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martedì 30 ottobre 2018

Reperibilità e malattia, attenzione agli errori






In caso di malattia il dipendente pubblico o privato deve farsi rilasciare il certificato medico e rendersi reperibile presso l’indirizzo indicato per la visita fiscale.

Sarà poi obbligo del medico curante inviare, in modo telematico, l’attestato medico all’Istituto di Previdenza.

Solo nel caso in cui la trasmissione per via telematica non sarà possibile il certificato medico sarà rilasciato in modalità cartacea.

Il dipendente avrà quindi due giorni di tempo, dal verificarsi della malattia, per presentare il certificato medico all'ufficio INPS di competenza e una copia al datore di lavoro.

Malattia e reperibilità, quanti dubbi. Ma anche errori. A seguito di notizie diffuse on line circa le modalità di esonero dalle visite mediche di controllo domiciliari, ad esempio, "molti lavoratori stanno chiedendo ai propri medici curanti di apporre il codice 'E' nei certificati al fine di ottenere l'esenzione dal controllo" fa sapere l'Inps sul suo sito.

L'istituto precisa così, "in primo luogo, che le norme non prevedono l'esonero dal controllo ma solo dalla reperibilità: questo significa che il controllo concordato è sempre possibile, come ben esplicitato nella circolare Inps 7 giugno 2016, n. 95"

ESCLUSIONE - In secondo luogo, si legge, "il medico curante certificatore può applicare solo ed esclusivamente le 'agevolazioni' previste dai vigenti decreti quali uniche situazioni che escludono dall'obbligo di rispettare le fasce di reperibilità".

E queste situazioni sono contenute in due provvedimenti: nel decreto del ministero del Lavoro 11 gennaio 2016, per i lavoratori subordinati dipendenti dai datori di lavoro privati (e riguardano patologie gravi che richiedono terapie salvavita; o stati patologici connessi alla situazione di invalidità riconosciuta pari o superiore al 67%); nel decreto del presidente del Consiglio dei ministri 17 ottobre 2017 n. 206 per i dipendenti pubblici (e includono patologie gravi che richiedono terapie salvavita; causa di servizio riconosciuta che abbia dato luogo all'ascrivibilità della menomazione unica o plurima alle prime tre categorie della 'Tabella A' allegata al decreto del presidente della Repubblica 30 dicembre 1981 n. 834 o a patologie rientranti nella 'Tabella E' dello stesso decreto; e ancora, stati patologici connessi alla situazione di invalidità riconosciuta pari o superiore al 67%)".

SEGNALAZIONE - In questi unici e circoscritti casi, precisa l'Inps, "la segnalazione da parte del curante deve essere apposta al momento della redazione del certificato e non può essere aggiunta ex post, proprio perché l'esonero è dalla reperibilità e non dal controllo".

CODICE E - Per quanto riguarda il 'Codice E' indicato nel messaggio 13 luglio 2015, n. 4752, è riservato "a esclusivo uso interno riservato ai medici Inps durante la disamina dei certificati pervenuti per esprimere le opportune decisionalità tecnico-professionali, secondo precise disposizioni centralmente impartite in merito alle malattie gravissime" fa sapere l'istituto di previdenza.

NESSUN ESONERO - Che precisa come "qualsiasi eventuale annotazione nelle note di diagnosi della dizione 'Codice E' non può evidentemente produrre alcun effetto di esonero né dal controllo né dalla reperibilità, rimanendo possibile la predisposizione di visite mediche di controllo domiciliare sia a cura dei datori di lavoro che d'ufficio".


mercoledì 29 agosto 2018

Reperibilità: per spostamenti motivati comunicazione necessaria



In caso di malattia il dipendente pubblico o privato deve farsi rilasciare il certificato medico e rendersi reperibile presso l’indirizzo indicato per la visita fiscale.

Sarà poi obbligo del medico curante inviare, in modo telematico, l’attestato medico all’Istituto di Previdenza.

Solo nel caso in cui la trasmissione per via telematica non sarà possibile il certificato medico sarà rilasciato in modalità cartacea.

Il dipendente avrà quindi due giorni di tempo, dal verificarsi della malattia, per presentare il certificato medico all'ufficio INPS di competenza e una copia al datore di lavoro.

Il lavoratore deve comunicare tempestivamente al datore di lavoro lo stato di malattia e giustificarlo con valida certificazione, redatta dal medico dopo la necessaria visita. L’annullamento di un certificato, qualora necessario, può avvenire online entro 24 ore dalla sua emissione. Nel caso di malattia insorta in un paese della Comunità europea, si deve presentare il certificato di malattia all’INPS e al datore di lavoro entro due giorni dal rilascio.

L’annullamento di un certificato, qualora necessario, può avvenire online entro 24 ore dalla sua emissione. Trascorso tale periodo, il medico deve rilasciare all'assistito una dichiarazione scritta che certifichi le variazioni dei dati rispetto a quelli già inviati.

Quando il paziente abbia necessità di trascorrere il periodo di malattia in un luogo diverso dalla propria residenza, deve darne comunicazione al proprio medico e fornirgli le informazioni relative al nuovo domicilio, con le indicazioni utili alla sua individuazione e specificando frazione, contrada, cognome, presso cui si è temporaneamente trasferito ed eventuali ulteriori elementi aggiuntivi che possano consentire al medico di controllo l’agevole individuazione dell’abitazione; persiste infatti anche in caso di domicilio diverso dalla residenza abituale il dovere di rispettare le fasce di reperibilità per essere sottoposti alla visita medica di controllo domiciliare, se predisposta. Il nominativo indicato nel certificato deve essere leggibile sul citofono e sulla cassetta postale.

Il lavoratore avente diritto alla tutela previdenziale dell’Inps che cambi il proprio indirizzo di reperibilità durante il periodo di prognosi indicata nel certificato, deve darne comunicazione con congruo anticipo al datore di lavoro ed alla Struttura territoriale Inps di appartenenza, con le modalità previste:

Posta elettronica: inviando una e-mail indirizzata alla casella medicolegale.NOMESEDE@inps.it (Chi risieda a Genova, ad esempio, invierà a: medicolegale.genova@inps.it);

Fax: inviando specifica comunicazione al numero di fax indicato dalla Struttura territoriale;

Contact Center Multicanale: contattando il numero verde 803.164.

L'obbligo di reperibilità alla visita medica di controllo dell'INPS comporta che l'allontanamento dall'abitazione, indicata all'ente previdenziale quale luogo di permanenza durante la malattia, possa essere giustificato, in caso di adeguata motivazione, solo quando tempestivamente comunicato dimostrando così la necessaria cooperazione del lavoratore con l'ente di controllo, prevista dalla normativa e sottolineata dalla Corte Costituzionale.

La Corte di appello conferma la sentenza del Tribunale che ha respinto la domanda proposta dal lavoratore nei confronti dell'INPS per il riconoscimento dell'indennità di malattia per il periodo compreso tra il 21 maggio e l'8 giugno 2001. La Corte d'Appello aveva infatti  rilevato che:

il ricorrente aveva fornito la prova dell'esistenza di un motivo socialmente apprezzabile per l'allontanamento dal domicilio durante il periodo di malattia consistente nel grave incidente stradale subito dal nipote, figlio di sua sorella e nella necessità di accompagnare la sorella presso la clinica;

il ricorrente non aveva nemmeno tentato di dimostrare l'impossibilità di avvisare il datore di lavoro e l'INPS della repentina partenza;

l'inevitabilità del viaggio era stata insufficientemente provata, posto che il ricorrente non aveva allegato né provato che la sorella non era in grado di raggiungere autonomamente;

era sfornita di qualsiasi indice di prova l'affermazione che la sorella era in preda alla disperazione e che avrebbe potuto compiere qualsiasi gesto.

Avverso la sentenza della Corte di Appello, il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, fondandolo su due motivi:

il lavoratore ha allegato e dimostrato la ricorrenza di un motivo, ritenuto socialmente apprezzabile, di assenza alla visita di controllo nel proprio domicilio l'INPS e che tale circostanza deve essere ritenuta sufficiente per l'erogazione dell'indennità di malattia, tenuto altresì conto che la solidarietà familiare è valore che assurge a rango costituzionale;

il lavoratore  denuncia omessa, insufficiente, contraddittoria, illogica, irragionevole motivazione della sentenza impugnata avendo, la Corte territoriale, fondato la propria statuizione su circostanze secondarie e marginali, pur avendo ritenuta provata la ricorrenza di un motivo socialmente apprezzabile.

La Corte di Cassazione ha esaminato i due motivi congiuntamente, in quanto si  trattava di valutare la sussistenza di un giustificato motivo di assenza dal domicilio durante il periodo di assenza del dipendente dal posto di lavoro per malattia. La pronuncia ribadisce l’orientamento maggioritario, secondo cui l'obbligo di reperibilità alla visita medica di controllo comporta che l'allontanamento dall'abitazione indicata all'ente previdenziale quale luogo di permanenza durante la malattia sia giustificato solo quando tempestivamente comunicato agli organi di controllo, anche qualora i giudici considerino adeguato il motivo dello spostamento. Qualora tale comunicazione sia stata omessa o sia tardiva, non viene automaticamente meno il diritto, ma l'omissione o il ritardo devono a loro volta essere giustificati.

I giudici affermano infatti che " Invero, l'obbligo dell'INPS di erogare l'indennità di malattia permane, anche a fronte di un comportamento del lavoratore che si sottragga alla verifica sanitaria, solamente ove ricorrano serie e comprovate ragioni, quale l'indifferibile necessità di recarsi presso un luogo diverso dal proprio domicilio, e considerato l'obbligo di cooperazione in capo all'assicurato per la realizzazione del fine di rilevanza pubblica di impedire abusi di tutela. Il ricorso non ha illustrato quali erano le ragioni di indifferibilità dell'allontanamento dal domicilio del lavoratore e non ha nemmeno fornito i motivi della mancata collaborazione con l'ente previdenziale."

La giurisprudenza è molto chiara quando afferma alcuni principi chiave in materia di visita fiscale per malattia e conseguente obbligo di reperibilità. In sintesi:

al lavoratore è consentito assentarsi da casa durante gli orari in cui dovrebbe invece essere reperibile, ma solo a per motivi urgenti e indifferibili (cosiddetto “giustificato motivo”);

anche quando sussistono detti motivi urgenti e indifferibili, l’assenza dalla abitazione durante gli orari di reperibilità va prima comunicata al datore di lavoro e all’Inps;

tale preventiva comunicazione può essere evitata solo se ricorrano gravi e indifferibili ragioni. Il lavoratore deve quindi dimostrare l’impossibilità di avvisare il datore di lavoro e l’Inps della repentina uscita di casa.

Il lavoratore si considera “assente” non solo quando non è presente presso l’abitazione, ma anche quando, in qualsiasi modo, impedisca la visita di controllo. Si pensi al caso in cui il nome del malato non sia presente sul citofono; all’ipotesi in cui il citofono stesso sia rotto e nessuno risponda; al caso in cui venga addotta una patologia auditiva che ha impedito di sentire il campanello, ecc. In tutti questi casi, il lavoratore si considera comunque assente ingiustificato.

Insomma, l’assenza può coincidere con qualsiasi condotta che impedisca l’esecuzione del controllo sanitario, per incuria, negligenza o qualsiasi altro motivo non apprezzabile sul piano giuridico e sociale.

Cosa comporta l’assenza alla visita fiscale?
L’ingiustificata assenza del lavoratore alla visita di controllo comporta la decadenza dal diritto al trattamento economico per malattia.

In particolare, le conseguenze possono essere così schematizzate:

ASSENZA

Prima visita: perdita totale di qualsiasi trattamento economico

Seconda visita: oltre alla precedente sanzione, riduzione del 50% del trattamento economico per il residuo periodo. La seconda visita di controllo può essere sia la visita medica domiciliare sia la visita medica ambulatoriale.

Terza visita: l’erogazione dell’indennità economica previdenziale a carico INPS viene interrotta da quel momento e fino al termine del periodo di malattia: il caso si configura come mancato riconoscimento della malattia ai fini della corresponsione della relativa indennità].

L’assenza deve essere giustificata

Il lavoratore può sottrarsi alla visita fiscale e, quindi, all’obbligo di reperibilità, solo per comprovate ragioni quali, ad esempio, l’indifferibile necessità di recarsi in un altro luogo (tipico è il caso dell’abbandono del domicilio per recarsi presso l’ambulatorio del medico curante).

Il lavoratore che, per un motivo giustificato, serio e urgente, si allontani dall’abitazione presso la quale deve essere reperibile al medico fiscale, deve prima avvisare l’Inps e il datore di lavoro della sua assenza. Infatti, l’obbligo di reperibilità alla visita medica di controllo INPS comporta che l’allontanamento dall’abitazione sia giustificato solo quando tempestivamente comunicato agli organi di controllo dell’Istituto.

Se il dipendente non può neanche inviare tale comunicazione in anticipo o se la invia dopo essersi assentato, dovrà giustificare il mancato o tardivo avviso.
Infatti – precisa la Cassazione – qualora tale comunicazione sia omessa o sia tardiva, non viene automaticamente meno il diritto a percepire il trattamento di malattia, ma l’omissione od il ritardo devono essere giustificati a loro volta.

In altri termini, l’obbligo dell’INPS di erogare l’indennità di malattia permane anche nei confronti di un lavoratore che si sottragga alla verifica sanitaria, a condizione che ricorrano serie e comprovate ragioni dell’allontanamento dal domicilio indicato all’ente e fermo restando l’obbligo di cooperazione in capo all’assicurato, in modo tale da realizzare il fine di rilevanza pubblica e di impedire (quantomeno ridurre) gli abusi di tutela.

L’INPS ha fornito chiarimenti in merito al campo di applicazione della normativa che prevede le esclusioni dall’obbligo di reperibilità per i lavoratori dipendenti del settore privato.

Si ricorda che, sono esclusi dall’obbligo di rispettare le fasce di reperibilità i lavoratori subordinati la cui assenza sia connessa con:

patologie gravi che richiedono terapie salvavita, comprovate da idonea documentazione della Struttura sanitaria;

stati patologici sottesi o connessi a situazioni di invalidità riconosciuta, in misura pari o superiore al 67%.

I lavoratori interessati dall’esenzione, sono quelli con contratto di lavoro subordinato appartenenti al settore privato, sono esclusi quindi i lavoratori iscritti alla gestione separata dell’Inps.



giovedì 14 settembre 2017

Infortunio sul lavoro in itinere: il risarcimento



L’infortunio sul lavoro è un incidente che avviene in occasione dell’attività lavorativa che va ben oltre il concetto di durante l’orario di lavoro o sul posto di lavoro, in quanto in esso vengono ricomprese tutte quelle situazioni anche ambientali, nelle quali il lavoratore può essere a rischio di incidenti e quindi di infortunio.

L’infortunio in itinere è quello che subisce il lavoratore nel tragitto che deve percorrere necessariamente per recarsi sul luogo del lavoro e viene ricompreso nella copertura assicurativa fornita dall'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni, gestita dall’INAIL. In particolare l’assicurazione comprende gli infortuni occorsi alle persone assicurate durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro, durante il tragitto che collega due luoghi di lavoro o, se non esiste mensa aziendale, nel percorso di andata e ritorno a quello di consumazione abituale dei pasti.

In via del tutto esemplificativa, per normale percorso deve intendersi quello più breve e diretto rispetto alla propria sede lavorativa nonché quello perimetrato entro un ragionevole arco temporale. La tutela risarcitoria prevista per tale tipologia di danno, potrà comunque essere invocata dal lavoratore qualora si verifichino circostanze atte oggettivamente ad impedire a quest'ultimo di seguire il normale tragitto e che lo costringano ad un percorso alternativo. Basti pensare al riguardo alle ipotesi di interruzione o deviazione di percorso effettuate su ordine del datore di lavoro o dovute a forza maggiore.

Chiarificatore sul punto è stato inoltre l'intervento della Cassazione, la quale ha in più occasioni sancito la possibilità di utilizzo del mezzo di trasporto privato:

a) In totale assenza di mezzi pubblici;

b) In presenza mezzi pubblici che non consentano il puntuale raggiungimento del luogo di lavoro;

c) In caso di eccessivo disagio procurato dallo stato in cui versano i mezzi pubblici presenti sulla zona interessata.

L’INAIL ha definito la qualificazione degli infortuni in itinere ovvero in attualità di lavoro, nello specifico riguardo gli eventi lesivi occorsi a lavoratori in missione e/o in trasferta. Sono meritevoli di tutela e quindi rimborsate le ipotesi occorse nell’arco temporale che va dal momento dell’inizio della missione e/o trasferta fino al rientro presso l’abitazione. Sussiste occasione di lavoro e quindi infortunio in itinere per gli eventi occorsi al lavoratore durante il tragitto dall’abitazione al luogo in cui deve essere svolta la prestazione lavorativa e viceversa, nonché durante il tragitto dall’albergo del luogo in cui la missione e/o trasferta deve essere svolta al luogo in cui deve essere prestata l’attività lavorativa.

Quindi tre elementi che lo caratterizzano:

la lesione

la causa violenta

l’occasione di lavoro.

Niente risarcimento per l’infortunio in itinere subito dal lavoratore che per recarsi a lavoro ha usato la propria automobile, se non era necessaria considerata la brevità del tragitto casa-lavoro, da poter percorrere anche a piedi. Questo il principio di diritto espresso dalla Corte di Cassazione.

L’assicurazione non copre l’evento lesivo se il lavoratore effettua delle interruzioni del tragitto casa-lavoro o delle deviazioni che non sono necessarie (a meno che non siano dovute a cause di forza maggiore, ad esigenze essenziali e improrogabili o all’adempimento di obblighi penalmente rilevanti).

L’assicurazione INAIL opera anche nel caso di infortunio in itinere che avviene utilizzando il mezzo di trasporto privato, purché sia necessario. La Cassazione ha rigettato il ricorso contro l’INAIL presentato da un metalmeccanico infortunatosi in macchina, poco prima dell’orario di inizio dell’attività lavorativa, nel tragitto casa-lavoro, nonostante abitasse a meno di un chilometro dallo stabilimento.

Secondo i giudici, infatti, non è possibile concedere il risarcimento al lavoratore per l’infortunio in itinere se l’uso della propria auto non era indispensabile, considerando anche che il modo normale e più sicuro per spostarsi è l’uso dei mezzi pubblici e, laddove possibile, anche delle proprie gambe.

«Deve rilevarsi che, secondo il consolidato e condiviso orientamento interpretativo di questa Corte, ai sensi del D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 2 (applicabile nella fattispecie ratione temporis) l’indennizzabilità dell’infortunio in itinere, subito dal lavoratore nel percorrere, con mezzo proprio, la distanza fra la sua abitazione e il luogo di lavoro, postula:

la sussistenza di un nesso eziologico tra il percorso seguito e l’evento, nel senso che tale percorso costituisca per l’infortunato quello normale per recarsi al lavoro e per tornare alla propria abitazione;

la sussistenza di un nesso almeno occasionale tra itinerario seguito ed attività lavorativa, nel senso che il primo non sia dal lavoratore percorso per ragioni personali o in orari non collegabili alla seconda;

la necessità dell’uso del veicolo privato, adoperato dal lavoratore, per il collegamento tra abitazione e luogo di lavoro, considerati i suoi orari di lavoro e quelli dei pubblici servizi di trasporto.»

Infine il recente sviluppo giurisprudenziale, allargando le maglie delle fattispecie analizzata, ha ricompreso nell'infortunio in itinere sia l'ipotesi di lesioni conseguenti ad una rapina subita dal lavoratore durante il percorso casa-lavoro, sia i casi di infortunio avvenuti durante il cammino a piedi o addirittura durante il trasporto su mezzi pubblici ovvero incidenti che si verificano in occasione di anomale interruzioni e/o deviazioni del nomale tragitto casa-lavoro.

Chi paga le spese visite mediche?

Il lavoratore assente dal lavoro per infortunio causata da incidente, è tutelato dall’INAIL anche per la copertura di esami diagnostici e le terapie riabilitative, in quanto le spese mediche sono completamente pagate dall'istituto, se preventivamente prescritte o autorizzate dall’INAIL. Per il lavoratore, inoltre, per tutta la durata dell’erogazione dell’indennità INAIL per infortunio o malattia professionale INAIL 2015, se di durata temporanea, è prevista l’esenzione ticket sanitario per esami e analisi prescritti dall’INAIL o dal medico curante.

Successivamente, per i casi in cui al lavoratore viene riconosciuta l’inabilità permanente o danno biologico, ha il diritto all'esenzione ticket parziale riferita alla patologia specifica, da richiedere alla ASL competente, producendo la documentazione INAIL che attesti i postumi riconosciuti.


lunedì 4 settembre 2017

Visite mediche di controllo, servizio INPS: come funziona il Polo Unico



La visita fiscale è un accertamento medico previsto dallo Statuto dei Lavoratori, e predisposto dall'INPS o dal datore di lavoro per verificare l’effettivo stato di malattia del dipendente assente per motivi di salute. La visita fiscale, infatti, non si limita a un mero controllo della presenza al proprio domicilio del lavoratore in malattia, bensì consiste in una vera e propria verifica della sussistenza degli impedimenti fisici al lavoro.

Il lavoratore che intende usufruire dell’astensione dal lavoro per malattia deve avvisare tempestivamente il proprio datore e il medico di famiglia e deve sottoporsi, preferibilmente sin dal primo giorno di malattia, ad un accertamento sanitario da parte del proprio medico curante, che produce un’apposita certificazione.

Attivo dal primo settembre il Polo unico per le visite mediche di controllo (VMC) da parte dell’INPS ai lavoratori in malattia. A disposizione dei datori di lavoro anche privati, è inoltre disponibile il nuovo servizio online per la richiesta di visita medica di controllo.

Entrano dunque in vigore le disposizioni del decreto legislativo 75/2017, su cui è intervenuto il messaggio INPS 3265 del 9 agosto 2017, che fornisce il dettaglio delle PA interessate dalla Riforma. Per il momento le nuove norme riguardano i dipendenti della pubblica amministrazione, per i quali l’INPS può anche disporre visite d’ufficio.

Per consentire il controllo dello stato di malattia, il lavoratore ha l’obbligo di essere reperibile presso l’indirizzo abituale o il domicilio occasionale comunicato al datore di lavoro:

tutti i giorni durante la durata della malattia comprese le domeniche ed i giorni festivi nelle seguenti fasce orarie giornaliere:

1) lavoratori statali e personale enti locali
mattina: dalle ore 9 alle 13
pomeriggio: dalle ore 17 alle 18.

2) Lavoratori settore privato
mattina: dalle ore 10 alle 12

Se il dipendente pubblico in malattia si assenta durante questo orario, deve darne comunicazione al datore di lavoro.

La creazione del Polo Unico comporta una serie di novità relative al funzionamento del sistema, grazie al nuovo applicativo informatico “SAVIO” che consente, ad esempio, di elaborare serie statistiche in base alle quali vengono selezionati in modo mirato i lavoratori a cui inviare la visita fiscale. Potrà anche succedere, per stanare i cosiddetti “furbetti del cartellino“, che allo stesso lavoratore vengano inviate due visite nello stesso giorno.

Ne guadagna anche la tempestività delle visite: il medico riceve quotidianamente, sul pc o sul tablet, l’elenco delle visite da effettuare, specificando quali sono quelle richieste dal datore di lavoro e quali, invece, vengono effettuate d’ufficio. Anche il medico viene selezionato con criteri precisi, in base alla disponibilità e alla distanza dal paziente. In vista c’è un decreto ministeriale che conterrà le regole generali per le convenzione fra INPS e medici generali.

Presentando il Polo unico per le Visite Mediche di Controllo (VMC), l’INPS ha pubblicato una serie di dati relativi all’andamento delle assenze per malattia dei dipendenti del privato e del pubblico. Questi ultimi si assentano mediamente il doppio, con percentuali particolarmente significative nel Sud e nelle Isole. Nel privato la malattia del dipendente dura in media cinque giorni, nel settore pubblico si arriva a 11 giorni. Nel Sud e nelle isole (sempre con riferimento al settore pubblico), si arriva a 12 o 13 giorni.

E’ interessante notare come questo squilibrio territoriale non riguarda il settore privato, dove i giorni di malattia per dipendente sono omogenei sull’intero territorio nazionale. Un segnale del fatto che il fenomeno dei furbetti del cartellino riguardano in particolare la pubblica amministrazione.

Servizio INPS online
Il servizio online VMC, per la richiesta delle visite mediche di controllo domiciliare e/o ambulatoriale, è dunque rivolto ai datori di lavoro pubblici e privati. Il servizio “Richiesta Visite Mediche di Controllo (Polo unico VMC)” è attivo sul portale INPS, nella sezione Prestazioni e Servizi.

A partire dal 1° settembre 2017 sono entrate in vigore importanti novità sia per i dipendenti pubblici che per quelli di aziende private, con controlli che potranno essere ripetuti anche due volte nello stesso giorno soprattutto in caso di malattia in giorni sospetti, come di lunedì o venerdì o a ridosso di giorni festivi.

Per i dipendenti pubblici, con l’entrata in vigore della riforma Madia le nuove regole sui controlli in caso di malattia prevedono che la competenza sulle visite fiscali trasferita dalle Asl al Polo Unico Inps, con l’obiettivo di ridurre assenteismo e false malattie.

I controlli potranno farsi più frequenti e verranno avviate anche d’ufficio dall’Inps senza la richiesta del datore di lavoro. I medici di famiglia che dovranno controllare il rispetto degli orari di reperibilità ed accertare l’effettiva malattia dei dipendenti pubblici e privati verranno retribuiti, in parte, con quota percentuale in base alle visite fiscali effettuate.

Ricordiamo che ci sono anche casi in cui è prevista l’esenzione dalla visita fiscale e nell’articolo troverete tutte le informazioni relative a dipendenti pubblici e privati che, in caso di malattia, sono esonerati dai controlli del medico Inps e, di conseguenza, non devono rimanere a casa negli orari delle visite fiscali. Con la circolare Inps n. 95/2016 sono state stabilite proprio le condizioni per richiedere le esenzioni dai controlli del medico della mutua.

Quindi in conclusione visite mirate, anche due ripetute nello stesso giorno allo stesso lavoratore. Un software elaborerà i certificati medici telematici e sceglierà gli eventi che hanno la probabilità più alta — statisticamente parlando — di ridurre i giorni di prognosi del lavoratore.

Se ad esempio un lavoratore si ammala frequentemente a ridosso del weekend o il lunedì, allora il caso sospetto finisce sotto la lente d’ingrandimento dell’Inps che guarderà anche alle storie personali di chi non si sente bene e resta a casa.


giovedì 27 aprile 2017

A chi spetta individuare il periodo di ferie



Il lavoratore dipendente è libero di scegliere le modalità e le località per usufruire di un periodo di ferie che ritenga più utili. E la sua reperibilità può essere oggetto di specifico obbligo disciplinato dal contratto individuale o collettivo del lavoratore in servizio, ma non già del lavoratore in ferie.


Il Codice Civile, all’art. 2109: “Il prestatore di lavoro ha … anche diritto … ad un periodo annuale di ferie retribuito, possibilmente continuativo, nel tempo che l'imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del prestatore di lavoro. La durata di tale periodo è stabilita dalla legge, dagli usi o secondo equità”, contempla i seguenti tre principi:

le modalità di fruizione delle ferie sono stabilite dall’imprenditore, tenuto conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del prestatore di lavoro;

la durata delle ferie è stabilita dai contratti collettivi;

l'imprenditore deve preventivamente comunicare al prestatore di lavoro il periodo stabilito per il godimento delle ferie;

il periodo di preavviso non può essere computato nelle ferie;

i contratti collettivi possono prevedere periodi di ferie ulteriori a quello legale. Questi periodi possono essere fruiti in base a quanto esplicitato dal contratto collettivo e, quindi, in astratto, anche successivamente al 18° mese dalla maturazione;

il mancato riconoscimento del periodo di ferie, nei limiti della previsione legale, comporta una sanzione amministrativa pecuniaria, in capo al datore di lavoro, da Euro 100 ad Euro 600; se, invece, la violazione si riferisce a più di cinque lavoratori ovvero si è verificata in almeno due anni, la sanzione è da Euro 400 ad Euro 1.500; infine, se la violazione si riferisce a più di dieci lavoratori ovvero si è verificata in almeno quattro anni, la sanzione amministrativa pecuniaria è da Euro 800 ad Euro 4.500 e non è ammesso il pagamento della sanzione in misura ridotta.

Secondo la giurisprudenza, l’individuazione del periodo feriale deve tener conto dei due interessi contrapposti, quello del lavoratore a fruire di un periodo di riposo sufficiente a reintegrare le energie perdute lavorando, e quello del datore di lavoro al buon funzionamento dell’azienda. Più precisamente, si ritiene che la scelta del periodo feriale sia idonea a salvaguardare l’indicato interesse dal lavoratore alla sola condizione che il numero delle giornate di ferie sia congruo: pertanto, mentre – per esempio – non sarebbe idoneo allo scopo imporre al lavoratore di fruire di una o di due giornate di ferie, il datore di lavoro potrebbe anche unilateralmente imporre al proprio dipendente la fruizione di una settimana di ferie, a condizione di provare che ciò è coerente con il buon funzionamento dell’azienda.

Sulla scorta di tali principi, una sentenza della Corte di Cassazione ha ritenuto irrilevante addirittura la circostanza che il periodo di ferie già fosse stato concordato, e che il lavoratore già avesse prenotato le proprie ferie. Più precisamente, in quel caso il lavoratore, dopo che le ferie erano state concordate e dopo aver prenotato un albergo in coincidenza del periodo feriale, a seguito del rinvio del periodo feriale disposto unilateralmente dal datore di lavoro, per sopravvenute urgenti necessità organizzative, si era ugualmente assentato dal lavoro per qualche giorno, durante il periodo feriale originariamente pattuito, per recarsi nella località turistica dove aveva effettuato la prenotazione, per disdirla.

Conseguentemente, il datore di lavoro, dopo aver contestato la circostanza sopra illustrata e aver sentito il lavoratore a sua difesa, lo aveva licenziato, considerando ingiustificata l’assenza dal posto di lavoro. La domanda giudiziaria presentata dal lavoratore, che aveva impugnato tale licenziamento sotto il profilo della carenza di alcuna valida giustificazione, era stata rigettata dai Giudici di merito, con pronunce confermate dalla Suprema corte: infatti, è stato ritenuto che il datore di lavoro, avendo provato l’effettiva sussistenza della necessità organizzativa che rendeva necessario spostare il periodo feriale originariamente concordato, legittimamente aveva modificato, sia pure unilateralmente, il periodo delle ferie.

La suprema Corte ha sottolineato come il lavoratore, una volta messo a conoscenza della distribuzione delle ferie nell’arco dell’anno, abbia un vero e proprio onere di comunicare tempestivamente all’azienda eventuali esigenze personali che giustifichino una richiesta di modifica del periodo fissato. In mancanza, ha osservato la Suprema Corte, è possibile ritenere che il silenzio del lavoratore sia qualificabile alla stregua di un vero e proprio assenso tacito alla scelta della società. Con l’ulteriore conseguenza che un eventuale spostamento delle ferie potrebbe in seguito essere giustificato e richiesto solo adducendo motivi sopravvenuti ed originariamente imprevedibili.

Il diritto alle ferie è irrinunciabile e, pertanto, tale periodo non è monettizabile diversamente, ossia non è sostituibile con una indennità per ferie. Solo se il rapporto termini prima del godimento della pausa feriale, il lavoratore avrà diritto a percepire una indennità proporzionale alle ferie non godute. E’ in vigore il principio della insostituibilità del periodo minimo di ferie (fissato in quattro settimane) con il pagamento di un’indennità in denaro, e ciò ad eccezione dell’ultimo anno del rapporto di lavoro.

Il periodo minimo di ferie annue è pari a quattro settimane per ogni lavoratore. Il diritto alle ferie è irrinunciabile e non può essere sostituito da indennità economiche eccetto nei casi di cessazione di rapporto di lavoro: solo in tali casi le ferie non godute vengono monetizzate e convertite in quote di retribuzione giornaliera.

La metà delle ferie deve essere fruito obbligatoriamente entro l'anno, la restante parte di ferie non godute nei successivi 18 mesi successivi al termine dell'anno di maturazione. In caso contrario il datore di lavoro è passibile di sanzioni.

Il lavoratore può richiedere le ferie in qualunque momento dell'anno. La richiesta di ferie, ancorché soggetta a valutazione del datore di lavoro in merito alle esigenze di aziendali, deve essere presentata con congruo anticipo.





lunedì 23 gennaio 2017

Cessione ramo d'azienda e demansionamento



Ancora sentenza della Corte di Cassazione conferma: l’onere della prova del demansionamento grava sul lavoratore. Nel caso specifico la sentenza n. 1778/2017 ha analizzato un caso di modifica delle mansioni in occasione di una cessione di ramo d’azienda. Nella fattispecie, l’assegnazione di diversa attività aveva  riguardato l’intero personale. Tuttavia, per ottenere un risarcimento, è il singolo lavoratore a dover dimostrare l’effettiva presenza dei presupposti di demansionamento, così da ottenere il risarcimento del relativo danno.

In materia di cessione del ramo d'azienda, la Corte di Cassazione ha chiarito che la stessa deve considerarsi operante qualora, oltre al profilo dipendente, lo stesso riguardi anche i beni materiali. Nello specifico la Suprema Corte, con la Sentenza n. 1316 del 19 gennaio 2017, ha precisato che ai fini dell'operatività del trasferimento/cessione del ramo d'azienda risulta necessario che lo stesso interessi, oltre al profilo dipendente, anche i beni materiali che risultino essenziali e necessari per lo svolgimento dell'attività ceduta. Diversamente non può considerarsi operante l'istituto in parola, cosi? come definito dall'art. 2112 c.c.

Nello specifico caso, dunque, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso del lavoratore in quanto non verificabile il danno professionale lamentato, né il preteso danno alla salute. Nella sentenza, la Corte ricorda comunque che:

“È indubbio che l’assegnazione a mansioni inferiori rappresenti fatto potenzialmente idoneo a produrre una pluralità di conseguenze dannose, sia di natura patrimoniale che di natura non patrimoniale. Ed infatti, l’inadempimento datoriale può comportare un danno da perdita della professionalità di contenuto patrimoniale che può consistere sia nell’impoverimento della capacità professionale del lavoratore e nella mancata acquisizione di un maggior saper fare, sia nel pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali

Ed inoltre, il demansionamento è potenzialmente idoneo a pregiudicare beni di natura immateriale, anche ulteriori rispetto alla salute, atteso che, nella disciplina del rapporto di lavoro, numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata del lavoratore, con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, con la configurabilità di una danno non patrimoniale risarcibile ogni qual volta vengano violati, superando il confine dei sacrifici tollerabili, diritti della persona del lavoratore oggetto di peculiare tutela al più alto livello delle fonti: particolare rilievo assumendo, a questo proposito, la dignità personale del lavoratore che costituisce diritto Corte di Cassazione – copia non ufficiale inviolabile, a norma degli artt. 2, 4 e 32 Cost.

Sicché, la lesione di tale diritto, rappresentata dai pregiudizi alla professionalità da dequalificazione che si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall’impresa, ha attitudine generatrice di danni a contenuto non patrimoniale, in quanto idonea ad alterare la normalità delle relazioni del lavoratore con il contesto aziendale in cui opera, del cittadino con la società in cui vive, dell’uomo con se stesso (Cass. 12 giugno 2015, n. 12253)”.

Tuttavia, chiarita l’astratta potenzialità lesiva dell’assegnazione a mansioni inferiori ad opera del datore di lavoro, i giudici Supremi precisano che:

“La produzione di siffatti pregiudizi è soltanto eventuale, non derivando automaticamente dall’inadempimento datoriale l’esistenza di un danno solo in ragione della potenzialità lesiva dell’atto illegittimo: e pertanto esso non è ravvisabile in re ipsa, ma esige una specifica allegazione dell’esistenza di un pregiudizio, sicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore l’onere di fornire la prova del danno e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale (Cass. s.u. 24 marzo 2006, n. 6572; Cass. 30 settembre 2009, n. 20980; Cass. 26 gennaio 2015, n. 1327).

Il che non esclude che, ferma la dimostrazione del danno da demansionamento in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, la prova possa avvenire anche per presunzioni, per la quale dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionannento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (Cass. 19 settembre 2014, n. 19778; Cass. 10 aprile 2010, n. 8893): purchè, si intende, oggetto di specifica allegazione dal lavoratore (Cass. 23 settembre 2016, n. 18717)”.

Ricordiamo che con sentenza n. 21711, la Cassazione ha precisato che il trasferimento a un altro datore di lavoro di una serie di contratti di lavoro eterogenei, rappresenta cessione di ramo d'azienda solo se prima del negozio tra cedente e cessionario questi contratti configuravano una vera e propria struttura aziendale con autonomia funzionale e produttiva: in mancanza di questi elementi, il trasferimento è una mera esternalizzazione.

La Cassazione, ha inoltre ribadito la natura di retribuzione differita del Tfr, sostiene che in caso di cessione di ramo di azienda assoggettata al regime previsto dall'articolo 2112 del Codice civile, il datore di lavoro cedente rimane obbligato nei confronti del lavoratore suo dipendente, il cui rapporto prosegua con il datore di lavoro cessionario, per la quota di trattamento di fine rapporto maturata durante il periodo di rapporto con lui svolto e calcolato fino alla data del trasferimento d'azienda. Viceversa, il datore di lavoro cessionario è obbligato per questa stessa quota soltanto in ragione e nei limiti del vincolo di solidarietà previsto dall'articolo 2112, comma 2. Infine, conclude l'estensore, quest'ultimo, come datore di lavoro cessionario, è l'unico obbligato al trattamento di fine rapporto quanto alla quota maturata nel periodo del rapporto intercorso dopo il trasferimento di azienda.

domenica 15 gennaio 2017

Trasferimento o cessione d’azienda: quando si configura



Si ha il la cessione ramo d'azienda o trasferimento d'azienda quando, in seguito a operazioni quali cessione contrattuale, fusione, affitto, usufrutto, cambia il titolare della azienda stessa.

La Corte di Cassazione ha chiarito con una recente sentenza (24972/2016) che il solo trasferimento del personale da un datore di lavoro all'altro in caso di cambio di appalto non basta a definire un trasferimento d’azienda, che si configura invece se l’assunzione di lavoratori in caso di cambio di soggetto appaltatore viene accompagnata anche da un passaggio di beni di non trascurabile entità, ovvero tale da rendere possibile lo svolgimento di una specifica impresa.

La cessione di azienda comprende cose materiali (mobili ed immobili) e immateriali, compreso l’avviamento, i rapporti di lavoro con il personale, crediti e debiti con la clientela: elementi tutti unificati in senso funzionale dalla volontà del titolare, con riguardo alla loro destinazione al comune fine dell’intrapresa attività imprenditoriale. L’azienda può sussistere anche se, essendo di nuova formazione, non abbia ancora iniziato a funzionare come organismo aziendale o, se essendo già in esercizio, abbia temporaneamente cessato di funzionare. La mancanza dell’esercizio esclude l’esistenza dell’impresa non dell’azienda. L’azienda, infatti, esiste nel momento in cui il complesso dei beni organizzati è idoneo al fine cui è destinato: l’esercizio dell’impresa.

Con il contratto di cessione d’azienda il cedente trasferisce il complesso aziendale ad un acquirente, il cessionario, dietro corrispettivo. L’azienda viene ceduta unitariamente, con debiti e crediti (a meno che non sia contrariamente convenuto), e con subentro nei rapporti contrattuali in essere. Nel contratto può essere disposto il divieto di concorrenza in capo all'alienante affinché chi vende l’azienda (l’alienante) non eserciti una concorrenza sleale nei confronti dell’acquirente. Il divieto in genere è stabilito per un periodo di cinque anni. Formalmente, la cessione dell’azienda richiede l’autenticazione delle firme, secondo quanto dispone la legge n. 310/1993: il contratto è quindi effettuato necessariamente in forma scritta.

Ma quali sono gli elementi che deve contenere il contratto di cessione di azienda? Proviamo a schematizzarli. Nelle premesse del contratto si dovrà indicare che:

il cedente  deve dichiararsi titolare del complesso dei beni organizzati in azienda, specificando anche il tipo di attività che svolge l’azienda;

il cedente deve dichiarare di voler cessare l’attività e di avere interesse a reperire chi è disponibile ad acquistare tale azienda;

il cessionario deve, a sua volta, dichiararsi disponibile ad acquistare la predetta azienda.

Fondamentalmente la Corte di Cassazione ha chiarito che un’azienda è sicuramente fatta anche di beni immateriali, ma non può certamente essere ridotta solo ad essi a fronte dell’articolo 2555 del Codice Civile che nella stessa nozione di azienda richiama la necessità anche di beni materiali organizzati tra loro in funzione dell’esercizio dell’impresa, organizzazione di fatto impraticabile in caso di strutture fisiche di trascurabile entità o mancanti del tutto, giacché organizzare significa coordinare tra loro i fattori della produzione (capitale, beni naturali e lavoro) e non uno solo.

Alcune precedenti sentenze della Corte di Cassazione sono arrivate tuttavia a sperimentare la massima dilatazione possibile di nozione di trasferimento d’azienda fino a estenderla alla cessione avente ad oggetto solo un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed organizzati tra loro, la cui autonoma capacità operativa sia assicurata dal fatto di essere dotati di un particolare know how.

Nel caso specifico analizzato dalla Corte, ad essere trasferito non era stato certamente un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed organizzati tra loro.

In più, ricordano i giudici supremi ,l’art. 29 co. 3 0 d.lgs. n. 276/03 prevede che:

“L’acquisizione del personale già impiegato nell'appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto d’appalto, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda”.

Dunque la mera assunzione, da parte del subentrante nell'appalto, non integra di per sé trasferimento d’azienda ove non si accompagni alla cessione dell’azienda o di un suo ramo autonomo intesi nei sensi di cui sopra.

Quando vi è la cessione dell'azienda (o di un ramo di essa) cambia il titolare dell'attività e quindi cambia il datore di lavoro. La legge tutela il lavoratore con alcune disposizioni specifiche e prevede che:

il rapporto di lavoro non si estingue, ma continua con il nuovo titolare dell'azienda; il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano; il lavoratore può chiedere al nuovo datore di lavoro il pagamento dei crediti da lavoro che aveva maturato al momento del trasferimento; il nuovo datore di lavoro è pertanto obbligato in solido con il vecchio titolare per la soddisfazione di tali crediti; nel caso di stipulazione di un contratto d'appalto tra azienda d'origine e ramo trasferito, il lavoratore dipendente di questo ultimo può agire in giudizio direttamente nei confronti dell'azienda di origine per obbligarla al pagamento dei debiti che questa ha contratto con il ramo trasferito;

il nuovo titolare deve continuare ad applicare il contratto collettivo nazionale, in vigore al momento del trasferimento, fino alla sua scadenza;

la cessione o trasferimento d'azienda non costituisce motivo di licenziamento;

se la cessione si verifica in imprese che occupano più di 15 dipendenti, è obbligatorio per il datore di lavoro avvertire con comunicazione scritta, almeno 25 giorni prima dell'atto di cessione, le rappresentanze sindacali che avviano procedure di analisi e verifica necessarie alla tutela dei lavoratori , per evitare che il mancato rispetto della normativa potrebbe eludere altri istituti contrattuali e di legge, come le norme sullo Statuto del lavoratori, il collocamento dei disabili.



lunedì 25 aprile 2016

L’Inps lancia l’allarme, per i nati negli anni 80 rischia il pensionamento a 75 anni



Sono in arrivo le buste arancioni contenenti la previsione della pensione futura degli Italiani, tra qui numerosi giovani. Dalle informazioni in essa contenute, reperibili anche tramite l’applicativo “La Mia Pensione INPS” disponibile sul sito dell’Istituto, si evince come siano in molti i giovani per i quali l’uscita dal mondo del lavoro per andare in pensione sia prevista oltre i 75 anni di età.

La disoccupazione giovanile potrebbe avere effetti devastanti sull’età di raggiungimento della pensione per le generazioni più giovani. Secondo il presidente dell’Inps, Tito Boeri, chi è nato dopo il 1980 rischia di andare in pensione con i requisiti minimi non a 70 anni, ma «due, tre, forse anche cinque anni dopo». L’Inps ha condotto uno studio apposito sulla classe 1980, «una generazione indicativa» ha detto Boeri prendendo a riferimento «un universo di lavoratori dipendenti, ma anche artigiani», ed è emerso come per un lavoratore tipo «ci sia una discontinuità contributiva, legata probabilmente a episodi di disoccupazione, di circa due anni. Il vuoto contributivo pesa sul raggiungimento della pensione, che a seconda della sua lunghezza, «può slittare anche fino a 75 anni».

«Non voglio terrorizzare ma solo rendere consapevoli dell’importanza della continuità contributiva» ha aggiunto il presidente dell’Inps, tornando a sollecitare al governo una riforma per rendere più flessibile l’età di uscita dal lavoro. «L’uscita flessibile è un tema che va affrontato non fra cinque anni ma, credo, adesso. Abbiamo studiato il comportamento di due tipi di imprese, con o senza lavoratori bloccati dalla riforma del 2011. Abbiamo visto che le prime hanno assunto meno giovani con una forte penalizzazione di questi ultimi. Dato il livello della disoccupazione giovanile e dato che rischiamo di avere intere generazioni perdute nel Paese, e dato che invece abbiamo bisogno di quel capitale umano, credo sia m0lto importante fare questa operazione in tempi stretti» ha concluso Boeri.

Entro la fine dell’anno sette milioni di italiani riceveranno la busta arancione con le stime Inps sulla previdenza pubblica futura. Un aiuto, che però rischia di fornire numeri troppo ottimisti. I calcoli sono fatti con un Pil che cresce all’1,5% e una vita lavorativa senza buchi contributivi.

La busta arancione dell’Inps, in arrivo entro l’estate nella buca delle lettere, costringerà sette milioni di italiani a misurarsi con i numeri della propria pensione pubblica. Il rischio è che, nonostante la volontà illustrativa della lettera, l’effetto della trasparenza previdenziale sia troppo ottimista. Perché per mettere in piedi una strategia in vista del futuro serve del realismo.

I conti dell’Inps e quelli di un’ipotesi meno positiva, che è possibile simulare sempre attraverso lo strumento web dell’Inps se si hanno tempo e conoscenze, gli scenari possono essere diversi e decisamente meno confortanti qualora il futuro riservi una crescita economica piatta e quindi spegnere uno dei motori di crescita degli assegni pubblici.

Secondo «La Mia pensione Inps» un dipendente trentenne con un reddito attuale di mille euro netti al mese andrà in pensione di vecchiaia nel 2056 con un vitalizio di 1.749 euro lordi, il 75% di una retribuzione finale che, sempre al lordo delle tasse, sarà pari a 2.330 euro al mese. Al netto delle tasse, l’assegno mensile sarà di millequattrocento euro. Se, invece, si assumono ipotesi più realistiche sull’andamento del Pil (Prodotto interno lordo), uno dei parametri fondamentali a cui sono indicizzate le rendite pubbliche e sulla dinamica di carriera, l’assegno sarà pari a 1.217 euro lordi, il 95% di una retribuzione finale decisamente più bassa, 1.284 euro al mese. Al netto delle tasse l’assegno sarà di 1.029 euro, cioè quattrocento in meno rispetto alle proiezioni Inps. Il tasso di sostituzione elevato (94%) non deve trarre in inganno: il trentenne avrà guadagnato meno e avrà una coperta Inps ben più corta.

La pensione dei lavoratori viene ormai calcolata, in tutto o in parte, secondo il metodo contributivo, che fissa l’importo in funzione dei contributi versati, dell’andamento del Pil (Prodotto interno lordo) e della speranza di vita. «Per quanto riguarda i contributi, la stima dell’Inps prevede una crescita della retribuzione pari all’1,5% annuo, oltre l’inflazione, quindi una previsione positiva sulla propria carriera. In linea con le ipotesi assunte dalla Ragioneria Generale dello Stato, viene ipotizzata una crescita annua dell’1,5% (anch’essa in termini reali) del Pil: è un dato decisamente superiore a quello registrato da alcuni anni a questa parte».
Si ipotizza che il lavoratore faccia una discreta carriera e che l’Azienda Italia corra, mentre negli ultimi anni è quasi ferma.

Ottocento euro l’anno per un lavoratore dipendente trentenne con un reddito attuale di mille euro netti al mese, quasi 4.700 per un quarantenne che oggi ha una retribuzione di duemila euro al mese, oltre diecimila per un altro quarantenne che lavora in proprio. Sono le cifre che questi tre lavoratori dovranno versare in una pensione di scorta per compensare il divario che, al momento del pensionamento, avranno rispetto all’attuale reddito. Conti che valgono se si accetta il rischio sottoscrivendo una linea d’investimento con il 30% di azioni. Se invece si cerca il porto sicuro di una garantita, l’impegno aumenta decisamente: millecento euro per il trentenne, 5.640 per il dipendente quarantenne. Se il quarantenne è un lavoratore autonomo, l’assegno previdenziale stimato è pari a 2.472 euro lordi (1.871 euro netti) pari al 50,8% della retribuzione finale stimata (4.866 euro al mese al lordo delle tasse). Con PIL al +1% l’assegno scende a 1.952 euro lordi (1.543 euro netti) pari al 61,8% della retribuzione finale stimata (3.160 euro al mese al lordo delle tasse).

sabato 9 aprile 2016

Lavoro: criticità delle dimissioni telematiche


La nuova procedura per le dimissioni e la risoluzione consensuale introdotta dal Jobs Act ha ottime ragioni ma può presentare anche qualche problema.

Tra le numerose disposizioni contenute nella Legge delega n. 183/2014 “Jobs Act” il Legislatore, nell'obiettivo di adeguamento della regolamentazione del mercato del lavoro sulla base delle nuove esigenze tecnico/produttive, ha lasciato spazio anche alla revisione di una serie di procedure che trovano loro rappresentazione normativa nel D.Lgs 151/2015 conosciuto come “Decreto Semplificazioni”. Uno degli aspetti contenuti nel suddetto decreto è la volontà del Legislatore di effettuare un nuovo “giro di vite” sul fenomeno delle cosiddette “dimissioni in bianco”.

Ricordiamo come, a riguardo, era già intervenuta la precedente riforma del mercato del lavoro Legge n. 92/2012 (Legge Fornero) che aveva introdotto la procedura di convalida delle dimissioni volontarie quale strumento che, nelle more di accertare la genuina volontà del recesso da parte del lavoratore, si configurava, fino al 11 marzo 2016, un valido strumento che permettesse  di accertare la legittimità del recesso con una simbiotica compartecipazione delle parti all'adempimento.

Vediamo com’è articolata la nuova procedura per le dimissioni e le risoluzioni consensuali?

Il lavoratore può procedere personalmente oppure tramite soggetti individuati dalla norma.

Nel caso in cui decidesse di procedere direttamente dovrà:

munirsi di Pin Inps (se non ne è già in possesso);

effettuare apposita registrazione sul portale www.cliclavoro.gov.it munendosi, in tal modo, di una user e di una password;

accedere al sito www.lavoro.gov.it per la compilazione dell'apposito modello. Nel caso in cui il rapporto sia iniziato dopo l'anno 2008, il sistema proporrà automaticamente i rapporti di lavoro esistenti, in modo da consentire al lavoratore la scelta di quello dal quale intende recedere. Al contrario, per i rapporti iniziati prima del 2008 (ante introduzione del modello “UniLav”), sarà lo stesso lavoratore a dover inserire manualmente tutti i dati necessari;

inviare telematicamente il modello, ricevendo, al contempo, un codice alfanumerico attestante
l'avvenuta trasmissione. Il modello sarà automaticamente inoltrato alla competente Direzione Territoriale del Lavoro e alla casella di posta elettronica del datore di lavoro. Da quanto indica il Dicastero di Via Flavia, con la circolare n. 12/2016, per il datore di lavoro sembrerebbe possibile indicare anche una mail “ordinaria” e non, necessariamente, un indirizzo di posta elettronica certificata.

Dal 12 marzo 2016 le dimissioni e risoluzioni consensuali dovranno essere rese “efficaci” dal lavoratore attraverso la compilazione e l'invio telematico come abbiamo visto sopra, procedura che questi, pena l'inefficacia del recesso, dovrà aver cura di adempiere per mezzo proprio o per tramite di soggetto delegato. L'utilizzo della procedura telematica costituisce, inoltre, unica modalità con cui il lavoratore, entro sette giorni dalla data di convalida del recesso, potrà anche revocare le proprie dimissioni richiamando codice identificativo della comunicazione inviata e marcata temporalmente.

La nuova procedura riguarda tutti i datori di lavoro privati con esclusione dei rapporti di lavoro domestico. La procedura di convalida ex art. 26 D.Lgs 151/2016 non riguarderà i casi di dimissioni o risoluzioni consensuali intervenute durante il periodo di congedo di maternità/paternità del soggetto lavoratore o dei primi tre anni di vita del bambino che restano soggette all'obbligo.

Vediamo di mettere  in evidenza altre criticità che la nuova norma solleva. Innanzitutto ci si chiede cosa succederebbe se il lavoratore non seguisse la procedura prevista dalla norma. In caso di mancato esperimento della procedura telematica, il datore di lavoro sarà costretto ad aprire un procedimento disciplinare – ex art. 7 della L. n. 300/1970 (Statuto dei lavoratori) – dovendo, molto probabilmente, giungere a un licenziamento disciplinare per assenze ingiustificate. Tale recesso comporterebbe, come noto, l'obbligo di pagare il “ticket di licenziamento”.

Un’altra situazione paradossale nella quale potrebbe venirsi a trovare il datore di lavoro è quella relativa all'esercizio del “diritto di ripensamento”. Immaginiamo un lavoratore che, all'improvviso, si dimette. Il datore di lavoro deve correre subito ai ripari ed effettuare una nuova assunzione. Ma il “vecchio” lavoratore, entro sette giorni, può ripensarci e revocare le dimissioni. Quale sarà la sorte del neo-assunto in “sostituzione”?

Infine, se il lavoratore vuole procedere personalmente all’invio delle dimissioni telematiche e non è già in possesso del Pin Inps, dovrà per prima cosa provvedere a tale richiesta e attendere che gli sia recapitato via posta tradizionale una parte del codice. A questo punto, il lavoratore potrebbe trovarsi nella paradossale situazione di non poter rassegnare le dimissioni, o magari a doverle procrastinare nel tempo, in quanto non ha ricevuto in tempo utile il codice pin.

mercoledì 30 marzo 2016

Dichiarazione precompilata: dichiarazioni tra 730 e UNICO 2016


L'Agenzia delle Entrate ha reso noto che dal 15 aprile saranno messe a disposizione via web 30 milioni di dichiarazioni precompilate tra 730 e Unico. Dal 2 maggio, poi, i contribuenti interessati potranno procedere a modificarle o accettarle con la modalità «fai-da-te» o delegando un Caf o un professionista abilitato.

Quest’anno l’operazione precompilata 2016 interesserà una platea potenziale di 20 milioni di pensionati, lavoratori dipendenti e assimilati, cui si aggiungono 10 milioni di contribuenti che compilano il modello Unico. Dunque, con le informazioni disponibili saranno di fatto predisposti circa 20 milioni di 730 e 10 milioni di Unico tutti precompilati. Un applicativo guiderà il contribuente fin dal primo accesso al sistema orientandolo sul modello che maggiormente risponde al suo profilo. Per far questo, saranno posti anche alcuni quesiti specifici al contribuente in modo d’aver ben chiaro a quale dichiarazione corrispondono maggiormente le sue caratteristiche.

Un dato significativo, da cui restano escluse le sole spese sanitarie per i farmaci da banco, privi della prescrizione medica. Il varo del nuovo sistema, però, merita alcune spiegazione e qualche «istruzione per l’uso».

Che cosa succede il 15 aprile? Allo scoccare della data fatidica saranno disponibili online i due modelli in versione precompilata. Il lavoratore dipendente o il pensionato può accettare il modello 730 così com’è oppure può agevolmente modificarlo o integrarlo e trasmetterlo al Fisco, dal 2 maggio al 7 luglio, direttamente dal proprio PC o delegando il sostituto d’imposta che presta assistenza fiscale, un Caf o un professionista. Se il 730 precompilato viene accettato direttamente così com’è o modificato tramite un Caf o un professionista abilitato, si chiude così la partita con il Fisco.

E per chi compila l’Unico? Il contribuente che presenta il modello Unico precompilato può modificarlo o integrarlo e trasmetterlo al Fisco, direttamente dal proprio computer, dal 2 maggio al 30 settembre.

Come si accede al modulo? Occorre utilizzare le credenziali rilasciate per i servizi telematici dell’Agenzia compreso il codice Pin. Le credenziali possono essere richieste sul sito www.agenziaentrate.gov.it, presso gli uffici territoriali delle Entrate o mediante l’App dell’Agenzia.

E per chi ha già il pin dell’Inps? In quel caso è previsto un accesso attraverso il sito dell’Istituto. Ma esiste un’altra opzione che rappresenta una novità assoluta. Si tratta di Spid, il nuovo «Sistema Pubblico di Identità Digitale», che permette ai cittadini di accedere con credenziali uniche a tutti i servizi online delle pubbliche amministrazioni e delle imprese aderenti.

E per i farmaci? In farmacia, esistono scontrini parlanti (con indicazione del farmaco) e scontrini muti. Per non far trasmettere i dati sull’acquisto di un farmaco, sarà sufficiente non comunicare il proprio codice fiscale (presente sulla tessera sanitaria) al momento dell’emissione dello scontrino. Ma ciò non darà al contribuente il diritto alla detrazione.

Il lavoratore dipendente o il pensionato potrà accettare il modello 730 precompilato così come è oppure potrà modificarlo o integrarlo e trasmetterlo al Fisco dal 2 maggio al 7 luglio, direttamente dal proprio pc o delegando il sostituto d'imposta che presta assistenza fiscale, un Caf o un professionista.

In quest'ultimo caso il contribuente chiuderà la sua partita con il Fisco: infatti, i controlli documentali saranno effettuati direttamente nei confronti dei Caf e dei professionisti ai quali i cittadini si è affidato.

I coniugi possono unire le proprie dichiarazioni precompilate e presentare il modello 730 congiunto direttamente online. Il contribuente che presenterà il modello Unico precompilato potrà modificarlo o integrarlo e trasmetterlo al Fisco, direttamente dal proprio pc dal 2 maggio al 30 settembre.

La dichiarazione precompilata si basa sulle certificazioni dei sostituti d'imposta per redditi di lavoro dipendente e assimilati, pensioni e compensi per attività occasionali di lavoro autonomo. Il modello contiene, inoltre, le informazioni presenti in Anagrafe tributaria relative alle spese di ristrutturazione edilizia e di risparmio energetico, ai versamenti effettuati con il modello F24, alle compravendite immobiliari, ai contratti di locazione registrati e alla dichiarazione dei redditi dell'anno precedente.

Sono, inoltre, disponibili anche i dati trasmessi da altri soggetti, che riguardano alcuni oneri detraibili e deducibili sostenuti dai contribuenti, come, ad esempio, gli interessi passivi sui mutui, i premi assicurativi, i contributi previdenziali, le spese funebri, quelle mediche e universitarie.

Per accedere al modello occorre utilizzare le credenziali rilasciate per i servizi telematici dell'Agenzia compreso il codice Pin. Le credenziali possono essere richieste sul sito www.agenziaentrate.gov.it, presso gli uffici territoriali delle Entrate o mediante l'App dell'Agenzia. A queste possibilità va anche aggiunto un quarto percorso semplificato per i possessori di Smart Card / Cns. In questo caso, infatti, basta inserire la carta nel lettore e, previa registrazione, il sistema fornisce immediatamente al contribuente il Pin e la password di accesso a Fisconline. Inoltre, anche quest'anno, per agevolare i cittadini che già dispongono del Pin dispositivo dell'Inps è previsto un accesso attraverso il sito dell'Istituto.

La quinta opzione è una novità assoluta. Si tratta di Spid, il nuovo Sistema pubblico di identità digitale, che permette ai cittadini di accedere con credenziali uniche a tutti i servizi online delle pubbliche amministrazioni e delle imprese aderenti. L'agenzia delle Entrate è tra le prime amministrazioni che hanno scelto di aderire. Coloro che volessero optare per questo nuovo sistema dal 15 marzo scorso possono richiedere l'identità digitale Spid agli Identity Provider accreditati presso Agid. Inoltre, i dipendenti delle pubbliche amministrazioni che hanno aderito al sistema Noipa possono accedere con le credenziali dispositive tramite il portale Noipa. In alternativa a questa griglia di opzioni predisposte per accedere direttamente è comunque sempre possibile delegare il proprio sostituto di imposta disponibile ad effettuare l'assistenza fiscale, un Caf o un professionista abilitato.

sabato 26 marzo 2016

Dimissioni on line istruzioni e casi particolari


A partire dal 12 marzo 2016 le dimissioni volontarie e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro dovranno essere effettuate in modalità esclusivamente telematiche, tramite una semplice procedura online accessibile dal sito Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

La compilazione del modello è semplice: bisogna inserire generalità di lavoratore e datore di lavoro, data inizio rapporto, contratto applicato, tipo di comunicazione (dimissioni, risoluzione, revoca) e relativa data di decorrenza. Va inviato alla casella PEC (Posta elettronica certificata) del datore di lavoro, attraverso le specifiche tecniche indicate nel decreto. Il lavoratore ha 7 giorni per revocare le dimissioni dal momento dell’invio, con le stesse modalità.

La pratica che si vuole combattere è quella delle dimissioni in bianco, che consiste nel far firmare al dipendente un foglio di dimissioni senza data, spesso proprio al momento nell’assunzione, che l’impresa può quindi utilizzare in qualsiasi momento. Il fenomeno, storicamente, riguarda le lavoratrici donne, per costringerle a dimettersi in caso di maternità.

Le dimissioni con formato esclusivamente digitale hanno data certa, è impossibile “preconfezionarle”. Dal 12 marzo, quindi, non sarà più possibile attuare dimissioni “forzate” perché il documento ha un codice identificativo e una data di trasmissione, che impediscono pratiche come quella delle dimissioni in bianco.

Le nuove norme non si applicano al lavoro domestico e alle dimissioni nelle sedi di cui all’articolo 2113, IV comma del codice civile o davanti alle commissioni di certificazione. Le dimissioni delle lavoratrici in gravidanza o nei primi tre anni di vita del bambino restano da convalidare dal Ministero del Lavoro.

Le nuove norme non si applicano al lavoro domestico e alle dimissioni nelle sedi di cui all’articolo 2113, IV comma del codice civile o davanti alle commissioni di certificazione. Le dimissioni delle lavoratrici in gravidanza o nei primi tre anni di vita del bambino restano da convalidare dal Ministero del Lavoro.

Chiarimenti e istruzioni operative per la presentazione delle dimissioni online, obbligatorie dal 12 marzo 2016, il Ministero del Lavoro ha chiarito innanzitutto che il lavoratore può scegliere fra due opzioni:

inviare il modulo attraverso il sito del Ministero con PIN INPS dispositivo,

rivolgersi a un soggetto abilitato (CAF, patronati, professionisti).

Sul sito web ministeriali sono presenti a questo scopo videotutorial con tutte le indicazioni per il contribuente e per gli intermediari.

Si ricorda che l’obbligo di dimissioni telematiche riguarda solo il settore privato e non il pubblico impiego. Sono inoltre esclusi il lavoro domestico e le dimissioni o accordi conclusi in sede conciliativa. Utilizzano le nuove modalità di invio delle dimissioni anche gli assunti a tempo determinato, nel caso di dimissioni precedenti alla scadenza del contratto.

Nel caso in cui le dimissioni siano state presentate prima del 12 marzo ma abbiano effetto successivamente, non scatta la nuova procedura (si applicano le vecchie regole previste dalla legge 92/2012).

Il modulo di dimissioni è caratterizzato dalla data di trasmissione e da un codice identificativo: il lavoratore può revocarlo entro sette giorni. La consultazione della domanda di dimissioni telematiche è permessa solo al datore di lavoro e alla DTL (direzione territoriale del lavoro) competente.

Casi particolari
Se il lavoratore si ammala dopo aver dato le dimissioni, dovendo posticipare la data di chiusura del rapporto, ma sono già passati i sette giorni utili per correggere le dimissioni: il dipendente in questo caso non deve fare nulla e le dimissioni restano valide; sarà il datore di lavoro a calcolare la nuova data di fine rapporto e inserirla nella comunicazione.

In generale, è sempre possibile spostare la data di cessazione del rapporto, anche sulla base di semplici accordi fra dipendente e impresa, e non c’è bisogno di ritirare le dimissioni e inviare una nuova pratica: sarà sempre azienda a scrivere la data pattuita nella comunicazione di fine rapporto.
Esodi volontari sulla base di accordo sindacale aziendale: non trova applicazione la nuova procedura; tutti gli accordi raggiunti in sede extragiuziale sono validi e non prevedono l’obbligo di dimissioni telematiche.

La data da indicare nel modulo da compilare per le dimissioni on line, come emerge in una delle FAQ aggiornate dal Ministero del Lavoro, è quella di decorrenza delle dimissioni, ovvero quella a partire dalla quale, decorso il periodo di preavviso, il rapporto di lavoro cessa. Pertanto, la data da inserire sarà quella del giorno successivo all’ultimo giorno di lavoro. Inoltre, sul preavviso, le FAQ aprono alla possibilità che la data indicata nel modulo sia discordante rispetto a quella di effettiva cessazione del rapporto di lavoro.

Se il lavoratore non procede alla sottoscrizione della comunicazione entro 7 giorni dalla sua ricezione e non si presenta presso la Direzione Territoriale del Lavoro, del Centro per lʼImpiego o presso il datore di lavoro per sottoscrivere la ricevuta della “Comunicazione telematica di cessazione”, le dimissioni o la risoluzione del contratto sono da ritenersi nulle.

Un modulo di dimissioni volontarie specifico da inviare al Ministero del Lavoro tramite le Direzioni Territoriali del lavoro, Centri per l'impiego, Comuni, Sindacati o patronati, uguale per tutta Italia e redatto secondo le disposizioni del DL del 21 gennaio 2018.

Come funziona l'invio del modulo telematico? Il lavoratore/lavoratrice deve compilare il modulo dimissioni ed inviarlo online, utilizzando la seguente procedura:

A) Se possiede il PIN dispositivo INPS:

1) creando un proprio account sul portale www.ClicLavoro.it;

2) una volta creato l'account, accedere al portale www.lavoro.gov.it  e nello specifico al form on-line per la trasmissione della comunicazione, oppure ad un modulo precedente inviato per la revoca;

3) Compilare il modulo dimissioni o risoluzione consensuale tramite PEC al datore di lavoro e alla Direzione territoriale competente.

B) Se non si possiede il PIN INPS, la trasmissione telematica del modulo dimissioni può essere eseguita rivolgendosi a: Patronati, Sindacati, Enti bilaterali; Commissioni di certificazione.

Una volta confermati i dati inseriti, il modello potrà essere salvato in formato PDF e sarà inviato automaticamente al datore di lavoro e alla Direzione territoriale competente, dal seguente indirizzo dimissionivolontarie@pec.lavoro.gov.it.


venerdì 25 marzo 2016

Legge n. 104, licenziamento legittimo per chi usa alcune ore per fini personali


Legittimo il licenziamento per il beneficiario dei permessi della legge 104 che utilizzi una parte del tempo non per assistere il congiunto malato ma per propri interessi, ovvero è legittimo il licenziamento per giusta causa del lavoratore, il quale, fruendo dei permessi retribuiti previsti dalla legge 104 del 1992 e anche in assenza di un comportamento ambiguo, usufruisca solo parzialmente del tempo totale concesso per l'assistenza al parente. A dirlo è la sentenza 5574/16 della Corte di Cassazione, depositata il 22 marzo 2016.

La natura illecita dell'abuso del diritto a fruire dei permessi per l'assistenza dei congiunti e il ragionevole sospetto che il lavoratore ne abbia abusato, legittimano il ricorso al controllo occulto c.d. "difensivo" ad opera del datore di lavoro.

Ricordiamo che anche dopo la riforma del 2010, il lavoratore dipendente può chiedere i permessi retribuiti, come previsti dalla legge, solo a condizione che presti assistenza continuativa ed esclusiva ad un familiare disabile. Egli deve utilizzare tutto il giorno per sopperire alle esigenze del familiare bisognoso, non potendo invece adempiere, nello stesso tempo, anche solo in minima parte, ad necessità proprie.

Pertanto, chiunque utilizzi i permessi mensili per scopi personali o comunque estranei a quelli per i quali sono stati concessi (appunto l’assistenza al parente), manifesta disinteresse verso le esigenze aziendali e verso i principi di correttezza e buona fede previsti dal contratto di lavoro.

Con una importante sentenza, la Cassazione ha ribadito un interessante principio in tema di licenziamento disciplinare, affermando che deve ritenersi legittimo il recesso datoriale a fronte della condotta di un dipendente che, autorizzato a fruire dei permessi per l’assistenza al familiare disabile, a fronte di 24 ore di permessi retribuiti concessi, tenga una condotta compatibile con le motivazioni assistenziali poste a sostegno della richiesta solo per poche ore rispetto al tempo totale; ed invero, tale condotta, dimostrando un sostanziale disinteresse del lavoratore per le esigenze aziendali, è idonea ad integrare una grave.

Non serve a giustificare il fatto di aver assolto, anche solo in parte, all’obbligo dell’assistenza del familiare con l’handicap. Questo aspetto – si legge in sentenza – non connota di minore gravità la condotta del dipendente “bugiardo”. Il licenziamento è ugualmente valido. La condotta di chi utilizzi anche solo alcune delle ore dei permessi per scopi personali è – secondo la Corte – oggettivamente grave, tale da determinare nel datore di lavoro la perdita di fiducia nei successivi adempimenti e idoneo a giustificare il licenziamento senza preavviso (cosiddetto licenziamento per giusta causa).

In verità, nella vicenda, il lavoratore si era limitato a fare assistenza al familiare solo per 4 ore e 13 minuti al giorno, pari al 17,5% del tempo totale. Sembra essere proprio questo l’elemento che più pesi nella valutazione dei giudici sulla legittimità del licenziamento, facendo quasi ritenere che una assistenza più intensa avrebbe evitato tanti problemi al lavoratore. La Corte, insomma, sottolinea, nel caso di specie, soprattutto l’irregolarità, sia in termini di fascia oraria, sia in termini di durata della permanenza presso il familiare. Quattro ore – pari a tutta la mattinata – vengono ritenute del tutto insufficienti per adempiere ai propri obblighi. Sarebbe stata necessaria una maggiore presenza.

Una condotta di abuso a cui il lavoratore aveva fatto ricorso e che aveva considerato, quindi, legittimo il recesso datoriale per giusta causa. La tesi del Giudice di primo grado era stata fatta poi propria anche dalla Corte d'appello, a cui il lavoratore si era rivolto. Per il Giudice di secondo grado, in particolare, la sanzione irrogata doveva ritenersi “proporzionata all'evidente intenzionalità della condotta e alla natura della stessa, indicativa di un sostanziale e reiterato disinteresse del lavoratore rispetto alle esigenze aziendali e dei principi generali di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, senza che potesse rilevare in senso contrario, stante l'idoneità della condotta a ledere il rapporto fiduciario, la sussistenza di un marginale assolvimento dell'obbligo assistenziale”.

Nel valutare i motivi di ricorso del lavoratore licenziato, tutti respinti, la Cassazione si è concentrata in particolare sul rilievo secondo cui in appello sarebbe stato trascurato il fatto che il dipendente non aveva avuto alcuna intenzione di non prestare assistenza al familiare, essendosi anzi regolarmente recato da lui e non essendosi allontanato dalla propria abitazione per momenti di svago o per andare a svolgere altre attività lavorativa, con ciò violando il disposto degli articoli 1175, 1375 e 2119 del codice civile. Secondo il ricorrente, in buona sostanza, la condotta da lui posta in essere, qualora fosse “suscettibile, per ipotesi, di rilievo disciplinare, non poteva certamente, in assenza di un consapevole intento elusivo, condurre all'applicazione della sanzione espulsiva”.

Una censura a cui per i giudici la sentenza di appello si sottrae dal momento che la sussistenza dei requisiti per la concessione dei permessi e la valutazione della condotta successiva del tenuta del lavoratore che li ha ottenuti restano due elementi distinti, “ben potendo il datore di lavoro procedere a una propria autonoma valutazione di tale condotta nell'ottica del rispetto del canone di buona fede che presiede all'esecuzione del contratto di lavoro”. In questo contesto il fatto che il lavoratore abbia tenuta una condotta compatibile con le motivazioni assistenziali alla base delle legge non incide sulla giusta causa di recesso datoriale, “risultando dagli indici di fatto accertati nella sentenza impugnata, sia relativi alla percentuale del tempo destinato all'attività di assistenza rispetto a quella totale dei permessi, sia relativi ad altre modalità temporali in cui tale attività risulta prestata” la presenza di “un evidente, quanto anch'essa incontestata irregolarità sia in termini di fascia oraria, sia in termini di durata della permanenza”.

In conclusione l'uso improprio del permesso per l'assistenza dei congiunti giustifica il licenziamento per giusta causa in quanto compromette irrimediabilmente il vincolo fiduciario indispensabile per la prosecuzione del rapporto di lavoro.


martedì 23 febbraio 2016

Pensioni cosa cambia dal 2016



Aumentano dal 2016 i requisiti per andare in pensione, in attuazione dell’adeguamento alle speranze di vita, con quattro mesi in più di età e un adeguamento di 0,3 punti per chi ancora si ritira con il sistema delle quote: la circolare INPS 63 del 20 marzo 2015 spiega nel dettaglio tutti i requisiti per le pensioni delle varie categorie di lavoratori (uomini o donne, dipendenti o autonomi). Vediamo con precisione come si alza dal primo gennaio 2016 l’età pensionabile per le pensioni di vecchiaia, di anzianità, e per la pensione anticipata.

Quattro mesi in più per una «aspettativa di vita» che si va naturalmente allungando. E che fa salire di quattro mesi, appunto, il tempo per andare in pensione: non più i 66 anni e tre mesi di età fissati fino al 2015, ma 66 anni e sette mesi che saranno invece necessari dal primo gennaio prossimo per lasciare il lavoro. Prolungamento imposto più che consigliato dalla crescita della cosiddetta «aspettativa media di vita», che è diventata parametro fondamentale del sistema previdenziale Inps. Attenzione, i quattro mesi in più si sommano sia al minimo di età richiesto per l'assegno di vecchiaia che al minimo di anni di contributi per la pensione anticipata.

Comunque il risultato finale, come spiega una circolare dell'Inps, è che tra il 2016 e il 2018 gli uomini andranno in pensione di vecchiaia a 66 anni e sette mesi (minimo venti anni di contributi). Le donne del settore privato dovranno avere 65 anni e sette mesi (66 anni e sette mesi nel 2018), mentre le lavoratrici autonome dovranno aver raggiunto un'età di 66 anni e un mese (66 anni e sette mesi nel 2018). Per le dipendenti pubbliche l'assegno di vecchiaia è fissato con i tempi degli uomini: 66 anni e sette mesi. Cresce sempre di fatidici quattro mesi anche il massimo di età in base al quale il lavoratore dipendente può chiedere di restare sul posto di lavoro: a partire dal 2016 sarà di 70 anni e sette mesi. Serviranno ancora quattro mesi in più per acquisire la pensione di vecchiaia prevista per chi ha iniziato a lavorare dopo il 1995, cioè con l'avvio del sistema contributivo. Si va da 63 anni e tre mesi a 63 anni e sette mesi. Comunque e sempre in presenza di almeno 20 anni di contributi già versati.

Un sistema che fissa anche altri principi. Per esempio, quello riguardante le regole della pensione anticipata. Per lasciare il lavoro, rispetto all'assegno di vecchiaia, gli uomini devono avere attualmente almeno 42 anni e sei mesi di contributi mentre per le donne sono sufficienti 41 anni e sei mesi. Regole che resteranno sino alla fine di quest'anno. Poi, dall'anno prossimo, il requisito sarà innalzato a 42 anni e dieci mesi per gli uomini e 41 anni e dieci mesi per le donne. Cioè queste ultime potranno contare su uno sconto di un anno.La riforma Fornero oltre a fissare una serie di penalizzazioni rispetto alla pensione anticipata, è alla base delle tabelle elaborate dalla Ragioneria generale dello Stato che fotografano il progressivo status del sistema fino al 2050 tenendo conto naturalmente dell'ormai imprescindibile parametro della «speranza di vita». In base a queste stime l'età per la pensione di vecchiaia salirà progressivamente fino a 70 anni nel 2050, quando gli anni di contributi necessari per raggiungere la pensione anticipata saranno arrivati a quota 46 e tre mesi. Intanto ieri il presidente dell'Inps Tito Boeri ha annunciato entro giugno una proposta di riforma per introdurre più flessibilità nell'età.

Ciò significa che dal 1° gennaio 2016 verranno rivisti i requisiti per il conseguimento della pensione di anzianità, quello per la maturazione della pensione di vecchiaia (ovvero 65 anni per gli uomini e per le donne del pubblico impiego e 60 anni per le donne del privato), il requisito anagrafico dei 65 anni per la pensione con il sistema contributivo e il requisito dei 40 anni di contributi ai fini della maturazione del diritto all'accesso al pensionamento indipendentemente dall'età anagrafica.

In pratica età e anzianità contributiva sono aggiornate in funzione dell’incremento della speranza di vita – 65 anni – in rifermento alla media della popolazione residente in Italia, accertata dall’Istat in relazione al triennio di riferimento. L’emendamento prevede che, nella prima applicazione, l’aggiornamento non può essere in ogni caso superiore a tre mesi e che lo stesso non viene effettuato nel caso di diminuzione della speranza di vita.


domenica 21 febbraio 2016

Tfr: istruzioni per chi cambia lavoro


Per chi cambia lavoro, la Covip (Commissione di vigilanza dei fondi pensione) ha definito le procedure che il datore e il lavoratore devono attivare in merito alla destinazione del TFR. Ecco come gestire il TFR in caso di dimissioni volontarie del lavoratore che cambia azienda: i doveri del nuovo datore di lavoro e del dipendente.

In caso di assunzione di un dipendente proveniente da un’altra azienda, nella quale era impiegato con contratto a tempo indeterminato, uno degli aspetti da gestire è il Trattamento di Fine Rapporto. A definire le procedure di destinazione dell’accantonamento del TFR alle quali sono chiamati il vecchio e il nuovo datore di lavoro, nonché il dipendente interessato, è la COVIP (Commissione di vigilanza dei fondi pensione).

Il nuovo datore di lavoro dovrà richiedere al nuovo assunto una dichiarazione che attesti la scelta effettuata in tema di TFR nei precedenti rapporti lavorativi:
se ha destinato il TFR ad una forma di previdenza complementare;
se è stato lasciato in azienda.

Il vecchio datore dovrà invece fornire una dichiarazione che confermi la scelta effettuata dal dipendente, da allegare alla dichiarazione fornita dal lavoratore stesso. Qualora non fosse possibile ottenere tale dichiarazione, il lavoratore potrà documentare la scelta effettuata presentando la copia del modulo sottoscritto a tempo debito, o del modulo di adesione ad un fondo pensione.

Dovrà comunicare al lavoratore le opzioni disponibili per il TFR;
fornirgli l’apposito modulo se, nei precedenti rapporti, ha destinato il TFR alla previdenza complementare e successivamente ha perso i requisiti per parteciparvi, senza riscattare la propria posizione;

conservare la sua dichiarazione, rilasciandogliene copia controfirmata;

attestarne la scelta al momento della cessazione del rapporto di lavoro.

Il lavoratore:
deve consegnare al nuovo datore di lavoro la dichiarazione relativa alla scelta di destinazione del proprio tfr operata nei precedenti rapporti lavorativi
deve confermare o indicare una scelta, tra le opzioni possibili, per la destinazione del TFR.

Le opzioni possibili
Ecco le opzioni per la destinazione del tfr, tra le quali possono orientarsi i lavoratori che iniziano un nuovo rapporto di lavoro.

Chi nei precedenti rapporti di lavoro aveva mantenuto il tfr in azienda, può confermare questa scelta oppure, all’assunzione o in qualsiasi altro momento, decidere di destinare il tfr ad un fondo pensione.

Chi nei precedenti rapporti di lavoro aveva destinato il tfr ad un fondo pensione e, cessato quel rapporto di lavoro, ha riscattato interamente la posizione individuale, deve attestare di aver completato questa procedura. Inoltre, entro 6 mesi dall’assunzione, deve di nuovo scegliere la destinazione per il proprio tfr. Nel caso in cui non faccia la sua scelta entro questo termine, dal mese successivo il tfr sarà destinato integralmente al fondo pensione negoziale o, in mancanza di esso, all’apposito fondo istituito presso l’Inps (FondInps), mentre la parte maturata nei primi 6 mesi di lavoro resterà in azienda.

Per il lavoratore che ha destinato l’intero tfr ad un fondo pensione e non ha poi riscattato la posizione individuale al termine dell’impiego, ci sono due opzioni. E’ possibile che la scelta fatta in precedenza resti valida anche per il nuovo datore. Se invece il nuovo rapporto di lavoro fa perdere i requisiti di iscrizione al fondo pensione, entro 6 mesi il lavoratore dovrà obbligatoriamente indicare la sua scelta.

Gli effetti di questa decisione saranno validi a partire dalla data di assunzione. Nel caso in cui non faccia la sua scelta entro questo termine, il tfr che matura a partire dalla data dell'assunzione verrà destinato integralmente al fondo pensione negoziale o, in mancanza di esso, al fondo istituito presso l’Inps (FondInps).

Chi aveva destinato una parte del tfr ad un fondo pensione e non lo ha riscattato al momento della cessazione del rapporto di lavoro, può mantenere questa opzione, nella stessa misura, se il contratto nazionale di lavoro applicato è lo stesso o se quello nuovo lo consente. La parte rimanente del tfr resta in azienda. Il lavoratore può anche scegliere di destinare integralmente il tfr al fondo prescelto. In ogni caso, entro 6 mesi dovrà indicare la forma pensionistica scelta, con effetto dalla data dell'assunzione. Se non lo fa entro questo termine, il tfr – dalla data di assunzione – andrà integralmente al fondo pensione negoziale o, in mancanza di esso, al fondo istituito presso l’Inps (FondInps).

venerdì 22 gennaio 2016

Pa: licenziamenti in 30 giorni per gli assenteisti



I dipendenti pubblici sorpresi in flagranza nella falsa attestazione della presenza in servizio dovranno essere sospesi in via cautelativa dal servizio entro 48 ore.

I truffatori del cartellino presenze per poi non lavorare o quelli che vengono sorpresi a compiere altri illeciti di carattere disciplinare saranno sospesi dal lavoro e dalla retribuzioni entro due giorni. Ma non solo: allo stesso tempo prenderanno avvio sia la  procedure per il licenziamento  che l’esame della Corte dei Conti per valutare il possibile danno erariale.

Quindi per i tuffatori del cartellino oltre al licenziamento sono previste anche delle multe piuttosto costose che arrivano fino a sei mesi di stipendi nel caso in cui il loro comportamento arrechi danni all'immagine dell’amministrazione per cui lavorano. Confermato il licenziamento e la sospensione della paga entro 48 ore per chi timbra e poi se ne va, inoltre rischia il licenziamento anche il dirigente che non denuncia l’illecito compiuto da un dipendente. Il procedimento per il licenziamento dovrà chiudersi entro un mese al massimo, al contrario di quanto avviene oggi che può arrivare a durarne quattro di mesi.

Lo schema di decreto legislativo sul licenziamento disciplinare presenta aspetti di significativa novità rispetto alla disciplina vigente, che pure non manca di specifiche disposizioni volte a reprimere condotte abusive da parte dei lavoratori pubblici sul rispetto dell'orario di lavoro.

Sospensione cautelare senza stipendio e contraddittorio entro 48 ore da quando viene accertata la falsa attestazione della presenza in servizio; e contestuale avvio del procedimento disciplinare, che dovrà concludersi entro 30 giorni.

La condotta della «falsa attestazione» sul luogo di lavoro rileverà anche davanti alla Corte dei conti, con l'introduzione dell'azione di responsabilità «per danno d'immagine» della Pa nei confronti del dipendente assenteista (che se condannato dai magistrati contabili dovrà corrispondere all'erario minimo sei mensilità di stipendio, oltre interessi e spese di giustizia).

La attestazione della presenza verrà accertata, dal dirigente o dall'Ufficio procedimenti disciplinari, in caso di flagranza o mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi.

Le nuove norme contro gli “assenteisti” contengono pure una stretta sul dirigente responsabile dell'ufficio del dipendente infedele. Il capo struttura o l'Ufficio procedimenti disciplinari dovranno sospendere immediatamente il “travet” entro 48 ore. Contestualmente dovranno avviare il procedimento disciplinare “accelerato”.

Le nuove norme prevedono che la mancata sospensione cautelare e la mancata attivazione del procedimento disciplinare tramite segnalazione all'Upd possono essere causa di licenziamento per lo stesso dirigente. Oggi i dirigenti hanno l'obbligo di attivare un procedimento disciplinare, dopo aver compiuto la valutazione del caso. Se non lo fanno, però, senza motivo fondato e ragionevole, al massimo sono soggetti a una sospensione fino a tre mesi e alla perdita della retribuzione di risultato. Oltre al rischio licenziamento, la bozza di Dlgs definisce l'inerzia del capo struttura espressamente come «omissione di atti di ufficio», richiamando una fattispecie penale.

E se c定 gi・chi ha posto il problema del diritto alla difesa del lavoratore, dal ministero non si scompongono: la sospensione cautelare avviene entro le 48 ore, ma poi ci sarà un mese di tempo per difendersi  e trovare buona spiegazione alla propria assenza. Altrimenti, dopo trenta giorni si ・fuori.

Le polemiche arrivano dopo che la Cassazione ha stabilito che lo Statuto dei lavoratori, comprese le successive modifiche, si applica interamente agli statali . Vale a dire che, essendo stato abolito l’articolo 18, se licenziati avranno diritto al reintegro nel posto di lavoro solo in casi eccezionali. Un effetto collaterale che Marianna Madia, ministro della Pubblica amministrazione, ha sempre negato sostenendo che quella parte del Jobs Act non si applica al pubblico impiego in quanto è una differenza sostanziale che ・il tipo di datore di lavoro・

Si introduce, infatti un termine,  30 giorni  dalla trasmissione della notizia della condotta fraudolenta del dipendente all'ufficio preposto, entro il quale il procedimento si deve concludere e di un termine,  15 giorni  dall'avvio del procedimento disciplinare, per  la denuncia al pubblico ministero e la segnalazione alla competente procura regionale della Corte dei conti per la valutazione dell'entità del danno risarcibile. L'azione di responsabilità esercitata, entro in centoventi giorni  successivi alla denuncia, senza possibilità di proroga.

Si prevede inoltre che l'ammontare del danno risarcibile sia rimesso alla valutazione equitativa del giudice anche in relazione alla rilevanza del fatto per i mezzi di informazione e comunque l'eventuale condanna non può essere inferiore a  sei mensilità dell'ultimo stipendio in godimento, oltre interessi e spese di giustizia.

Contro l'inerzia dei dirigenti nell'attivazione della sospensione dei dipendenti in flagranza e dell'avvio del procedimento disciplinare il decreto introduce inoltre una  fattispecie disciplinare  punibile con il  licenziamento  oltre a divenire una omissione di atti di ufficio con fonti di ulteriori responsabilità・degli interessati.



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