Art. 2549 del codice civile disciplina l’associazione in partecipazione: “Con il contratto di associazione in partecipazione (att. 219) l`associante attribuisce all`associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto”.

L’apporto può essere costituito anche da prestazioni di lavoro rese dall’associato nei confronti dell’associazione. Più precisamente, trattasi di attività lavorativa in forma autonoma. Ma essa che può  avere connotazioni del tutto analoghe alle prestazioni di lavoro rese in regime di lavoro subordinato (quindi ad esempio il rispetto di orari di lavoro).

Proprio per questo sottile limite tra lavoro subordinato e queste prestazioni di lavoro rese dall’associato nei confronti dell’associazione come apporto, secondo l’art. 2459 del codice civile, che è intervenuta la legge Fornero introducendo alcuni importanti limiti, nel tentativo di contrastare l’utilizzo improprio dell’associazione in partecipazione.

Qualora l’apporto dell’associato consista anche in una prestazione di lavoro, il numero degli associati impegnati in una medesima attività non può essere superiore a tre, indipendentemente dal numero degli associanti, con l’unica eccezione nel caso in cui gli associati siano legati all’associante da rapporto coniugale, di parentela entro il terzo grado o di affinità entro il secondo. In caso di violazione del divieto di cui al presente comma, il rapporto con tutti gli associati il cui apporto consiste anche in una prestazione di lavoro si considera di lavoro subordinato a tempo indeterminato”.

Il limite di tre associati è nell’apporto di lavoro nella “medesima attività”, che è da intendersi come tipologia di attività, indipendentemente dal luogo in cui viene resa. Ne consegue che qualora un’azienda svolga la sua attività in più unità produttive, la medesima attività è da riferire nella totalità delle unità produttive e non in riferimento ad una sola. Quindi gli associati che apportano lavoro devono essere tre in tutte le unità. Inoltre la norma precisa che il limite di tre associati si applica “indipendentemente dal numero degli associanti”.

Qualora il conferimento dell'associato consista anche in una prestazione di lavoro, il numero degli associati impegnati in una medesima attività non possa essere superiore a tre, indipendentemente dal numero degli associanti (a meno che gli associati siano legati da  rapporto coniugale, di parentela entro il terzo grado o di affinità entro il secondo). Il limite non opera in assenza di apporto di lavoro e qualora l’associato è un soggetto imprenditore.

Eccezione: il limite dei tre associati non si applica nei seguenti casi:
• alle imprese a scopo mutualistico;
• agli associati individuati mediante elezione dall'organo assembleare di cui all'articolo 2540, il cui contratto sia certificato; I rapporti di associazione in partecipazione con  apporto di lavoro, instaurati o attuati senza che vi sia stata un'effettiva partecipazione dell'associato agli utili dell'impresa o dell'affare, o senza consegna del  rendiconto, si presumono, salva prova contraria, rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Che cosa è l’associazione in partecipazione?



L'associazione in partecipazione è una particolare forma di contratto relativo al mondo dell'impresa con il quale un imprenditore (che viene detto appunto "associante") si accorda con uno o più soggetti (che vengono detti "associati") che svolgono la propria attività lavorativa e vengono ricompensati con una partecipazione agli utili dell'impresa. L'utilizzo di questo tipo di contratto offre dei vantaggi in termini di flessibilità ed è molto redditizio nel momento in cui l'impresa ottiene un utile. Diventa invece problematico nei casi in cui l'attività sia in perdita perché in questo caso il lavoratore associato può essere chiamato a rispondere delle passività.

L’associazione in partecipazione, disciplinata dagli artt. 2549-2554 del codice civile, è un contratto con il quale un imprenditore (detto associante) attribuisce ad un altro soggetto (detto associato) la partecipazione agli utili dell’impresa o di uno o più affari, verso il corrispettivo di un determinato apporto che l’opinione dominante assume possa consistere anche in una prestazione di lavoro.

L’associante rimane, dunque, titolare dell’impresa, e come tale è l’unico soggetto a cui siano riferibili i rapporti giuridici (debiti – crediti) nei confronti dei terzi, mentre nei rapporti interni (tra associante ed associato), in linea di principio e salvo patto contrario, l’associato si assume il rischio di impresa. In buona sostanza quest’ultimo partecipa, di regola, tanto alle perdite quanto agli utili, sebbene le perdite non possano superare il suo apporto (art. 2553 c.c.).

Inoltre, sempre fatto salvo il patto contrario, l’associante non può attribuire partecipazioni per la stessa impresa (o per lo stesso affare) ad altre persone senza il consenso del precedente associato (art. 2550 c.c.). Tale disposizione si giustifica con l’esigenza di tutela dell’associato, in quanto una nuova partecipazione potrebbe determinare una riduzione degli utili a lui spettanti. Sempre in tale ottica può essere previsto, convenzionalmente, il potere di controllo, sulla gestione dell’impresa o sullo svolgimento dell’affare per cui l’associazione è stata contratta, da parte dell’associato (2° comma dell’art. 2552 c.c.). A quest’ultimo, in ogni caso, è attribuito il diritto (3° comma dell’art. 2552 c.c.) al rendiconto annuale, ovvero al rendiconto finale sull’affare compiuto.

Per evitare fenomeni elusivi, la tradizionale disciplina codicistica è stata integrata da altri interventi normativi successivi.

In principio, è stato introdotto l’art. 86 (2° comma) del D.Lgs. 276/03, secondo il quale il contratto di associazione in partecipazione è invalido quando manchino un’effettiva partecipazione ed adeguate erogazioni a chi lavora. In tali casi, il lavoratore ha diritto ai trattamenti contributivi, economici e normativi stabiliti dalla legge e dai contratti collettivi per il lavoro subordinato svolto nella posizione corrispondente del medesimo settore di attività, a meno che il datore di lavoro, o committente, o altrimenti utilizzatore non comprovi che la prestazione rientra in una tipologie di lavoro disciplinate nel D.Lgs. 276/03 ovvero in un contratto di lavoro subordinato speciale o con particolare disciplina, o in un contratto nominato di lavoro autonomo, o in altro contratto espressamente previsto nell’ordinamento.

Tale norma, tuttavia, ha da subito suscitato perplessità negli interpreti. Pertanto, è stata abrogata dalla legge 92/2012 di riforma del lavoro, che ha, altresì, introdotto alcune norme aventi lo scopo di ridurre al minimo il rischio di utilizzo abusivo della fattispecie contrattuale in esame.

La riforma del 2012 è, infatti, intervenuta su due diversi fronti.

In primo luogo, ha stabilito che si presumono rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato tutti i rapporti associativi instaurati o attuati senza che vi sia stata un’effettiva partecipazione dell’associato agli utili dell’impresa o dell’affare ovvero senza consegna del rendiconto relativo all’affare compiuto o all’anno di gestione trascorso.

In secondo luogo, ha stabilito che quando l’apporto conferito alla società consiste anche in una prestazione di lavoro, non possono esserci più di tre associati in partecipazione (salvi i familiari entro il terzo grado), pena la conversione in rapporto di lavoro subordinato per tutti gli associati.

Infine, sempre a scopo antielusivo, la legge 92/2012 ha esteso l’applicazione del nuovo art. 69 bis d. lgs. 276/2003 anche all’associazione in partecipazione: la norma citata (introdotta dalla stessa riforma) prevede che tale forma di collaborazione debba essere considerata come collaborazione coordinata e continuativa (con conseguente applicazione della disciplina relativa al contratto a progetto) quando ricorrono le seguenti condizioni:

la collaborazione per uno stesso committente sia durata almeno 8 mesi nell’ambito dello stesso anno solare;

oltre l’80% del fatturato del collaboratore nell’arco di un anno solare derivi da uno stesso committente;
il collaboratore deve avere la disponibilità di una postazione fissa presso il committente.

In sostanza, quando ricorrono due dei presupposti appena elencati, il rapporto – anziché di associazione in partecipazione- deve essere riqualificato come rapporto di collaborazione a progetto. Ad esso, dovrà essere pertanto applicata la disciplina prevista dagli artt. 61 e ss del d. lgs. 276/2003, compreso il prelievo contributivo e la disciplina sanzionatoria nel caso in cui il contratto non sia conforme al progetto legale.

Vi sono dei casi in cui l’utilizzo del contratto di associazione in partecipazione può mascherare il tentativo di aggirare la disciplina propria del lavoro subordinato.

Per questi motivi, come abbiamo già visto, la legge stabilisce che, quando l’apporto degli associati consiste in un’attività lavorativa, il numero degli associati non può essere superiore a tre, diversamente il rapporto si tramuta in un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Ma la recente riforma Fornero, attuata con la legge n. 92 del 2012, ha previsto altre ipotesi in cui si presume che il rapporto di partecipazione in associazione sia in realtà un rapporto di lavoro subordinato.

Si tratta dei casi in cui:
in concreto all’esecuzione del rapporto di lavoro non segue un’effettiva partecipazione agli utili (e quindi di fatto il lavoratore riceve una retribuzione del tutto simile allo stipendio di un dipendente);

l’attività lavorativa non viene seguita dal rendiconto da parte dell’imprenditore-associante;

l’attività svolta dall’associato non ha le caratteristiche proprie di un’attività da lavoro autonomo (e quindi presenta i connotati tipici di un rapporto di lavoro subordinato).

Ciò significa che in questi casi si presume fino a prova contraria che il rapporto tra associato e associante sia un rapporto di lavoro subordinato a tutti gli effetti con tutte le conseguenze del caso sia sotto l’aspetto retributivo e contributivo, sia dal punto di vista della disciplina (orario, mansioni, licenziamento ecc.).

Una importante novità è stata introdotta dal cd. decreto lavoro d.l. n. 76/2013: anche le dimissioni dei lavoratori associati sono assoggettate al procedimento di cui alla legge Fornero.

La legge di conversione del D.L. n. 76/2013 (Legge 9 agosto 2013, n. 99) ha previsto degli strumenti per facilitare l’assorbimento con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dei lavoratori assunti in precedenza con contratto di associazione in partecipazione e per disincentivare gli abusi collegati all’utilizzo di questa particolare forma contrattuale.

Vi è la possibilità di stipulare degli specifici contratti collettivi che prevedono appunto queste assunzioni entro tre mesi dalla data di stipulazione del contratto.

L’assunzione, in questo caso, può avvenire anche con un contratto di apprendistato. Si prevede peraltro che nei 6 mesi successivi alle assunzioni il datore di lavoro non può recedere dal rapporto di lavoro a meno che non sussistano una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo di licenziamento.

All’atto dell’assunzione le parti sottoscrivono un atto di conciliazione sullo schema della conciliazione prevista per il processo del lavoro e tale atto viene depositato, assieme al contratto di lavoro subordinato, nelle competenti sedi INPS.

L’atto di conciliazione, tuttavia, è efficace soltanto se il datore di lavoro versa alla gestione separata una somma pari al 5% della quota di contribuzione a carico degli associati per i periodi di vigenza dei contratti di associazione in partecipazione e comunque per un periodo non superiore a sei mesi, riferito a ciascun lavoratore assunto a tempo indeterminato.

Sulle somme di partecipazione agli utili che l’associato riceve, si applicano la ritenute fiscali:
nel caso in cui l’associato fornisca un contributo in termini di attività lavorativa si applica una ritenuta del 20%
nel caso in cui l’associato fornisca un contributo in termini capitale (ad esempio fornisce dei macchinari, delle somme di denaro ecc) si applica una ritenuta del 12,50%.



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