lunedì 23 gennaio 2017
Cessione ramo d'azienda e demansionamento
Ancora sentenza della Corte di Cassazione conferma: l’onere della prova del demansionamento grava sul lavoratore. Nel caso specifico la sentenza n. 1778/2017 ha analizzato un caso di modifica delle mansioni in occasione di una cessione di ramo d’azienda. Nella fattispecie, l’assegnazione di diversa attività aveva riguardato l’intero personale. Tuttavia, per ottenere un risarcimento, è il singolo lavoratore a dover dimostrare l’effettiva presenza dei presupposti di demansionamento, così da ottenere il risarcimento del relativo danno.
In materia di cessione del ramo d'azienda, la Corte di Cassazione ha chiarito che la stessa deve considerarsi operante qualora, oltre al profilo dipendente, lo stesso riguardi anche i beni materiali. Nello specifico la Suprema Corte, con la Sentenza n. 1316 del 19 gennaio 2017, ha precisato che ai fini dell'operatività del trasferimento/cessione del ramo d'azienda risulta necessario che lo stesso interessi, oltre al profilo dipendente, anche i beni materiali che risultino essenziali e necessari per lo svolgimento dell'attività ceduta. Diversamente non può considerarsi operante l'istituto in parola, cosi? come definito dall'art. 2112 c.c.
Nello specifico caso, dunque, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso del lavoratore in quanto non verificabile il danno professionale lamentato, né il preteso danno alla salute. Nella sentenza, la Corte ricorda comunque che:
“È indubbio che l’assegnazione a mansioni inferiori rappresenti fatto potenzialmente idoneo a produrre una pluralità di conseguenze dannose, sia di natura patrimoniale che di natura non patrimoniale. Ed infatti, l’inadempimento datoriale può comportare un danno da perdita della professionalità di contenuto patrimoniale che può consistere sia nell’impoverimento della capacità professionale del lavoratore e nella mancata acquisizione di un maggior saper fare, sia nel pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali
Ed inoltre, il demansionamento è potenzialmente idoneo a pregiudicare beni di natura immateriale, anche ulteriori rispetto alla salute, atteso che, nella disciplina del rapporto di lavoro, numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata del lavoratore, con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, con la configurabilità di una danno non patrimoniale risarcibile ogni qual volta vengano violati, superando il confine dei sacrifici tollerabili, diritti della persona del lavoratore oggetto di peculiare tutela al più alto livello delle fonti: particolare rilievo assumendo, a questo proposito, la dignità personale del lavoratore che costituisce diritto Corte di Cassazione – copia non ufficiale inviolabile, a norma degli artt. 2, 4 e 32 Cost.
Sicché, la lesione di tale diritto, rappresentata dai pregiudizi alla professionalità da dequalificazione che si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall’impresa, ha attitudine generatrice di danni a contenuto non patrimoniale, in quanto idonea ad alterare la normalità delle relazioni del lavoratore con il contesto aziendale in cui opera, del cittadino con la società in cui vive, dell’uomo con se stesso (Cass. 12 giugno 2015, n. 12253)”.
Tuttavia, chiarita l’astratta potenzialità lesiva dell’assegnazione a mansioni inferiori ad opera del datore di lavoro, i giudici Supremi precisano che:
“La produzione di siffatti pregiudizi è soltanto eventuale, non derivando automaticamente dall’inadempimento datoriale l’esistenza di un danno solo in ragione della potenzialità lesiva dell’atto illegittimo: e pertanto esso non è ravvisabile in re ipsa, ma esige una specifica allegazione dell’esistenza di un pregiudizio, sicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore l’onere di fornire la prova del danno e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale (Cass. s.u. 24 marzo 2006, n. 6572; Cass. 30 settembre 2009, n. 20980; Cass. 26 gennaio 2015, n. 1327).
Il che non esclude che, ferma la dimostrazione del danno da demansionamento in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, la prova possa avvenire anche per presunzioni, per la quale dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionannento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (Cass. 19 settembre 2014, n. 19778; Cass. 10 aprile 2010, n. 8893): purchè, si intende, oggetto di specifica allegazione dal lavoratore (Cass. 23 settembre 2016, n. 18717)”.
Ricordiamo che con sentenza n. 21711, la Cassazione ha precisato che il trasferimento a un altro datore di lavoro di una serie di contratti di lavoro eterogenei, rappresenta cessione di ramo d'azienda solo se prima del negozio tra cedente e cessionario questi contratti configuravano una vera e propria struttura aziendale con autonomia funzionale e produttiva: in mancanza di questi elementi, il trasferimento è una mera esternalizzazione.
La Cassazione, ha inoltre ribadito la natura di retribuzione differita del Tfr, sostiene che in caso di cessione di ramo di azienda assoggettata al regime previsto dall'articolo 2112 del Codice civile, il datore di lavoro cedente rimane obbligato nei confronti del lavoratore suo dipendente, il cui rapporto prosegua con il datore di lavoro cessionario, per la quota di trattamento di fine rapporto maturata durante il periodo di rapporto con lui svolto e calcolato fino alla data del trasferimento d'azienda. Viceversa, il datore di lavoro cessionario è obbligato per questa stessa quota soltanto in ragione e nei limiti del vincolo di solidarietà previsto dall'articolo 2112, comma 2. Infine, conclude l'estensore, quest'ultimo, come datore di lavoro cessionario, è l'unico obbligato al trattamento di fine rapporto quanto alla quota maturata nel periodo del rapporto intercorso dopo il trasferimento di azienda.
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sabato 21 gennaio 2017
Licenziamento per il dirigente di imprese commerciali
Le nuove norme si applicheranno dal 1° settembre 2016:
Salva l’ipotesi di licenziamento per giusta causa, in caso di recesso, comunicato a far data dall’1/9/2016, da parte del datore di lavoro dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, superato il periodo di prova, è dovuto al dirigente un preavviso, in relazione all’anzianità di servizio globalmente prestato nell’azienda, in qualsiasi qualifica, pari a:
– 6 mesi: fino a quattro anni di servizio;
– 8 mesi: da quattro fino a dieci anni di servizio;
– 10 mesi: da dieci fino a quindici anni di servizio;
– 12 mesi: oltre i quindici anni di servizio.
Per giustificato motivo, al dirigente deve essere concessa una aspettativa fino a 6 mesi, con facoltà del datore di lavoro di non corrispondere, in tutto o in parte, la retribuzione. In caso di malattia, il dirigente ha diritto alla conservazione del posto e alla retribuzione, per 12 mesi ; successivamente, può essere chiesta l'aspettativa di cui si è detto. In caso di infortunio per causa di servizio, il posto di lavoro deve essere conservato fino all'accertata guarigione, e la retribuzione deve essere corrisposta per non più di 30 mesi. Inoltre, il datore di lavoro deve stipulare una polizza contro gli infortuni e deve contribuire, insieme al lavoratore, a forme di previdenza e assistenza sanitaria integrative.
Il licenziamento e le dimissioni devono essere comunicate per iscritto. Mancando una giusta causa, chi recede deve rispettare i termini di preavviso (da 2 a 4 mesi, a seconda dell'anzianità, in caso di dimissioni ; da 6 a 12 mesi in caso di licenziamento). Il licenziamento deve essere contestualmente motivato: in caso contrario, al dirigente spetta l'indennità supplementare (da un minimo corrispondente all'indennità sostitutiva del preavviso dovuto in caso di licenziamento ad un massimo pari ad una somma corrispondente a 18 mesi di preavviso). Come a tutti i dirigenti, anche a quelli che lavorano presso un’impresa commerciale, è ora esplicitamente applicabile la tutela che prevede il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, nonché l’integrale risarcimento del danno) prevista dal nuovo art. 18 S.L., qualora si tratti di un licenziamento discriminatorio.
Dimettendosi per giusta causa, il dirigente ha diritto all'indennità sostitutiva del preavviso che gli sarebbe dovuta in caso di licenziamento, nonché ad un'indennità supplementare pari a 1/3 del preavviso. Sono previste alcune ipotesi esemplificative di dimissioni per giusta causa : la mancata accettazione del trasferimento da un'unità produttiva ad un'altra ; la mancata accettazione del trasferimento di proprietà dell'azienda ; la dequalificazione; le dimissioni dovute a maternità o a matrimonio. Solo nel primo tra i casi citati spetta, oltre all'indennità sostitutiva del preavviso, anche l'indennità supplementare. Inoltre, il dirigente ha l'onere di richiamare espressamente la causa delle dimissioni e di rassegnarle entro un termine perentoriamente stabilito.
In linea generale, il dirigente d'azienda non è tutelato dalla legislazione che limita il potere di licenziamento: il datore di lavoro che intenda licenziare un dirigente può omettere di addurre alcuna motivazione, nel qual caso il dirigente potrà rivendicare esclusivamente l'indennità sostitutiva del preavviso. Se invece il datore di lavoro adducesse una giusta causa di licenziamento, il dirigente licenziato perderebbe anche il diritto a tale indennità. In ogni caso, il licenziamento deve avvenire per iscritto: in questo senso dispone la L. 108/90 che ha modificato, anche sul punto, la previgente legislazione sui licenziamenti.
Tuttavia, la lacuna legislativa è, di regola, colmata dalla contrattazione collettiva, che impone al datore di lavoro l'obbligo di giustificare il licenziamento del dirigente. Tuttavia, la conseguenza del licenziamento ingiustificato non è la reintegrazione nel posto di lavoro, come avviene per gli altri lavoratori delle imprese medio - grandi, ma solo la corresponsione di una somma di denaro (cosiddetta indennità supplementare). Questa è l'ipotesi prevista per esempio dal contratto dei dirigenti industriali e dei dirigenti commerciali, che quantificano l'indennità tra un minimo e un massimo (per i dirigenti industriali, il minimo è pari al preavviso maggiorato di due mensilità, mentre il massimo corrisponde a ventidue mensilità di preavviso).
Nel caso in cui il dirigente intenda contestare il licenziamento, deve senz'altro ricorrere al tribunale del lavoro nel caso di licenziamento per pretesa giusta causa: in altre parole, il tribunale è sicuramente competente in ordine all'eventuale diritto all'indennità sostitutiva del preavviso. Invece, con riguardo al diritto all'indennità supplementare, sono stati sollevati dubbi circa la competenza del tribunale, poiché i contratti collettivi sopra citati riservano ad un apposito collegio di conciliazione e arbitrato il compito di quantificare la somma di denaro dovuta per il caso di licenziamento ingiustificato. Conseguentemente, era stata affacciata l'ipotesi che il diritto alla indennità in questione potesse essere riconosciuta solo da tale collegio.
Fermo restando tale risarcimento, il lavoratore ha, comunque, la possibilità- entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza- di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro.
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I diritti di un dirigente di imprese commerciali
In forza del CCNL dei dirigenti commerciali, il dirigente ha diritto ad una retribuzione composta dal minimo contrattuale (per il neo-assunto, € 3.000,00), dagli scatti di anzianità (€ 129.11 mensili al compimento di ogni biennio di anzianità, con un massimo di 11 bienni) e, per i dirigenti assunti o nominati fino alla data del 30/6/95 dall'elemento di maggiorazione (12% degli elementi della retribuzione utili per il calcolo del TFR).
Nei mesi di dicembre e di giugno di ogni anno il dirigente ha diritto a mensilità supplementari. Al dirigente spettano 4 giorni di permesso retribuito in sostituzione delle festività abolite, e 30 giorni di ferie (nel periodo di ferie non vanno computate le domeniche e le festività).
E’ stata sottoscritta il 21 luglio del 2016, tra Confcommercio e Manageritalia, l’ipotesi di accordo per il rinnovo del CCNL 31/7/2013 e successive modificazioni, per i dirigenti di aziende commerciali, della distribuzione e dei servizi- - L’accordo che decorre dall’1/1/2015 e scadrà il 31/12/2018, avrà piena vigenza a seguito dell’approvazione da parte degli Organismi Direttivi delle parti contraenti.
Aumento retributivo
Fermo restando il minimo contrattuale previsto all’art. 5 del CCNL e pari a Euro 3.890,00, ai dirigenti compete, sulla retribuzione di fatto, un aumento pari a euro 80,00 mensili lordi dall’1/1/2017, un aumento pari a euro 100,00 mensili lordi dall’1/1/2018 e un aumento pari a euro 170,00 mensili lordi dall’1/12/2018.
Malattia
Il periodo di comporto per i dirigenti non in prova con il nuovo accordo passa da 12 mesi a 240 giorni in un anno solare, mentre viene introdotto l’art. 188/Bis che al contrario, prevede un prolungamento del periodo di comporto nei confronti dei dirigenti ammalati in caso di patologia grave e continuativa che comporti terapie salvavita, periodicamente documentata da specialisti del Servizio Sanitario Nazionale, a richiesta del dirigente, per un ulteriore periodo non superiore a complessivi 180 giorni e alla condizione che siano esibiti dal dirigente i predetti certificati medici.
Durante il periodo di cui al comma precedente al dirigente verrà corrisposta l’intera retribuzione ed in caso di risoluzione del rapporto alla scadenza del termine allo stesso sarà dovuta . oltre al trattamento di fine rapporto, anche l’indennità sostitutiva del preavviso di cui al successivo art. 39. comma 5.
Le citate previsioni entrano in vigore dalla data di sottoscrizione del presente accordo ma per i dirigenti che alla data di sottoscrizione del presente accordo abbiano in corso un evento di malattia le nuove previsioni contenute negli artt. 18 e 18 bis troveranno applicazione dal 15/9/2016.
Previdenza complementare
Il contributo dovuto per ogni dirigente iscritto al Fondo, composto da un contributo ordinario ed un contributo integrativo, viene così stabilito:
– il contributo ordinario è dato dalla somma del contributo a carico del datore di lavoro e del contributo a carico del dirigente pari rispettivamente al 11,65% e 1% della retribuzione convenzionale annua(Euro 59.224,54). Il contributo a carico del datore di lavoro è fissato all’11,88% a decorrere dall’1/1/2016, al 12,11% a decorrere dall’1/1/2017 e al 12,35% a decorrere dall’1/1/2018;
– il contributo integrativo, comprensivo della quota di cui all’accordo specifico a titolo di contributo sindacale, a carico del datore di lavoro, è pari all’1,99% della retribuzione convenzionale annua (Euro 59.224,54) e confluisce nel conto generale. Ferma restando la retribuzione convenzionale, il contributo integrativo è pari al 2,03% a decorrere dall’1/1/2016, al 2,07% a decorrere dall’1/1/2017 e al 2,11% a decorrere dall’1/1/2018.
Fermo restando il contributo ordinario a carico del dirigente indicato al comma 5, il contributo ordinario a carico del datore di lavoro per i dirigenti definiti all’art. 28, commi da 1 a 3, dell’ipotesi di accordo 21/7/2016 (assunti o nominati proprio dalla data di stipula) d’anno 2016 è pari al 3,97%, della retribuzione convenzionale annua. A decorrere dall’anno 2017 è pari al 4,05%, a decorrere dall’anno 2018 è pari al 4,13%.
Assistenza sanitaria integrativa
Il contributo da versare al Fondo di Assistenza Sanitaria Integrativa “Mario Besusso” è:
a) 5,50% a carico dell’azienda per ciascun dirigente in servizio, comprensivo della quota di cui all’accordo specifico a titolo di contributo sindacale o della quota di servizio;
b) 2,51% a carico dell’azienda e a favore della gestione dirigenti pensionati, dovuto per ciascun dirigente alle dipendenze della stessa a decorrere dall’1/1/2016 in ragione d’anno, e elevato al 2,56% in ragione d’anno a decorrere dall’1/1/2018;
c) 1,87% a carico del dirigente in servizio.
La contribuzione annua a carico dei dirigenti pensionati è fissata in euro 2.032,00 euro a decorrere dall’1/1/2016 ed in 2.054,00 euro a decorrere dall’1/1/2018. Tale importo è soggetto a rivalutazione tenendo conto anche delle esigenze di equilibrio tecnico del Fondo.
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