martedì 6 ottobre 2015

Pensioni anticipata con il prestito aziendale e con il part-time


Il prestito aziendale potrebbe essere la soluzione per raggiungere la tanto agognata flessibilità in uscita. Il meccanismo è attualmente allo studio dell’esecutivo e consentirebbe ai lavoratori, in accordo con l’azienda, un’uscita anticipata dal mondo del lavoro, tramite un prestito aziendale da rimborsare successivamente attraverso l’Inps una volta raggiunta l’età pensionabile.

Lo schema del prestito previdenziale dovrebbe supporre non tanto una scelta del lavoratore di accedere alla pensione anticipata, quanto la volontà dell’azienda di attuare un ricambio o ridurre il personale.

La famosa flessibilità in uscita, tanto desiderata dai lavoratori e discussa negli ultimi mesi, potrebbe infine arrivare tramite il meccanismo del prestito pensionistico. Ha sostenuto il Ministro Padoan per portare a carico dell'azienda il costo dell'uscita dal lavoro. "Nell'ipotesi che la misura vada nella legge di stabilità, azienda e lavoratore dovrebbero trovare un accordo per l'uscita anticipata con costi sia per l'impresa che per il pensionando", un'ipotesi che metterebbe in sicurezza i forzieri pubblici e consentirebbe il compromesso dell'impatto zero sul bilancio dell'Inps. Resta evidente però che tale meccanismo presenta anche un certo grado di rischio, visto che non tutte le aziende potrebbero essere disposte ad intervenire per agevolare il meccanismo della staffetta generazionale.

Quindi nell’ipotesi c’è un prestito pensionistico per il lavoratore vicino all'età di vecchiaia a carico delle aziende: l'ipotesi per introdurre maggiore flessibilità di uscita verso la pensione con una spesa molto bassa per lo Stato, ma il rischio è che sia poco utilizzata per gli alti costi sia per l'impresa sia per il lavoratore che dovrebbe restituire all'azienda una volta andato in pensione e tramite l'Inps il prestito ricevuto. In pratica - hanno spiegato fonti vicine al dossier - nell'ipotesi che la misura vada nella Legge di Stabilità, azienda e lavoratore dovrebbero trovare un accordo per l'uscita anticipata con costi sia per l'impresa che per il pensionando mentre lo Stato avrebbe solo costi residuali.

L'azienda pagherebbe i contributi per la persona che esce in anticipo - L'azienda, a fronte della possibilità di aumentare il turn over, svecchiando il personale, infatti, dovrebbe pagare i contributi per la persona che esce in anticipo rispetto all'età di vecchiaia fino al raggiungimento dei requisiti per l'accesso alla pensione. L'impresa pagherebbe anche una quota della pensione ma questa dovrebbe poi essere restituita dal lavoratore, tramite l'Inps, una volta raggiunti i requisiti e andato in pensione con un meccanismo ancora da affinare. Ad esempio, una persona che dovesse lasciare il lavoro in anticipo di due anni a fronte dell'accordo su un prestito di 800 euro al mese su una pensione di 1.000 euro al mese, si ipotizza che la persona in pensione anticipata ha maturato un debito di 20.800 euro con l'azienda, venga applicata una trattenuta di 1.400 euro l’anno ovvero poco più di 100 euro al mese- 

Per questo si sarebbe pensato ad una sorta di “prestito” a carico delle aziende. Le società pagherebbero i contributi al lavoratore che lascia in anticipo fino a quando questi non avrà raggiunto i requisiti pensionistici. La società dovrà inoltre pagare anche una quota delle pensioni, ma questa somma sarebbe poi restituita dal lavoratore tramite l'Inps.

I benefici per le aziende? Potrebbero aumentare il turnover a costi tutto sommato contenuti ma elevati anche per i lavoratori, che si vedrebbero, come abbiamo visto sopra, costretti a restituire somme al datore di lavoro.

Una via non molto diversa esiste già: la prevede la riforma Fornero per i lavoratori in esubero, che possono anticipare la pensione a condizione che l’azienda paghi la prestazione e continui a versare i contributi per tutti gli anni di anticipo.

Con la nuova ipotesi, l’azienda non dovrebbe pagare tutto l’assegno anticipato, ma solo una parte che verrebbe ad essa rimborsato in prospettiva. Uno sconto rispetto alla versione Fornero c’è, ma rimane comunque pesante il peso dei contributi da versare per gli anni mancanti all’età pensionabile. E questo potrebbe essere un limite, soprattutto se si volesse puntare a un utilizzo generalizzato del meccanismo anche per realizzare estesi turnover a favore dei giovani.

A quel punto sarebbe davvero più utile tornare alla formula originaria – senza contributi – e magari ampliare le causali di impiego possibile.

Anticipo pensione con il part-time
Anticipo sulla pensione per lavoratori con 20 anni di contributi e meno di 2 dalla pensione di vecchiaia: trasformazione in part-time nelle aziende con contratti di solidarietà espansiva, come previsto nel decreto ammortizzatori attuativo del Jobs Act. Si tratta di una trasformazione da tempo pieno in part-time riservato a lavoratori con meno di 24 mesi dal raggiungimento dei requisiti per la pensione di vecchiaia: in particolari condizioni, potranno ottenere in cambio un anticipo del trattamento, percependo una quota parte dell’assegno finale, mentre l’impresa continuerà a versare i contributi pieni in modo tale che, alla fine dei due anni, non subiranno decurtazioni nel trattamento previdenziale definitivo.

I lavoratori con i requisiti indicati (meno di due anni dal raggiungimento dei requisiti per la pensione di vecchiaia) ed almeno 20 anni di contributi possono chiedere un part-time fino al 50% (è possibile accordarsi per un part time diversamente modulato) e al contempo inoltrare domanda di anticipo della pensione.

L’erogazione della quota anticipata di pensione in cambio della trasformazione in part-time è riservata alla stipula in azienda di contratti di solidarietà espansiva,  che prevedono una riduzione stabile dell’orario di lavoro (e della relativa retribuzione) con contestuale assunzione a tempo indeterminato di nuovo personale. I contratti di solidarietà espansiva sono incentivati con un contributo INPS pari al 15% della retribuzione lorda di ogni nuovo assunto per i primi 12 mesi mentre per i due anni successivi il contributo è ridotto al 10% e 5%. Il contratto di solidarietà espansiva si applica solo per incrementare gli organici e solo in base al contratto collettivo aziendale, che deve prevedere modalità di attuazione.

Sono 4 le università italiane nella classifica top 200 delle aziende mondiali


Sono 26 gli atenei italiani presenti nel QS World University Rankings 2015, la classifica che da anni individua le migliori università del mondo.

Niente di nuovo nella top 10, se si esclude l'ingresso della svizzera Eth Zurich in un vertice dominato dai abituali college anglo-americani. Nell'ordine: Mit, Harvard, Cambridge, Stanford, Caltech, Oxford, University College London, Imperial College, la stessa Eth e Chicago. Qualcosa di diverso si intravede nel resto della classifica, perché il cambio di alcuni parametri ha spinto al ribasso i nostri atenei ma reso più concorrenziali i laureati italiani.

A soffrire di più è stata la ricerca. Per la prima volta in 12 edizioni, il peso delle citazioni scientifiche (citation per faculty, uno dei sei parametri, valido per il 20% del totale) è stato standardizzato tra i dipartimenti. Cioè: redistribuito in maniera uguale tra cinque macro-aree di studio, secondo un criterio che assegna ad ogni gruppo di discipline un'incidenza percentuale identica sul punteggio conclusivo (il 20%).

Il livellamento ha ridimensionato l'influenza di atenei incentrati sui settori come la ricerca medica - più rilevanti nella quantità di pubblicazioni, ma con una popolazione più ristretta di studenti - e restituito peso a quelli improntati a scienze sociali o di area umanistica: atenei come la London School of Economics hanno guadagnato decine di posizioni, dopo essere rimasti schiacciati per anni da un meccanismo che non teneva in considerazione i propri criteri di pubblicazione. «Non è stata una scelta semplice, ma ha contribuito a creare dei ranking più equi in senso generale – come ha sostenuto Simona Bizzozero, responsabile relazioni pubbliche di Qs Quacquarelli Symonds – Anche se precisiamo che si tratta di una classifica per sua natura arbitraria e fondata su nostri criteri».

I dipartimenti italiani, già penalizzati da scarsa presenza internazionale e rapporto numerico docenti-allievi (troppo pochi docenti rispetto agli allievi, ndr), hanno perso per strada fino a 50-100 posizioni tra 2014 e 2015. Tra le prime 200 si salva il solo Politecnico di Milano (187esimo, in crescita dalla 229esima posizione di un anno fa), seguito poco più giù da Università di Bologna (204esima: era 182esima l'anno scorso).

Le buone notizie vengono da uno criteri più sensibili per gli studenti: la reputazione delle università tra le aziende, cioè i datori di lavoro. Quattro italiane compaiono tra le prime 200 e 13 hanno fatto un salto in avanti rispetto alle precedenti rilevazioni. La Bocconi di Milano, neppure classificata nel ranking generale, compare addirittura al 32esimo posto, seguita di nuovo dal Politecnico di Milano (74), Università Cattolica del Sacro Cuore (143) e il Politecnico di Torino (199), mentre resta fuori di pochissimo l'Università di Bologna (207). In questo caso, a far pendere in positivo la bilancia sono due fattori. Il primo è matematico: l'allargamento del pool di datori di lavoro intervistati, passati da meno di 30mila a più di 44mila unità. Il secondo, dice Bizzozero, è «culturale» e testimonia una delle esportazioni italiane: i laureati.

«I nostri laureati e i nostri ricercatori si fanno apprezzare nel mondo, dimostrando un livello di preparazione elevatissimo, se non maggiore della media. E questo testimonia l'ottimo livello delle nostre università». Il calo nella “pagella” generale, comunque, non pregiudica le eccellenze della ricerca italiana anche agli occhi del ranking: nella top 400 compaiono 17 atenei per medicina e scienze della vita (Università di Milano alla posizione 79), 16 nelle scienze naturali (Sapienza 80esima, Politecnico 86esimo), 14 in ingegneria e tecnologia (il Politecnico è 24esimo) e altrettante negli studi umanistici (Università di Bologna, 76esima, e ancora Sapienza, 84esima) e 13 nelle scienze sociali (22esima la Bocconi, 97esima l'Università di Bologna).

Per la quarta volta consecutiva è il Massachusetts Institute of Technology (Mit) il migliore ateneo al mondo. Dopo il Mit c’è Harvard University al secondo posto, Cambridge University e Stanford in terza posizione pari merito. È quanto emerge dalla dodicesima edizione del QS World University Rankings 2015/16, la classifica internazionale delle università più popolare al mondo. Tra le prime 200 università migliori al mondo in questa classifica troviamo solo una italiana: è il Politecnico di Milano che si piazza al 187esimo posto ed entra per la prima volta tra le migliori duecento (nel 2014 si trovava al 229esimo posto). La salita nel ranking mondiale è avvenuta nonostante il Politecnico di Milano non sia di fatto presente in alcune aree disciplinari che pesano sulla valutazione complessiva: tradizioni, scienze della vita e alcune discipline sociali come ad esempio giurisprudenza.
Le novità italiane – Al 204esimo posto troviamo l'Università di Bologna e al 213esimo posto l’Università degli Studi di Roma – La Sapienza. Tra le prime 400 al mondo ci sono poi, tra le italiane, anche l'Università degli Studi di Milano (306), l'Università degli Studi di Padova (309), il Politecnico di Torino (314) e l'Università degli Studi di Pisa (367). Per quanto riguarda la top ten delle migliori università al mondo per la prima volta entra l'elvetica Eth Zurich, che si piazza al nono posto. Da segnalare anche le due principali università di Singapore che scalano la classifica e si posizionano entrambe tra le prime 15.


domenica 4 ottobre 2015

Allattamento: il riposo giornaliero è facoltativo


I riposi giornalieri per l’allattamento sono ore di riposo che possono essere richieste dalle mamme che lavorano, e in alcuni casi anche dai papà che lavorano, per avere il tempo di allattare il loro bambino.

Sono regolamentati per legge, esattamente come il congedo parentale e i congedi per malattia del bambino, e per ottenerli bisogna presentare una domanda apposita.
Le ore di riposo giornaliero per l’allattamento spettano alle mamme e in alcuni casi anche ai papà.

Se ne ha diritto se:
• una lavoratrice dipendente, sia che tu abbia messo al mondo un figlio, sia che tu abbia adottato o avuto in affidamento un bambino,
• una lavoratrice dipendente in aspettativa sindacale,
• una lavoratrice socialmente utile (LSU, LPU e ASU) e lavori a tempo pieno.

Per i riposi giornalieri è dovuta un’indennità pari al 100% della retribuzione. L’indennità è anticipata dal datore di lavoro ma è a carico dell’INPS. Ai fini della pensione, il periodo di congedo viene conteggiato per intero con l’accredito dei contributi figurativi (ossia i contributi accreditati, senza oneri a carico del lavoratore, per periodi durante i quali non ha prestato attività lavorativa). Non è richiesta nessuna anzianità contributiva pregressa.

Il datore di lavoro deve consentire alla lavoratrice madre, durante il primo anno di vita del bambino, due periodi di riposo, anche cumulabili durante la giornata. Il riposo è uno solo quando l’orario giornaliero è inferiore a sei ore ( art.39 del D.lgs.151/2001).

Tali periodi di riposo hanno la durata di un’ora ciascuno.

I periodi di riposo sono di mezz’ora ciascuno quando la lavoratrice fruisca dell’asilo nido o di altra struttura idonea, istituiti dal datore di lavoro nell’unità produttiva o nelle immediate vicinanze di essa.

Gli stessi periodi previsti per la madre sono riconosciuti al padre (art.40 del D.lgs.151/2001):
a) nel caso in cui i figli siano affidati al solo padre;
b) in alternativa alla madre dipendente che non se ne avvalga;
c) nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente;
d) in caso di morte o di grave infermità della madre.

In caso di parto plurimo, i periodi di riposo sono raddoppiati e le ore aggiuntive possono essere utilizzate anche dal padre.

Le disposizioni soprariportate si applicano anche in caso di adozione e di affidamento entro il primo anno dall’ingresso del minore nella famiglia. 

Il Ministero del lavoro nell'interpello 23 del 24 settembre 2015, risponde ai Consulenti del lavoro sui riposi giornalieri per allattamento

Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro ha presentato un quesito al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, in merito alla disciplina dei riposi giornalieri per la lavoratrice madre  - chiamati un tempo permessi per  allattamento  - durante il primo anno di vita del bambino ( D.Lgs. 26/03/2001, n. 151).

In particolare ha chiesto se, nelle ipotesi in cui la lavoratrice madre non intenda usufruire di tali riposi, spontaneamente e per proprie esigenze, al datore di lavoro si applichi la sanzione contemplata dall’art. 46 del d.lgs. 151/2001.

La Direzione Generale per l’Attività Ispettiva del Ministero del Lavoro e con interpello n. 23 del 24 settembre 2015 ha precisato che a differenza di quanto avviene nell’ipotesi di astensione obbligatoria per maternità, la lavoratrice madre può scegliere se esercitare o meno il proprio diritto, fruendo dei riposi; nell’ipotesi in cui decida di esercitarlo e il datore di lavoro non le consenta il godimento dei periodi di riposo troverà applicazione la sanzione amministrativa pecuniaria stabilita dall’art. 46 citato. Diversamente, qualora la lavoratrice madre presenti una preventiva richiesta al datore di lavoro per il godimento dei permessi giornalieri e successivamente, in modo spontaneo e per proprie esigenze non usufruisca degli stessi per alcune giornate, non sembra ravvisabile la violazione dell’art. 39 e di conseguenza non potrà trovare applicazione la misura sanzionatoria ad essa collegata.

Resta ferma la possibilità, da parte degli organi di vigilanza, di effettuare eventuali verifiche in ordine alla spontaneità della rinuncia della lavoratrice circa il godimento dei permessi in questione. Al riguardo appare pertanto opportuno che la suddetta rinuncia sia giustificata da ragioni che rispondano in modo inequivocabile ad un interesse della lavoratrice (ad es. frequenza di un corso di formazione, impossibilità di rientrare in casa in ragione di uno sciopero dei mezzi pubblici ecc.).

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