giovedì 18 febbraio 2016

Indennità di disoccupazione: NASpI e risoluzione consensuale


Vediamo i chiarimenti del Ministero del lavoro sull'indennità NASPI a seguito di risoluzione consensuale in aziende al disotto dei 15 dipendenti (d.lgs.22/2015)

La Direzione Generale Ammortizzatori Sociali ha rilasciato questo parere a seguito di una richiesta di chiarimenti sulla possibilità di vedersi riconoscere l’indennità di disoccupazione NASpI per il lavoratore che si trovi in stato di disoccupazione a seguito di richiesta congiunta, con il datore di lavoro, ed ha chiarito che la NASpI non spetta al soggetto disoccupato in seguito a risoluzione consensuale del rapporto di lavoro con datore di lavoro avente meno di quindici dipendenti intervenuta nell’ambito del tentativo di conciliazione di cui all’articolo 410 c.p.c.

Questa conclusione è dovuta a quanto disposto dall’articolo 3, comma 2, del D. Lgs n. 22/2015 che stabilisce letteralmente che la NASpI è riconosciuta oltre che nei casi di licenziamento anche ai lavoratori che hanno rassegnato le dimissioni per giusta causa e nei casi di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro intervenuta nell’ambito della procedura di cui all’articolo 7 della legge n. 604/1966 come modificato dall’art. 1, comma 40, della legge n. 92/2012 (Legge Fornero).

Quindi viene chiarito che la NASpI non spetta al soggetto disoccupato in seguito a risoluzione consensuale del rapporto di lavoro con datore di lavoro avente meno di quindici dipendenti intervenuta nell'ambito del tentativo di conciliazione di cui all'articolo 410 cpc. Ciò in base all'articolo 3, comma 2, del decreto legislativo n. 22/2015, che stabilisce che la NASpI è riconosciuta oltre che nei casi di licenziamento anche ai lavoratori che hanno rassegnato le dimissioni per giusta causa e nei casi di risoluzione consensuale intervenuta nell'ambito della procedura conciliativa «preventiva» prevista dall'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, disciplina che si applica (art. 18 della legge n. 300/1970) ai datori di lavoro con almeno 15 dipendenti.

Quindi la NASpI non spetta al soggetto disoccupato in seguito a risoluzione consensuale del rapporto di lavoro con datore di lavoro avente meno di quindici dipendenti intervenuta nell'ambito del tentativo di conciliazione.

Il principio del decreto legislativo 22/2015 nel ridisegnare il perimetro di tutela nei casi di perdita involontaria del posto di lavoro ha del resto inteso tutelare, con la concessione dell'ammortizzatore sociale di disoccupazione, i soli lavoratori che abbiano perduto involontariamente l’occupazione, con ciò ribadendo un principio storicamente presente da sempre nella disciplina legislativa dell'indennità di disoccupazione. La perdita involontaria del rapporto di lavoro, in altri termini, non può essere riconosciuta nei casi in cui la risoluzione del rapporto, seppur sorta per decisione unilaterale del datore di lavoro, venga ricomposta consensualmente in esito alla procedura di conciliazione per le controversie di lavoro prevista dal codice di rito.

Bonus assunzione per il 2016: disoccupati, pensionati e collaboratori


La legge di Stabilità 2016 ha prorogato gli sgravi contributivi in favore dei datori di lavoro che effettuano nuove assunzioni con contratto a tempo indeterminato dal 1° gennaio al 31 dicembre 2016.

L’agevolazione si estende anche ai rapporti a tempo indeterminato instaurati con scopo di somministrazione. Non può, invece, rientrare fra le tipologie incentivate il contratto di lavoro intermittente o a chiamata.

Il Ministero del Lavoro ha chiarito tutti i casi in cui spetta il bonus assunzione ovvero alle aziende che impiegano disoccupati, anche se pensionati e collaboratori trasformati in lavoratori subordinati, ad affermarlo è il Ministero.

Lo scopo del bonus è quello di gratificare le imprese che assumono con contratto a tempo determinato permettendo ai datori di lavoro di fruire di uno sgravio contributivo.

Visto che il fine del bonus è quello di creare lavoro per i disoccupati dalle assunzioni con il bonus non si escludono nè i pensionati nè i collaboratori le cui collaborazioni vengano trasformate in lavoro subordinato. La platea dei beneficiari viene infatti ampliata sulla base della finalità della normativa: incentivare il ricorso alle assunzioni a tempo indeterminato. Per questo motivo il Ministero conferma l’interpretazione per la quale sono esclusi dal bonus assunzioni solo quei soggetti esplicitamente tagliati fuori dalla legge.

Il bonus assunzioni prevede uno sgravio contributivo del 40% per gli assunti del 2016 per tutti i nuovi assunti con contratto a tempo indeterminato privi di un’occupazione stabile.

L’agevolazione spetta per tutti coloro che nei 6 mesi precedenti sono risultati privi di un’occupazione stabile (ovvero di un contratto a tempo indeterminato). I pensionati, che pur percependo un assegno pensionistico che garantisca loro una certa stabilità economica, non possono essere assimilati al lavoro a tempo indeterminato e proprio su questa casistica il Ministero si è espresso rispondendo all’interpello n 4 del 2016 affermando che “Si ritiene pertanto che, in assenza di una preclusione espressa da parte del Legislatore, l’ipotesi di assunzione a tempo indeterminato di lavoratori già percettori di trattamento pensionistico possa rientrare nel campo di applicazione della disposizione di cui all’art. 1, comma 118, L. n. 190/2014.”

Ricordiamo che il bonus assunzioni prevede uno sgravio sui contributi INPS relativi ai nuovi contratti a tempo indeterminato esonero 2016: 3.250 euro fino a 24 mesi. L’agevolazione spetta in caso di assunzione a tempo indeterminato di lavoratori privi di occupazione stabile (disoccupati), sia da parte di aziende che di altri enti o liberi professionisti, a patto che l’azienda sia in possesso del DURC regolare, non siano state commesse violazioni delle norme essenziali di lavoro e siano state rispettate quelle previste dai contratti collettivi.

L’agevolazione spetta per tutte le assunzioni di lavoratori che, nei 6 mesi precedenti, percepivano redditi non configurabili come occupazione stabile, intesa come rapporto a tempo indeterminato. In tale casistica non rientrano i pensionati che, pur avendo un assegno che garantisce loro una certa stabilità di reddito, non possono essere assimilati al rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Su questo punto il Ministero si è espresso nella riposta ad uno specifico interpello (Mlps. Int. n. 4/2016).

Il bonus spetta anche in caso di trasformazione del precedente rapporto in un contratto a tempo indeterminato.

I lavoratori per i quali non spetta il bonus assunzione sono quelli che, nei 6 mesi precedenti:
abbiano stipulato un contratto di apprendistato, in quanto configura comunque un contratto a tempo indeterminato, nonostante la possibilità di disdetta finale;
abbiano avuto un rapporto a tempo indeterminato, ma non abbiano superato il periodo di prova.

Sono esclusi dal bonus assunzione, infine, anche i lavoratori che, pur essendo non occupati nei 6 mesi precedenti, abbiano già fruito del bonus, anche in un’altra azienda.

mercoledì 17 febbraio 2016

Pensioni, ecco quando gli ex hanno diritto alla pensione di reversibilità


Critiche trasversali al giro di vite sulle pensioni di reversibilità, inserito nel Disegno di Legge di contrasto alla povertà approdato alla Camera, mentre il Governo difende la norma chiarendo che l’intenzione è di evitare sprechi. Il provvedimento, approvato dal Consiglio dei Ministri del 28 gennaio, modifica il metodo di calcolo per le pensioni ai superstiti, legandole al reddito più che al numero di parenti aventi diritto.

Nel caso in cui il titolare di una pensione di reversibilità sia anche in possesso di altri redditi, vengono applicate delle riduzioni all’importo spettante, ma questo solo se si superano determinate soglie. Per il 2016 il limite di reddito annuo entro il quale la pensione al coniuge superstite non viene ridotta è pari a 19.573,71 euro.

Nel caso di decesso di un lavoratore pensionato, al coniuge spetta la c.d. pensione di reversibilità, ovverosia una prestazione economica calcolata sulla pensione del defunto in una percentuale variabile a seconda che il coniuge superstite ne goda da solo oppure con uno o più figli (qualora questi ultimi siano in possesso dei requisiti a tal fine necessari) e a seconda che goda o meno di altri redditi e, eventualmente, in quale ammontare.

Ricordiamo che se all'atto del divorzio il coniuge superstite aveva ottenuto dal giudice il diritto a ricevere una somma di denaro periodica a titolo di assegno divorzile, egli, in caso di decesso dell'ex coniuge, avrà diritto anche alla pensione di reversibilità. In ogni caso sono necessari due ulteriori, direi ovvi, requisiti, ovverosia che il rapporto di lavoro per il quale il defunto aveva maturato il diritto al trattamento pensionistico sia stato avviato antecedentemente alla sentenza divorzile e che il coniuge superstite non si sia risposato.

Quindi il rapporto di lavoro dev'essere antecedente al divorzio. Il divorziato – che non si sia risposato e percepisca un assegno divorzile periodico (non liquidato, dunque, in unica soluzione) – può ancora reclamare, in caso di decesso dell'ex, la pensione di reversibilità da questi maturata. Sempre che, sia chiaro, il rapporto di lavoro da cui derivi il trattamento pensionistico, sia anteriore alla sentenza divorzile. A prevederlo è l'articolo 9 della legge sul divorzio (la 898/1070) nella quale si fa riferimento ai tre requisiti – percezione di assegno divorzile, stato civile libero e rapporto di lavoro del defunto anteriore alla sentenza di divorzio - necessari affinché possa accertarsi il diritto dell'ex a godere del trattamento di reversibilità. Ma il diritto in questione, ha sottolineato la Corte di Cassazione, presuppone la titolarità, in capo al divorziato, di un assegno di divorzio giudizialmente riconosciuto «non essendo sufficiente che egli versi nelle condizioni per ottenerlo, e neppure che in via di fatto, o per effetto di private convenzioni intercorse fra le parti, abbia ricevuto regolari elargizioni economiche dall'ex coniuge».

Secondo la norma, nella ripartizione delle quote, occorrerà tener conto della durata del vincolo matrimoniale. Criterio cardine, dunque, ma non esclusivo. È la Corte costituzionale con la sentenza 419/1999 ad averlo rimarcato. La Consulta, infatti – chiamata a decidere sulla questione di legittimità dell'articolo 9 della legge sul divorzio – ha chiarito come la disposizione, pur imponendo al giudice il vaglio del dato temporale inerente la durata dei vincoli coniugali, la cui valutazione non può mancare, non prevede che la ripartizione del trattamento di reversibilità tra gli aventi diritto sia effettuata unicamente sulla base di tale criterio, dovendosi vagliare anche altri fattori, quali le condizioni personali, economiche e reddituali delle parti o l'ammontare dell'assegno divorzile. Così – ha puntualizzato la sentenza 5136/2014 della Cassazione – ferma la discrezionalità del giudice, se questi si discosta dal parametro base, per dare priorità ad altre circostanze, deve «rendere una motivazione esaustiva e logica delle ragioni che lo hanno portato a tale decisione». Ciò, soprattutto quando il criterio della durata del matrimonio viene ad assumere, come nel caso allora deciso, un rilievo «del tutto marginale».

A incidere sul calcolo della reversibilità tra “ex” vedovo e coniuge superstite, pesano poi anche la data di separazione, l'eventuale presenza di figli, o l'assistenza fino alla morte prestata al defunto (sentenza Cassazione 6019/2014). Indici che, ben lo dimostra la giurisprudenza, potranno perfino prevalere su quello della lunghezza dei vincoli matrimoniali.

A pesare sulle decisioni giuridiche sarà anche la convivenza prematrimoniale del coniuge superstite con il defunto. Lo ha precisato il Tribunale di Roma, con la recente sentenza 58/2015, la ripartizione del trattamento di reversibilità tra superstite e vedovo, non può ridursi al mero computo matematico operato alla luce della durata dei due matrimoni, dovendosi considerare, tra gli altri correttivi, anche l'effettiva «comunione di vita» tra il defunto ed il secondo consorte, stante l'ormai indiscussa equiparazione tra convivenza more uxorio e famiglia legittima. Detto ciò si afferma, a evitare che «il primo coniuge sia privato dei mezzi indispensabili per il mantenimento del tenore di vita che gli avrebbe dovuto assicurare nel tempo l'assegno di divorzio» e che «il secondo sia privato di quanto necessario per la conservazione del tenore di vita che il l’ex coniuge gli aveva assicurato in vita». Se la convivenza prematrimoniale conserva una sua rilevanza nel computo delle quote da attribuire a coniuge divorziato e superstite, l'unione di fatto che non sia stata “regolarizzata” da un successivo matrimonio non fa scattare alcun diritto del convivente a fruire della pensione maturata dal defunto.

Ma la tutela in questione è solo una delle forme di assistenza previste a favore del divorziato, quali l'assegno divorzile, quello successorio e parte del trattamento di fine rapporto.

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