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lunedì 23 gennaio 2017

Cessione ramo d'azienda e demansionamento



Ancora sentenza della Corte di Cassazione conferma: l’onere della prova del demansionamento grava sul lavoratore. Nel caso specifico la sentenza n. 1778/2017 ha analizzato un caso di modifica delle mansioni in occasione di una cessione di ramo d’azienda. Nella fattispecie, l’assegnazione di diversa attività aveva  riguardato l’intero personale. Tuttavia, per ottenere un risarcimento, è il singolo lavoratore a dover dimostrare l’effettiva presenza dei presupposti di demansionamento, così da ottenere il risarcimento del relativo danno.

In materia di cessione del ramo d'azienda, la Corte di Cassazione ha chiarito che la stessa deve considerarsi operante qualora, oltre al profilo dipendente, lo stesso riguardi anche i beni materiali. Nello specifico la Suprema Corte, con la Sentenza n. 1316 del 19 gennaio 2017, ha precisato che ai fini dell'operatività del trasferimento/cessione del ramo d'azienda risulta necessario che lo stesso interessi, oltre al profilo dipendente, anche i beni materiali che risultino essenziali e necessari per lo svolgimento dell'attività ceduta. Diversamente non può considerarsi operante l'istituto in parola, cosi? come definito dall'art. 2112 c.c.

Nello specifico caso, dunque, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso del lavoratore in quanto non verificabile il danno professionale lamentato, né il preteso danno alla salute. Nella sentenza, la Corte ricorda comunque che:

“È indubbio che l’assegnazione a mansioni inferiori rappresenti fatto potenzialmente idoneo a produrre una pluralità di conseguenze dannose, sia di natura patrimoniale che di natura non patrimoniale. Ed infatti, l’inadempimento datoriale può comportare un danno da perdita della professionalità di contenuto patrimoniale che può consistere sia nell’impoverimento della capacità professionale del lavoratore e nella mancata acquisizione di un maggior saper fare, sia nel pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali

Ed inoltre, il demansionamento è potenzialmente idoneo a pregiudicare beni di natura immateriale, anche ulteriori rispetto alla salute, atteso che, nella disciplina del rapporto di lavoro, numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata del lavoratore, con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, con la configurabilità di una danno non patrimoniale risarcibile ogni qual volta vengano violati, superando il confine dei sacrifici tollerabili, diritti della persona del lavoratore oggetto di peculiare tutela al più alto livello delle fonti: particolare rilievo assumendo, a questo proposito, la dignità personale del lavoratore che costituisce diritto Corte di Cassazione – copia non ufficiale inviolabile, a norma degli artt. 2, 4 e 32 Cost.

Sicché, la lesione di tale diritto, rappresentata dai pregiudizi alla professionalità da dequalificazione che si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall’impresa, ha attitudine generatrice di danni a contenuto non patrimoniale, in quanto idonea ad alterare la normalità delle relazioni del lavoratore con il contesto aziendale in cui opera, del cittadino con la società in cui vive, dell’uomo con se stesso (Cass. 12 giugno 2015, n. 12253)”.

Tuttavia, chiarita l’astratta potenzialità lesiva dell’assegnazione a mansioni inferiori ad opera del datore di lavoro, i giudici Supremi precisano che:

“La produzione di siffatti pregiudizi è soltanto eventuale, non derivando automaticamente dall’inadempimento datoriale l’esistenza di un danno solo in ragione della potenzialità lesiva dell’atto illegittimo: e pertanto esso non è ravvisabile in re ipsa, ma esige una specifica allegazione dell’esistenza di un pregiudizio, sicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore l’onere di fornire la prova del danno e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale (Cass. s.u. 24 marzo 2006, n. 6572; Cass. 30 settembre 2009, n. 20980; Cass. 26 gennaio 2015, n. 1327).

Il che non esclude che, ferma la dimostrazione del danno da demansionamento in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, la prova possa avvenire anche per presunzioni, per la quale dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionannento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (Cass. 19 settembre 2014, n. 19778; Cass. 10 aprile 2010, n. 8893): purchè, si intende, oggetto di specifica allegazione dal lavoratore (Cass. 23 settembre 2016, n. 18717)”.

Ricordiamo che con sentenza n. 21711, la Cassazione ha precisato che il trasferimento a un altro datore di lavoro di una serie di contratti di lavoro eterogenei, rappresenta cessione di ramo d'azienda solo se prima del negozio tra cedente e cessionario questi contratti configuravano una vera e propria struttura aziendale con autonomia funzionale e produttiva: in mancanza di questi elementi, il trasferimento è una mera esternalizzazione.

La Cassazione, ha inoltre ribadito la natura di retribuzione differita del Tfr, sostiene che in caso di cessione di ramo di azienda assoggettata al regime previsto dall'articolo 2112 del Codice civile, il datore di lavoro cedente rimane obbligato nei confronti del lavoratore suo dipendente, il cui rapporto prosegua con il datore di lavoro cessionario, per la quota di trattamento di fine rapporto maturata durante il periodo di rapporto con lui svolto e calcolato fino alla data del trasferimento d'azienda. Viceversa, il datore di lavoro cessionario è obbligato per questa stessa quota soltanto in ragione e nei limiti del vincolo di solidarietà previsto dall'articolo 2112, comma 2. Infine, conclude l'estensore, quest'ultimo, come datore di lavoro cessionario, è l'unico obbligato al trattamento di fine rapporto quanto alla quota maturata nel periodo del rapporto intercorso dopo il trasferimento di azienda.

domenica 15 gennaio 2017

Trasferimento o cessione d’azienda: quando si configura



Si ha il la cessione ramo d'azienda o trasferimento d'azienda quando, in seguito a operazioni quali cessione contrattuale, fusione, affitto, usufrutto, cambia il titolare della azienda stessa.

La Corte di Cassazione ha chiarito con una recente sentenza (24972/2016) che il solo trasferimento del personale da un datore di lavoro all'altro in caso di cambio di appalto non basta a definire un trasferimento d’azienda, che si configura invece se l’assunzione di lavoratori in caso di cambio di soggetto appaltatore viene accompagnata anche da un passaggio di beni di non trascurabile entità, ovvero tale da rendere possibile lo svolgimento di una specifica impresa.

La cessione di azienda comprende cose materiali (mobili ed immobili) e immateriali, compreso l’avviamento, i rapporti di lavoro con il personale, crediti e debiti con la clientela: elementi tutti unificati in senso funzionale dalla volontà del titolare, con riguardo alla loro destinazione al comune fine dell’intrapresa attività imprenditoriale. L’azienda può sussistere anche se, essendo di nuova formazione, non abbia ancora iniziato a funzionare come organismo aziendale o, se essendo già in esercizio, abbia temporaneamente cessato di funzionare. La mancanza dell’esercizio esclude l’esistenza dell’impresa non dell’azienda. L’azienda, infatti, esiste nel momento in cui il complesso dei beni organizzati è idoneo al fine cui è destinato: l’esercizio dell’impresa.

Con il contratto di cessione d’azienda il cedente trasferisce il complesso aziendale ad un acquirente, il cessionario, dietro corrispettivo. L’azienda viene ceduta unitariamente, con debiti e crediti (a meno che non sia contrariamente convenuto), e con subentro nei rapporti contrattuali in essere. Nel contratto può essere disposto il divieto di concorrenza in capo all'alienante affinché chi vende l’azienda (l’alienante) non eserciti una concorrenza sleale nei confronti dell’acquirente. Il divieto in genere è stabilito per un periodo di cinque anni. Formalmente, la cessione dell’azienda richiede l’autenticazione delle firme, secondo quanto dispone la legge n. 310/1993: il contratto è quindi effettuato necessariamente in forma scritta.

Ma quali sono gli elementi che deve contenere il contratto di cessione di azienda? Proviamo a schematizzarli. Nelle premesse del contratto si dovrà indicare che:

il cedente  deve dichiararsi titolare del complesso dei beni organizzati in azienda, specificando anche il tipo di attività che svolge l’azienda;

il cedente deve dichiarare di voler cessare l’attività e di avere interesse a reperire chi è disponibile ad acquistare tale azienda;

il cessionario deve, a sua volta, dichiararsi disponibile ad acquistare la predetta azienda.

Fondamentalmente la Corte di Cassazione ha chiarito che un’azienda è sicuramente fatta anche di beni immateriali, ma non può certamente essere ridotta solo ad essi a fronte dell’articolo 2555 del Codice Civile che nella stessa nozione di azienda richiama la necessità anche di beni materiali organizzati tra loro in funzione dell’esercizio dell’impresa, organizzazione di fatto impraticabile in caso di strutture fisiche di trascurabile entità o mancanti del tutto, giacché organizzare significa coordinare tra loro i fattori della produzione (capitale, beni naturali e lavoro) e non uno solo.

Alcune precedenti sentenze della Corte di Cassazione sono arrivate tuttavia a sperimentare la massima dilatazione possibile di nozione di trasferimento d’azienda fino a estenderla alla cessione avente ad oggetto solo un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed organizzati tra loro, la cui autonoma capacità operativa sia assicurata dal fatto di essere dotati di un particolare know how.

Nel caso specifico analizzato dalla Corte, ad essere trasferito non era stato certamente un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed organizzati tra loro.

In più, ricordano i giudici supremi ,l’art. 29 co. 3 0 d.lgs. n. 276/03 prevede che:

“L’acquisizione del personale già impiegato nell'appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto d’appalto, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda”.

Dunque la mera assunzione, da parte del subentrante nell'appalto, non integra di per sé trasferimento d’azienda ove non si accompagni alla cessione dell’azienda o di un suo ramo autonomo intesi nei sensi di cui sopra.

Quando vi è la cessione dell'azienda (o di un ramo di essa) cambia il titolare dell'attività e quindi cambia il datore di lavoro. La legge tutela il lavoratore con alcune disposizioni specifiche e prevede che:

il rapporto di lavoro non si estingue, ma continua con il nuovo titolare dell'azienda; il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano; il lavoratore può chiedere al nuovo datore di lavoro il pagamento dei crediti da lavoro che aveva maturato al momento del trasferimento; il nuovo datore di lavoro è pertanto obbligato in solido con il vecchio titolare per la soddisfazione di tali crediti; nel caso di stipulazione di un contratto d'appalto tra azienda d'origine e ramo trasferito, il lavoratore dipendente di questo ultimo può agire in giudizio direttamente nei confronti dell'azienda di origine per obbligarla al pagamento dei debiti che questa ha contratto con il ramo trasferito;

il nuovo titolare deve continuare ad applicare il contratto collettivo nazionale, in vigore al momento del trasferimento, fino alla sua scadenza;

la cessione o trasferimento d'azienda non costituisce motivo di licenziamento;

se la cessione si verifica in imprese che occupano più di 15 dipendenti, è obbligatorio per il datore di lavoro avvertire con comunicazione scritta, almeno 25 giorni prima dell'atto di cessione, le rappresentanze sindacali che avviano procedure di analisi e verifica necessarie alla tutela dei lavoratori , per evitare che il mancato rispetto della normativa potrebbe eludere altri istituti contrattuali e di legge, come le norme sullo Statuto del lavoratori, il collocamento dei disabili.



lunedì 1 aprile 2013

Amministrazione straordinaria alla luce della riforma del 2013. Quali tutele per i lavoratori?


Quando si parla di crisi economica di un’impresa si è di fronte ad una situazione molto complessa, ed inerenti alla situazione di crisi i mezzi di tutela individuali dei creditori sul debitore, si rivelano spesso insufficienti. Lo svolgimento di un’attività imprenditoriale determina effetti e conseguenze economiche più o meno significative nei confronti di alcuni soggetti quali fornitori, banche, clienti e i dipendenti stessi che hanno instaurato rapporti di affari con l’impresa e crediti, i quali possono essere di natura debitori sia dovuti a impegni già pagati o retribuzioni non liquidate.

La crisi economica dell’impresa ed il dissesto patrimoniale del debitore possono riflettersi e coinvolgere anche i terzi creditori, che possono ritrovarsi nell’impossibilità di realizzare, in tutto o in parte, i crediti vantati nei confronti dell’imprenditore, minacciando così i molteplici interessi collettivi coinvolti.

Un altro problema, è quello relativo all'occupazione creato dalla crisi, soprattutto se di grandi dimensioni. In ogni caso le esigenze sentite come imprescindibili dalla collettività sono necessariamente  quelle della salvaguardia dei livelli occupazionali e della tutela dei diritti dei creditori.

Amministrazione straordinaria. Con questo termine si intende la procedura di amministrazione straordinaria delle grandissime imprese insolventi, introdotta nel nostro ordinamento a seguito del flop della Parmalat, e allo scopo di disciplinarne il dissesto, così come altri dissesti di rilevantissime dimensioni. L'idea che sta alla base della procedura è che – qualora l'impresa sia grandissima, per tale intendendosi attualmente un'impresa dotata di almeno 500 dipendenti e gravata da almeno 300 milioni di euro di debiti – se ne debba tentare la ristrutturazione economico-finanziaria in ogni caso (e quindi senza verificare l'esistenza di concrete prospettive di recupero, come accade per le imprese semplicemente grandi).

Ricordiamo che la procedura ha natura amministrativa. Essa viene infatti aperta da un provvedimento governativo ed è affidata a un commissario straordinario di nomina ministeriale, che è dotato di amplissimi poteri di gestione. Tra questi poteri figura quello di predisporre un programma di ristrutturazione, di esercitare le azioni revocatorie contro gli atti dannosi per i creditori compiuti dall'imprenditore prima di essere ammesso alla procedura, e quello di proporre ai creditori un concordato come strumento per la chiusura della procedura.

Questa forma di concordato, ha un contenuto estremamente flessibile, poiché può prevedere la soddisfazione dei creditori attraverso qualsiasi forma tecnica o giuridica e anche attraverso l'attribuzione ai creditori stessi di azioni o quote della società (o di società di nuova costituzione): con ciò trasformando il debito in capitale di rischio.

Il programma di ristrutturazione deve indicare il piano industriale, descrivere le modalità di prosecuzione dell'attività, la eventuale cessione di beni e attività non strategiche, le fonti e l’ammontare dei finanziamenti o delle altre agevolazioni pubbliche  e i mutamenti degli assetti imprenditoriali, nonché modalità e tempi di soddisfacimento dei creditori, anche se con un piano di risanamento si tende al ripristino della solvibilità. In particolare il commissario deve indicare «i modi della copertura del fabbisogno finanziario con specificazione dei finanziamenti o delle altre agevolazioni pubbliche di cui è prevista l’utilizzazione».

Il commissario straordinario deve provvedere all’amministrazione dell’impresa e al compimento di ogni atto utile all’accertamento dello stato di insolvenza, sino alla sua dichiarazione con sentenza. Le procedure di amministrazione straordinaria possono attuarsi o unitamente alla procedura straordinaria relativa all'impresa capogruppo, oppure in via autonoma, secondo un programma di ristrutturazione o di cessione.

Al commissario straordinario è riconosciuta la facoltà di proporre le azioni revocatorie degli atti pregiudizievoli ai creditori anche dopo l’autorizzazione alla esecuzione del programma di ristrutturazione, purché si traducano in un vantaggio per i creditori.

Disposizioni particolari sono inoltre previste per la soddisfazione dei creditori attraverso un concordato.  Nell’ambito della proposta di concordato è infatti possibile:

suddividere in classi i creditori, secondo posizione giuridica ed interessi economici omogenei;
contemplare un trattamento diverso a seconda della classe di creditori;

ristrutturare il debito e soddisfare i creditori attraverso una varietà di strumenti; in particolare, la proposta di concordato può prevedere l’attribuzione ai creditori, o ad alcune categorie di essi o a società da questi partecipate, di azioni o quote, ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni o altri strumenti finanziari e titoli di debito;

attribuire ad un assuntore le attività delle imprese interessate dalla proposta di concordato.

Il Commissario straordinario individua l'acquirente mediante trattativa privata tra i soggetti che garantiscono la continuità del servizio nel medio periodo e la rapidità dell'intervento, e fissa il prezzo di cessione ad un valore non inferiore a quello di mercato.

Per quanto riguarda la tutela dei lavoratori di solito si estende la durata massima dei trattamenti di integrazione salariale straordinaria e di mobilità per il personale con lo scopo di tutelare il reddito dei lavoratori e delle loro famiglie con la continuità degli ammortizzatori sociali, salvaguardando la coesione sociale. Cassa integrazione straordinaria è una prestazione economica erogata dall’Inps per integrare o sostituire la retribuzione dei lavoratori al fine di fronteggiare gravi situazioni di eccedenza occupazionale

Bisogna ricordare che con la riforma del lavoro che è entrata in vigore il 1 gennaio 2013 tra le novità che interessa la cassa integrazione straordinaria è la sua soppressione, dal 1 gennaio 2016, in caso di fallimento dell’impresa, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione straordinaria, omologazione del concordato preventivo con cessione dei beni e nelle ipotesi di aziende sottoposte a sequestro o confisca.

Ma la novità senza dubbio più rilevante introdotta dalla riforma del lavoro 2012 riguarda la soppressione della stessa cassa integrazione straordinaria a precise condizioni. Al posto della cassa integrazione straordinaria, e solo per quelle aziende con più di 15 dipendenti, verrà istituito infatti presso l’Inps, un Fondo di solidarietà. Il Fondo ha la finalità di assicurare ai lavoratori una tutela in costanza di rapporto di lavoro, nei casi di riduzione o sospensione dell’attività lavorativa per cause previste dalla normativa in materia di integrazione salariale straordinaria o ordinaria.

Il Fondo di solidarietà è obbligatorio per tutti quei settori non coperti dalla cassa integrazione guadagni. La percentuale di contribuzione destinata al finanziamento del Fondo di solidarietà sarà ripartita come segue:
- 2/3 a carico del datore di lavoro,
-1/3 a carico del lavoratore.

La prestazione minima a carico del Fondo di solidarietà è pari alla cassa integrazione guadagno e il trattamento potrà essere erogato per un periodo non superiore ad un ottavo delle ore complessivamente lavorabili.

L'ASPI, in vigore gennaio 2013,  prevede l’erogazione di una indennità mensile ai lavoratori dipendenti del  ,settore privato, compresi gli apprendisti e i soci di cooperativa di lavoro, che si trovano in stato di disoccupazione.

Vediamo gli importi che sono previsti. L’ammontare consiste nel 75% di euro 1.180,00 (euro 885,00) aumentati di una quota del 25% della differenza tra retribuzione percepita ed il limite di euro 1.180,00 nel caso in cui la retribuzione del lavoratore superi quest’ultimo limite.
Per maggiori chiarimenti si consiglia di leggere l'articolo pubblicato a Aspi 2013 la durata e i requisiti.


domenica 20 gennaio 2013

Cessione ramo d'azienda a garanzia del lavoratore per l'anno 2013


Si ha il la cessione ramo d'azienda o trasferimento d'azienda quando, in seguito a operazioni quali cessione contrattuale, fusione, affitto, usufrutto, cambia il titolare della azienda stessa.

L'art. 2112 del Codice Civile 'Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d'azienda', e i suoi successivi Decreti Legislativi, intendono per trasferimento d'azienda qualsiasi operazione che comporti un mutamento nella titolarità di un'attività economica organizzata. Il trasferimento di un ramo di azienda è uno strumento molto importante per le aziende che intendono attuare processi di ristrutturazione e esternalizzazione, nonché espellere il personale aziendale in esubero invece di avviare drastiche procedure di licenziamento.

La cessione può riguardare l'intera azienda o parte di essa e in questo caso si parla di trasferimento di ramo d'azienda.

Questo ultimo tipo di cessione è ammissibile solo se la parte di azienda che si intende trasferire è funzionalmente autonoma al momento della cessione o trasferimento identificata come tale o dal cedente o dal cessionario al momento del trasferimento (detta entità deve presentare una organizzazione di mezzi idonea allo svolgimento dell’attività di impresa, con la possibilità di eventuali e successive integrazioni da parte del cessionario).

Quando vi è la cessione dell'azienda (o di un ramo di essa) cambia il titolare dell'attività e quindi cambia il datore di lavoro. La legge tutela il lavoratore con alcune disposizioni specifiche e prevede che:

il rapporto di lavoro non si estingue, ma continua con il nuovo titolare dell'azienda; il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano; il lavoratore può chiedere al nuovo datore di lavoro il pagamento dei crediti da lavoro che aveva maturato al momento del trasferimento; il nuovo datore di lavoro è pertanto obbligato in solido con il vecchio titolare per la soddisfazione di tali crediti; nel caso di stipulazione di un contratto d'appalto tra azienda d'origine e ramo trasferito, il lavoratore dipendente di questo ultimo può agire in giudizio direttamente nei confronti dell'azienda di origine per obbligarla al pagamento dei debiti che questa ha contratto con il ramo trasferito;

il nuovo titolare deve continuare ad applicare il contratto collettivo nazionale, in vigore al momento del trasferimento, fino alla sua scadenza;

la cessione o trasferimento d'azienda non costituisce motivo di licenziamento;

se la cessione si verifica in imprese che occupano più di 15 dipendenti, è obbligatorio per il datore di lavoro avvertire con comunicazione scritta, almeno 25 giorni prima dell'atto di cessione, le rappresentanze sindacali che avviano procedure di analisi e verifica necessarie alla tutela dei lavoratori , per evitare che il mancato rispetto della normativa potrebbe eludere altri istituti contrattuali e di legge, come le norme sullo Statuto del lavoratori, il collocamento dei disabili.

La cessione di rami societari può risultare per alcune aziende una ricetta necessaria per far fronte alle difficoltà della crisi economica. Il tema sta diventando sempre più di attualità in questo momento, a cavallo tra la fine del 2012 e il 2013.
Dal punto di vista dei giudici – chiamati a esprimersi su queste operazioni in caso di contenzioso – l'esigenza di razionalizzare le strutture aziendali deve bilanciare la libertà di iniziativa economica e salvaguardare l'occupazione e soprattutto i diritti dei lavoratori. In questa direzione, la giurisprudenza è sempre più impegnata nella ricerca degli elementi di legittimità per determinare una genuina ed effettiva operazione di cessione imprenditoriale. In particolare, il filo che lega le pronunce è certamente la presenza di una struttura aziendale con autonomia funzionale e produttiva.

Ricordiamo che con sentenza n. 21711, la Cassazione ha precisato che il trasferimento a un altro datore di lavoro di una serie di contratti di lavoro eterogenei, rappresenta cessione di ramo d'azienda solo se prima del negozio tra cedente e cessionario questi contratti configuravano una vera e propria struttura aziendale con autonomia funzionale e produttiva: in mancanza di questi elementi, il trasferimento è una mera esternalizzazione.

Vediamo il problema Tfr cessione ramo d'azienda. La Cassazione, ribadendo la natura di retribuzione differita del Tfr, sostiene che in caso di cessione di ramo di azienda assoggettata al regime previsto dall'articolo 2112 del Codice civile, il datore di lavoro cedente rimane obbligato nei confronti del lavoratore suo dipendente, il cui rapporto prosegua con il datore di lavoro cessionario, per la quota di trattamento di fine rapporto maturata durante il periodo di rapporto con lui svolto e calcolato fino alla data del trasferimento d'azienda. Viceversa, il datore di lavoro cessionario è obbligato per questa stessa quota soltanto in ragione e nei limiti del vincolo di solidarietà previsto dall'articolo 2112, comma 2. Infine, conclude l'estensore, quest'ultimo, come datore di lavoro cessionario, è l'unico obbligato al trattamento di fine rapporto quanto alla quota maturata nel periodo del rapporto intercorso dopo il trasferimento di azienda.

Comunque per quanto riguarda la tutela dei lavoratori nell'ipotesi di cessione del ramo d'azienda, la legge provvede a disciplinare i criteri e le modalità di attuazione delle rispettive parti in causa, sia per il cedente che il cessionario. Di norma il rapporto di lavoro del lavoratore  dipendente prosegue con il cessionario e quindi il nuovo datore di lavoro. Si tratta di una disposizione di estrema tutela per il dipendente, il quale oltre a mantenere la garanzia del proprio lavoro, conserva anche lo stesso trattamento economico e normativo di cui disponeva presso l'azienda cedente.
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