venerdì 23 novembre 2018

Premi produttività: detassazione nuove regole ed importi



La detassazione dei premi di produttività, introdotta con la Legge di Stabilità 2016, L. n. 208/2015, ha introdotto un sistema di tassazione agevolata, con l’applicazione di un’imposta sostitutiva dell’IRPEF e delle addizionali regionali e comunali del 10% per l’erogazione di premi di produttività.

Tale agevolazione trova applicazione nei confronti dei lavoratori dipendenti appartenenti al settore privato, con la conseguente esclusione per:

dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001;

lavoratori assimilati ai lavoratori dipendenti, quali i titolari di reddito assimilato al lavoro dipendente (es. i collaboratori coordinati e continuativi) e i titolari di reddito di lavoro dipendente svolto all’estero.

È invece consentito il ricorso ai premi di produttività per i dipendenti del settore privato di enti che non svolgono attività commerciale.

La detassazione dei premi di risultato opera sono nel caso in cui i parametri fissati dall’accordo collettivo aziendale risultino incrementali rispetto al precedente periodo di misurazione. A chiarirlo è l’Agenzia delle Entrate con la risoluzione n. 78 del 2018, la cui interpretazione, del tutto coerente con il dato normativo, rischia, però, di produrre effetti distorsivi in tutti quei casi in cui i valori oggetto di confronto siano alterati da circostanze eccezionali. Probabilmente la strada più facilmente percorribile è rappresentata dalla corretta individuazione all’interno degli accordi aziendali di indicatori che possano al meglio esprimere la realtà produttiva aziendale eventualmente procedendo con la strutturazione di correttivi che possano contribuire ad eliminare/attenuare le anzidette criticità.

Ma non tutti i dipendenti possono godere dei premi di produttività, infatti essi possono essere ammessi solamente nei confronti dei lavoratori che nel corso dell’anno raggiungano un limite massimo di reddito derivante da lavoro dipendente non superiore a 80mila euro: tale limite – che si applica a partire dal periodo d’imposta 2017 – viene calcolato computando i redditi da lavoro dipendente che siano assoggettati a tassazione ordinaria, compresa la quota di premio di risultato che è assoggettata a tassazione sostitutiva nell’anno precedente.

Così, non rientrano nel computo di tale somma i redditi assoggettati a tassazione separata, i redditi diversi da quelli di lavoro dipendente, i premi di risultato agevolabili convertiti in benefit non imponibili. Si ricorda che i redditi di lavoro dipendente sono soggetti a tassazione in base al criterio di cassa, ossia assoggettati secondo le regole fiscali vigenti nel periodo di imposta di percezione da parte del dipendente delle somme: ciò è stato ulteriormente ribadito anche dalla Circolare n. 5/E/2018 dell’Agenzia delle Entrate.

Le istruzioni INPS per la detassazione dei premi produttività per datori e lavoratori che prende il via da novembre 2018: requisiti, recupero degli arretrati, effetto sulla pensione e cumulabilità.
Al via da novembre la decontribuzione premi di produttività, che consente ai datori di lavoro del settore privato – imprese e professionisti – di ridurre del -20% i contributi dovuti sui premi fino a un massimo di 800 euro l’anno. Per i lavoratori dipendenti lo sconto della quota contributiva dovuta è del 100%, l’importo finirà dunque totalmente in busta paga. Con la circolare n. 104/2018 l’INPS fornisce importanti precisazioni in merito alla fruizione dello sgravio contributivo previsto dal DL n. 50/2017 e sui suoi effetti sulla pensione.

Requisiti e fruizione
La fruizione del beneficio è automatica, dunque non è necessario presentare domanda all’INPS, a partire dal flusso UniEmens di competenza di novembre 2018, a patto di rispettare le condizioni generali per accedere alle agevolazioni contributive secondo l’art. 1, comma 1175, della legge n. 296/2006, quali DURC regolare e rispetto dei contratti collettivi.
I lavoratori devono avere un reddito di lavoro dipendente che non supera gli 80 mila euro e lo sconto contributivo su calcola su un importo di premio annuo massimo di 3.000 euro, elevato a 4 mila in caso l’azienda coinvolga i lavoratori nell’organizzazione del lavoro.

Lo sgravio si applica inoltre solo sui premi di risultato erogati in esecuzione di contratti, aziendali o territoriali, stipulati dopo l’entrata in vigore del dl n. 50/2017 (24 aprile 2017), o ai vecchi accordi che dal 24 aprile 2017 siano stati modificati e/o integrati.

Il tetto degli 800 euro l’anno deve essere considerato nel complesso, anche se il lavoratore ha più di un datore di lavoro. In questo caso il lavoratore deve comunicare, a quello attuale, la quota di premio ricevuta dagli altri datori di lavoro. Lo sgravio spetta anche se il lavoratore decide di rinunciare al regime di detassazione per lo stesso premio di produttività (sconto fiscale).

Recupero arretrati
I datori di lavoro e i lavoratori che ne abbiano diritto, possono recuperare gli arretrati spettanti per i premi produttività erogati da maggio 2017 a ottobre 2018 mediante la procedura delle regolarizzazioni (UniEmens/vig).

Effetto sulle pensioni
L’Istituto precisa inoltre che lo sgravio influisce negativamente sulle pensioni dei lavoratori, perché i contributi non versati non valgono ai fini pensionistici non avendo altra copertura.

Cumulabilità
L’INPS ha precisato infine che lo sgravio contributivo è cumulabile con altri eventuali benefici, non avendo alcuna funzione d’incentivo all’assunzione.


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giovedì 22 novembre 2018

Welfare aziendale e sanità integrativa: vantaggi per aziende e lavoratori


Gli strumenti di welfare aziendale offrono oggi alle piccole e medie imprese un’opportunità strategica per intercettare i bisogni dei propri dipendenti e al contempo ottimizzare i costi interni. Eppure, la maggior parte degli attuali sistemi di welfare implementati – non ultimi quelli aziendali – stentano a risultare davvero efficaci nel centrare tali obiettivi.

Welfare alternativo ai premi in denaro
Con “welfare aziendale” ci si riferisce all’ecosistema di prestazioni e servizi che i datori di lavoro possono offrire ai dipendenti in veste di incentivo, volti in generale a migliorare qualità e stili di vita, in alternativa ai più classici premi in denaro. Si tratta di una soluzione vantaggiosa tanto per l’azienda (che risparmia in liquidità e gode di sgravi fiscali) quanto per il dipendente (che ottiene un benefit in grado di rendere più appetibile e concretamente più soddisfacente il proprio rapporto di lavoro.

Esempi di welfare aziendale
Ecco alcune possibili soluzioni di welfare aziendale che possono essere offerte ai dipendenti:

sanità integrativa attraverso contributi aggiuntivi al fondo pensione nazionale di categoria o fondi aziendali gestiti da terzi attori;

agevolazioni economiche per chi ha familiari disabili, anziani e figli a carico;

aiuti diretti come asili e scuole materne aziendali o sconti per i mezzi pubblici;

convenzioni a scopo ricreativo, sportivo e culturale estesi a tutta la famiglia;

corsi di specializzazione per acquisire competenze a costi zero;

formazione legata alla prevenzione e alla sicurezza in azienda.

Sanità integrativa come servizio di welfare
Uno dei servizi di welfare aziendale più ambiti tra i dipendenti è quello della sanità integrativa, ossia tutta quella serie di agevolazioni che consentono ai dipendenti di ottenere i rimborsi sulle spese sanitarie sostenute (spesso estese a coniuge e figli), sfruttando le convenzioni con strutture sanitarie e specialisti privati a cui il proprio datore di lavoro aderisce.

Sanità integrativa: il ruolo delle Mutue Sanitarie
Come si attua in concreto una soluzione di questo tipo? Per prima cosa bisogna rivolgersi ad uno dei soggetti che possono farsi carico dei fondi sanitari per le aziende, come ad esempio le mutue sanitarie, tra cui spiccano realtà con alle spalle una decennale tradizione di fondi aziendali radicata sul territorio italiano. Come la Mutua Sanitaria Cesare Pozzo, oggi aperta a tutti ma nata nel 1877 a per volontà dei macchinisti e fuochisti delle Ferrovie dell’Alta Italia, così da offrire loro assistenza e tutela estesa a tutte le famiglie.

Il mutualismo nasce dunque da una forza comune: dall’adesione volontaria di chi condivide condizioni di lavoro, rischi e necessità. Da qui deriva il concetto di fondo comune a scopo assistenziale: una soluzione concreta per tutelate i lavoratori in caso di infortuni e malattie assistendone al contempo le famiglie nei momenti di difficoltà lavorativa. Oggi lo scenario è ovviamente mutato ma restano radicati i capisaldi di quel modello, così come le dinamiche per cui i lavoratori di ogni settore si trovano a dover affrontare spese sanitarie per sé e le proprie famiglie a fronte di un SSN e sistemi di welfare spesso poco di supporto.

In quale, quindi, le mutue sanitarie possono aiutare in concreto aziende e lavoratori?

Fondi sanitari integrativi: i vantaggi fiscali delle Mutue Sanitarie
Parlando di fondi sanitari ci si riferisce a enti, casse e società di mutuo soccorso che raccolgono contributi di assistenza sanitaria a favore dei lavoratori dipendenti. Questi fondi da una parte tutelano il lavoratore, dall’altra sgravano l’azienda da costi e tasse aggiuntive.

Le mutue hanno il ruolo di gestire i fondi per le aziende. E spesso lo fanno “da una vita”: la più grande in Italia è proprio la Cesare Pozzo, attiva su tutto il territorio da 140 anni ed oggi selezionata da primarie realtà italiane, come ad esempio il fondo sanitario dei lavoratori di Azienda Trasporti Milanesi (ATM), del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) e Fincantieri.

Di fatto, le grandi aziende sono più propense ad attuare politiche di welfare aziendale, mentre le PMI stentano ancora a riconoscere i vantaggi che può offrire sviluppare piani di welfare aziendale strutturati e quindi efficaci. Quel che manca non è la buona volontà ma la conoscenza dei benefici offerti da queste soluzioni. Ed in questo, le società di mutuo soccorso possono intervenire in soccorso delle aziende.

Quali, dunque, i vantaggi in dettaglio di un piano di welfare aziendale per aziende e lavoratori?

Per l’azienda, ai sensi dell’art- 51 Tuir (d.p.r n.917/86), il vantaggio è di avere il solo costo del contributo di solidarietà all’INPS del 10%, versamento deducibile dal reddito di impresa ed escluso dalla retribuzione.

Per il lavoratore, il vantaggio è il rimborso delle spese sanitarie per sé e la propria famiglia. Il versamento del contributo ai fondi sanitari integrativi, inoltre, non è soggetto a tassazione per importi fino a € 3.615,20.

Un altro traguardo importante che tali soluzioni offrono è di natura socio-economica: da una parte l’azienda riesce a risparmiare e premiare i propri lavoratori con un servizio fondamentale come quello sanitario. Dall’altra il lavoratore ottiene importanti agevolazioni svincolandosi dalle lungaggini burocratiche del sistema sanitario, che spesso scoraggiano i cittadini dalla fruizione dei servizi stessi

Anche da questo punto di vista, scegliere la Cesare Pozzo vuol dire poter contare sulla più vasta rete in Italia di strutture di supporto, con diciannove sedi regionali e settanta tra presidi e sportelli, senza contare la fitta rete di centri convenzionati che permette di prenotare prestazioni sanitarie senza dover anticipare alcuna spesa.

In ultima analisi, le mutue sanitarie integrative vantano oggi una piena titolarità nel contribuire fattivamente alla creazione di uno stato sociale presente ed efficace, offrendo un servizio concreto laddove è davvero necessario, senza sprechi e mancanze, per una sostenibilità economica che dall’azienda si estende all’intero sistema.

Il datore di lavoro può detrarre l'IVA sui servizi di welfare ai dipendenti: prima ordinanza di Cassazione ma servono chiarimenti dall'Agenzia delle Entrate.

Nell'ordinanza 22332/18 Cassazione afferma che i costi sostenuti per i servizi di welfare offerti dal datore di  lavoro ai propri dipendenti  assumono  «rilevanza quali spese generali connesse al complesso delle attività economiche del soggetto passivo», per questo è legittima la detrazione dell'IVA. Nel caso specifico la detrazione Iva contestata dall'Agenzia riguardava spese per soggiorni estivi dei figli dei dipendenti, per la formazione e per il trasporto del personale.

L’ordinanza richiama nel dispositivo  due sentenze della Corte Ue che evidenziano il principio della  correlazione tra l’operazione in acquisto e l’insieme delle attività di impresa come giustificazione per  la detraibilità.

Oltre  al diritto di detrazione va anche presa in considerazione  l'eventualità dell' obbligo di assoggettare a Iva l’operazione gratuita nei confronti del dipendente.  che nel caso specifico sembra esclusa. Infatti il terzo comma dell’articolo 3 della legge sull'IVA  non ne richiede l’applicazione su  "somministrazioni nelle mense aziendali e alle prestazioni di trasporto, didattiche, educative e ricreative, di assistenza sociale e sanitaria, a favore del personale dipendente".

In tema di trattamento fiscale del Welfare e dei premi di risultato  l'agenzia ha emanato la corposa circolare 5 E qualche mese fa , ma non ha preso in considerazione il problema dell'Imposta sul valore aggiunto. Visto il recente sviluppo delle iniziative aziendali in questo senso, anche come modalità di erogazione dei premi di risultato, per cui è prevista la detassazione , risulta invece  auspicabile un intervento chiarificatore da parte del Fisco.




sabato 17 novembre 2018

Ferie non godute e indennità: quando si perdono



Se il datore di lavoro invita a fruire delle ferie e il lavoratore non lo fa, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, perde anche il diritto all'indennità sostitutiva, che invece spetta agli eredi: le sentenze della Corte di Giustizia UE.

Niente indennità sostitutiva delle ferie non fruite dal lavoratore, non richieste per sua volontà, in caso di cessazione del rapporto di lavoro. A stabilirlo è stata la Corte di Giustizia UE con le recenti sentenze C-619/16 e C-684/16). Diversamente il diritto del lavoratore a un’indennità finanziaria per le ferie non godute è trasmissibile agli eredi allorché sia deceduto (sentenza C-596/16 della stessa Corte di Giustizia UE).

I principi esposti dalla Corte si applicano sia in caso di occupazione nel settore pubblico sia in quello privato.

La monetizzazione delle ferie non godute per i dipendenti della Pubblica Amministrazione non è una procedura automatica e prevede un iter soggetto a limiti e alla presentazione di documenti specifici che possano motivare la richiesta di indennizzo sostitutivo.

Lo ha affermato da Corte di Cassazione con l’ordinanza 20091 del 30 luglio 2018, decisione che sottolinea come per poter incassare le ferie non godute sia necessario produrre documenti che dichiarino l’esistenza di circostanza e motivazioni specifiche che hanno portato alla necessità di rinunciare ai giorni di vacanza, in particolare definite esigenze di servizio o altre motivazioni inderogabili.

Nel rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, il mero fatto del mancato godimento delle ferie non dà titolo ad un corrispondente ristoro economico se l’interessato non prova che esso è stato cagionato da eccezionali e motivate esigenze di servizio o da cause di forza maggiore.

La Cassazione, in sostanza, pone un limite preciso ai dipendenti pubblici che accumulano un notevole quantitativo di ferie arretrate nella speranza di richiedere, successivamente, un’indennità sostitutiva tale da convertire i giorni di assenza non goduti in denaro percepito attraverso il compenso.

In particolare il diritto alle ferie si estingue quando queste non siano state fruite per volontà del lavoratore, nonostante l’invito dal datore di lavoro a farlo. E questo principio è valido anche con riferimento al periodo minimo legale, pari a quattro settimane di ferie retribuite, generalmente un diritto irrinunciabile e mai monetizzabile se non a fine rapporto di lavoro.

Nel caso esaminato dalla Corte, circa due mesi prima della fine del rapporto, il datore di lavoro aveva invitato il lavoratore a fruire della rimanenza di ferie, senza costringerlo a osservare date prefissate. Il dipendente tuttavia aveva scelto, per ragioni proprie, di fruire di soli due giorni di ferie.

La Corte UE ha dunque chiarito che le norme UE non sono contrarie alla perdita del diritto alle ferie annuali non fruite e, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, alla perdita del correlato diritto a un’indennità sostitutiva per le ferie non godute quando il lavoratore non abbia formulato richiesta di fruizione prima della cessazione del rapporto di lavoro e sia stato posto dal datore di lavoro, con informazione adeguata, in condizione di fruirne in tempo utile.

Questo perché viene ritenuto non legittimo il comportamento del lavoratore che si astenga deliberatamente dal fruire le proprie ferie annuali al fine d’incrementare la propria retribuzione all’atto della cessazione del rapporto.

Diversamente, in caso di decesso del lavoratore che non abbia fruito delle ferie che gli spettavano, il diritto all’indennità per ferie non godute non si estingue ma si trasmette agli eredi.

La Corte ha inoltre affermato che nel caso in cui il diritto nazionale escluda la possibilità per gli eredi di chiedere all’ex datore di lavoro del lavoratore deceduto un’indennità finanziaria per le ferie annuali retribuite non godute dal congiunto, gli eredi possono invocare direttamente il diritto dell’Unione.



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